*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 45698 *** _OTTONE DI BANZOLE_ (ALFREDO ORIANI) AL DI LÀ ROMANZO. Terza Edizione Quanto a quelle persone apatiche, che non conoscono nè le tentazioni dell'immaginazione nè del sentimento, confesso che hanno tutto il diritto di censurarmi, ma non so decidermi se abbiano quello di leggermi. CESAROTTI. MILANO GIUSEPPE GALLI, EDITORE _Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80_ 1890 PROPRIETÀ LETTERARIA Milano — Tip. Filippo Poncelletti, Via Broletto, 43. A coloro che dopo letto questo libro si credessero ancora in diritto di arrossire perchè solo il vizio vi figura e con tutto lo splendore di che il cuore e la fantasia dell'artista hanno saputo vestirlo, non ho che a ripetere le parole di uno degli spiriti più casti e profondi dei tempi moderni — la vertu dans les romans n'est bonne que à sagrifier — ed io mi sentivo troppo virtuoso per consumare tale sagrificio. INDICE PARTE PRIMA. CAPITOLO PAG. _PRIMA_ 1 I 17 II 30 III 46 IV 55 V 67 VI 78 PARTE SECONDA. Ugo ad Anselmo 141 PARTE TERZA. I 247 II 264 III 279 IV 291 V 307 VI 336 VII 363 VIII 382 IX 391 X 398 XI 419 XII 430 XIII 442 PARTE QUARTA. I 455 II 464 III 484 IV 496 V 503 _DOPO_ 515 AL DI LÀ PARTE PRIMA PRIMA Une personne de ma connaissance disait: Ie vais faire une assez sotte chose, c'est mon portrait _Pensées._ — MONTESQUIEU. Siamo a Bologna, una delle città più ricche e noiose d'Italia. In un mattino del maggio 1875 un giovane traversava la piazza d'armi, vasto quadrato chiuso da case borghesi, verso la Montagnola, che ergendosi sovra esso in largo spianato coperto di grandi alberi, è tutto il passeggio pubblico della città. Camminava affrettatamente e il suo passo non era di uomo libero in terra libera, andatura trovata da Guerrazzi e compresa da nessuno, ma di persona preoccupata; e l'aspetto signorile malgrado gli abiti negletti. Portava il cappello e la testa addietro mostrando una fronte corrugata con un volto pallido di una tale pallidezza biliosa, più viva per la barba nerissima: e il volto era maschio di lineamenti, qua e là scorretti come alla punta del naso e alla bocca, di cui le labbra piuttosto tumide, massime il superiore, avevano una espressione di sensualità e di alterigia. Gli occhi lucevano grandi e neri, la sua cosa migliore; e la persona sviluppavasi aitante con spalle larghe e petto prominente, malgrado il difetto delle gambe lievemente curve in dentro e natanti dentro calzoni larghissimi a seconda della moda. Presto giunse al limite della piazza, e salendone il pendio erboso si trovò sulla Montagnola. La mattinata era stupenda, il cielo limpidissimo, il sole abbagliante, ma il luogo triste malgrado la sua destinazione e l'ora. Quegli alberi densi, tutti di una famiglia, di una forma e di un'altezza, piantati con regolarità scrupolosa, hanno un'aria da cimitero: vi si sente troppo il lavoro dell'uomo e la smania della simmetria: non una linea è spezzata nel quadro, non un colore, una gradazione almeno attenua l'impressione del loro verde appannato: il piano netto, senza una pianta o un cespuglio; e solo i fusti alti, dritti, biancastri che paiono colonne. La campagna vi è assente, e la natura e l'arte vi fanno una figura egualmente goffa, senza una fontana che mormori o una spalliera che sorrida coi fiori e parli cogli odori: nessuna statua vi ferma, appena se qualche sedile vi aspetta, come le due vasche di pietra rossa ai lati del viale sulla piazza d'armi attendono l'acqua solamente dal cielo, e si riempiono solamente colla neve nei tristi inverni. Quelle due vasche sono melanconiche e forse anco pericolose pei ragazzetti che vi giocano dintorno la sera, intanto che le mamme cicaleggiano fra loro, o le serve incaricate di vegliarli si distraggono nell'ammirare la superba montura di un sergente di cavalleria, che cavalcando gloriosamente a piedi, passa loro sulla fronte come su quella di uno squadrone di coscritti. Se invece di pretenderla a bosco, la Montagnola fosse un giardino, pochi la varrebbero, ma con quegli alberoni che stando in mezzo tolgono ogni vista d'orizzonte senza offrire comodità di colloqui, senza fiori e senza acqua, è uno dei passeggi più poveri ed antipatici. Al di sotto corrono le mura, divise da una strada, cui si discende per un'altra parallela, ma grande e la sola ben ombreggiata da vecchi ippocastani. Il giovane si fermò al parapetto di una specie di balcone, che interrompe la siepe di confine, osservando le file lontane dei pioppi rigare in più sensi la pianura e l'orizzonte; poi si diresse verso un angolo vestito di boschetti adolescenti, e cadde sul primo sedile. Sembrava assai triste ed era solo. Rimase lungo tempo colla fronte nelle palme, indi rialzandola vivamente, come chi ceda ad un pensiero improvviso, trasse un taccuino e colla matita prese a scrivervi febbrilmente. Leggiamo. «E avanti... Ventitre anni mi son passati sul capo, ma non ho inteso che gli ultimi cinque; il loro volo era freddo e le loro ali mi scorticarono la fronte: una volta guardandomi nello specchio quel segno mi sembrò al pensiero puerilmente orgoglioso il solco di un diadema che avrei un giorno portato. Apersi i volumi dei grandi, lessi le pagine immortali e piansi di ammirazione e di invidia. E nella notte vennero a visitarmi immagini sublimi, e sedute sul mio letto in colloqui, che non saprei più ridire, mi chiesero col sorriso della donna innamorata che dessi loro una qualche sorella. Quindi sognai di essere grande, mi percossi il petto ed ascoltandone l'urlo profondo mi parve di leone, onde esclamai: Sarò re! Ma le immagini presto dileguarono e piansi ancora, poi scrissi. I pensieri mi caddero dalla penna come le gocce di sangue dalla mannaia del carnefice; i saggi mi sorrisero di compassione e sorrisi io pure... «Che sarà dunque la vita? E questa domanda morivami intorno senza risposta. Guardai, e vidi uomini logorarsela con micidiale fatica al solo scopo di mantenerla, altri consumarla nella noia in traccia del piacere, altri investigarla quasi la conoscenza ne potesse cangiare il modo o aumentare la durata, altri che la maledivano pensando al giorno di disfarsene, altri pochi che se ne disfacevano addirittura. Alcuni, che interrogai, mi mostrarono una donna, una borsa, un ciondolo, e non mi appagarono. Che sarà dunque la vita? Ne chiesi alla natura, e mi rispose; la madre e la figlia della morte: onde ne seppi quanto prima. E intanto mi sentivo come un viaggiatore stanco e sprovveduto che dovesse camminare senza strada, nè meta; la terra mi appariva sterile, il cielo una cappa di piombo come la volta di un immane sepolcro. Così durò finchè mi splendettero nella mente le visioni delle figure scomparse: poi mi si fe' buio nell'anima come intorno e mi calmai; l'uomo aveva ucciso l'artista. « — Ora, mi dissi, camminiamo confuso fra la folla che si urta, schiamazza e muore. La vita è una lotta inutile; lottiamo per lottare, per opprimere, per essere oppressi; tutto sta nei sensi, nella gioventù e nella salute, e se la felicità deriva dalla ubbriachezza, trattiamo la fantasia da sgualdrina e con l'inno facciamo una canzonetta. L'aureola della gloria è fosforescenza di legno imputridito, luce senza calore; l'amore una melopea da educande; la fede un vestito di fanciullo che indossato da uomo rende ridicola la persona e difficili i movimenti...; la speranza... oh essa è la polvere che sollevasi sulla strada e la nasconde — non vedendo ove si vada, nè a che distanza sia la meta, non possiamo figurarcela vicina e quale meglio ci talenta? · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Quando ebbi composto _Ugo_ nel sepolcro, gettai la penna e presi lo schioppo. Nato sui monti e partitone, vi ritornai, e li corsi — com'eran belli! Spesso giunsi sulle loro cime coll'alba, e vedendo i suoi raggi stendersi sui densi castagneti, mi punse il desiderio di passeggiare sulle loro foglie lucenti come sopra un tappeto. Spesso salutai collo schioppo il sole che sorgeva, e nel tuono ripetuto e prolungato intesi una voce che mi diceva: Sii forte, imitami — io salto di rupe in rupe, non mi arresto alla palizzata di un bosco, al muro di una balza, alla gola di un burrone; l'eco mi abbraccia, ma sfuggo e vado a morire nello spazio, lungi lungi... Avanti. «Queste parole mi commossero: scesi dalla collina e mi posai sulla sponda del fiume. L'acqua scorreva lenta, monotona, uguale, irresistibile: la vidi che percoteva le ripe per distendersi, ma invano, e si rompeva mormorando: Avanti... «La notte, quando la campagna taceva, uscii verso il bosco: nè luna nè stelle. I pini dormivano: ne scossi qualcuno, che mi rispose con un triste muover di capo: Avanti: non mi rammentare che sono condannato all'immobilità, lasciami almeno dormire! Passai oltre: i virgulti mi sferzavano le gambe susurrando. Arrivai ad uno spianato netto ed erboso: v'era un lepre, e fuggì. Mi arrestai, e il vento passando sulla fronte mi bisbigliò egli pure: Avanti!... Per dove? Mi ero ingannato credendo di camminare senza altro scopo che il moto, di lottare senza altra ragione che la lotta? «Il miraggio del deserto è dunque una consolazione e non uno scherno? «Avanti avanti, mi zufolava spietatamente negli orecchi la voce, ma nell'anima nessun'altra le rispondeva, e il pensiero, smarrito nei valloni del dubbio, non scorgeva nè sentiero nè orizzonte. — L'uomo aveva d'uopo dell'artista. «Ritornai a casa, e posato in un angolo lo schioppo mi sedetti allo scrittoio; la mano mi tremava febbrilmente nello stringere la penna, quando una folla entrò silenziosa per la finestra e per la porta. Clarissa, Virginia, Corinna, Margherita, Lelia, Cosetta si sedettero intorno sulle sedie ingombre di libri, e Manfredi, Hebal, Adolfo, Lambert, Faust mi cinsero lo scrittoio. «Tesi la mano a Faust. « — Anche tu mi ripeterai: Avanti! Fosti grande: vecchio sui volumi della filosofia un giorno la maledicesti; la intendo ancora quella tua ultima imprecazione — maledetta la pazienza! ma avevi i capelli bianchi e la schiena curva. L'occhio appannatosi sulle pergamene non metteva più lampi, e il sorriso errandoti sulle labbra si sprofondava dietro le gengive sguernite... Eri vecchio, eri un mostro... « — Ebbene? interruppe Faust. « — Ti sei mai pentito fra le braccia di Margherita del tuo patto con Mefistofele? «Faust guardò Margherita sogghignando, ed ella arrossì.» Due mani che gli si posarono sugli occhi gli fecero cadere il taccuino. — Una donna! — Bella? — Un momento, e le toccava le mani. — Bella? fu richiesto con voce tremola per la gaiezza di riso rattenuto. — Sì. — Da che lo supponete? — Dalle mani. — Potreste ingannarvi. — Non lo temete, contessa; ho sognato troppo ciò che potrebbero offrire. — Così che mi avete riconosciuta... — Al profumo, come i fiori. Le mani caddero, e il giovane volgendosi si vide innanzi una donnina gracile ed aristocratica. Vestiva un abito di seta giallognolo a frange di un colore più carico, col corsetto attillato e la gonna dietro raccolta, scoprendo così le forme della persona più sottile ancora che svelta, colle spalle acute e i fianchi pochissimo sporgenti: difetto più grave per la soverchia lunghezza della vita. E il petto senza busto tradiva appena la presenza del sesso, ma quella sua povertà era così insolente e sembrava ricordare così un'opulenza perduta nelle dissipatezze dell'amore, che più gonfio sarebbe stato meno seducente. Il viso aveva un'eguale fisonomia: di un ovale affilato anche troppo, un po' sgualcito, il naso lungo, la bocca grande coi denti magnifici e una fossetta sul mento. I capelli di un biondo italiano, quindi nè dorato, nè setoso, nè lucido, semplicemente biondo, si rialzavano in una eleganza gran parte nascosta dal cappello calabrese, colla tesa da un canto curva come un piatto e all'altro costretta sul cucuzzolo da una fibbia d'acciaio, dalla quale sorgeva una lunga penna di uccello forestiero. — Mi guardate? gli rispose a una lunga occhiata. — Lo sapete pure: mi sono promesso il vostro ritratto. — Sono troppo bella, che non vi riuscite? — Allora sarebbe già fatto. — Gentile... — Perdono, contessa, ma spero che non pretenderete alla solita bellezza dei vecchi e degli scultori. Nulla è più insipido di quella eterna regolarità di forme, e nulla più facile. In arte, come nel resto, io sono un ribelle e non amo le donne che rassomigliano alle statue. È la vostra bellezza che mi piace, perchè non risulta dalla plastica... — Che cosa scrivevate con tanta attenzione? lo interruppe accennandogli il taccuino caduto. — Nulla. — Vediamo. — Non capirete il carattere. — Impossibile, se comprendo il mio. E rise. Il giovane le porse il taccuino. — Sempre scettico? — Sempre. — Offritemi il braccio, se non vi rincresce, e camminiamo. — Bene! ella esclamò. — Che cosa? Indi: — Sicchè rinunciate all'arte? — Non vi pare che le mie _Memorie inutili_ mi diano ragione? — Sarò sincera: alcune pagine le saltai, molte mi annoiarono, certe mi divertirono. In quel romanzo si sentiva un convulso, una smania di malato: poi qua e là sfuriate poetiche e ridicole, motti potenti e schifosi: sopratutto mi ripugnava l'affettazione del pessimismo. — Dunque? — Avanti! come scrivete: parmi che vi debba essere un certo gusto a fare un romanzo. — Forse: ma non a scriverlo. La felicità nell'arte è come l'amore nel matrimonio. A venti anni noi sogniamo una commedia, un romanzo come le ragazze un marito, ma queste se ne pentono appena accalappiatolo, e noi scritto il primo ci accorgiamo che il secondo sarebbe ancora più imperdonabile. Brutta malattia sognare l'immortalità sentendosi continuamente mortale, moribondo e talvolta morto per giunta! — L'immortalità? ecco un voto modesto... — Vi stupisce? eppure nulla di più comune. Non vi è donna così onesta, la quale nel suo segreto non brami di essere agognata dall'uomo che l'avvicina per quanto brutto, non artista che bene o male scrivendo non sogni l'eternità. Voltaire diceva: che se quella gente, la quale piangeva alle sue tragedie, gliele vedesse scrivere calmo e qualche volta annoiato sulla sua poltrona, le fischierebbe indispettita: se potessero conoscersi i sogni fatti sui libri che appaiono, si leggerebbe forse di più. D'altronde i romanzi sono la gran volgarità. — Quelli che escono in Italia? — Oh! di questi non parliamo, ma gli altri tutti che ci vengono dall'estero, benchè infinitamente migliori, valgono ben poco. Il giardino dell'arte, frase officiale, si è isterilito da un pezzo: i grandi vi colsero i fiori, gli altri le erbe odorose, e adesso non restano nemmeno le ortiche. Guardate, per parlare dei romanzi: tutti i generi sono esauriti, storico, intimo, di costumi, fantastico, religioso, sociale: tutte le passioni anatomizzate, disseccate che se ne potrebbe comporre un museo. Dai castelli del Medioevo ai palazzi del Risorgimento, dalle capanne delle pastorelle ai salotti delle cortigiane, tutto fu rivelato e discusso: un giorno corsari misteriosi, l'altro galeotti pentiti: ieri si voleva guarire la società, oggi la famiglia. Si è cominciato dalle donne di vita perduta, poi si è venuto a quelle di vita facile — prima è toccata alla... mi sfugge la parola, adesso si esorcizza l'adulterio: i mariti applaudono benchè un po' tardi, le signore... — Le signore?... — Le signore si annoiano e il mondo seguita innanzi. Scrivere per scrivere è fatica; per moralizzare, oltre la noia che si dà, vi è quella che si prova, e non è poca. Davvero non so come si possano leggere romanzi che si rassomigliano tutti come i racconti dei cacciatori: scappa un uccello; sparo, o casca morto o tira dritto. Due si amano — o arenano nelle secche della virtù, o affogano, direbbe un morale appendicista, nella gora della sensualità. Convenitene, contessa: è noioso. — Oh! e sbadigliò leggermente. — E poi sempre quell'uomo e quella donna. — Che cosa ci vorreste? Per fare all'amore come per ballare bisogna ben essere in due. — Ma che necessità di un uomo e di una donna? Se si balla, siamo al solito uomo stecchito dentro l'abito nero, egli stesso quasi inamidato quanto i solini che gli corazzano il collo, e alla solita donna che perde gli abiti a mezzo la vita, ambedue esemplarmente composti: se si fa all'amore, eccoci ai soliti mustacchi neri che si specchiano negli occhi azzurri. — Mettete dunque due uomini. — Due uomini! Giocheranno all'_ecarté_ se hanno quattrini, se no si diranno delle insolenze, per fingere dello spirito. — Allora due donne. — Me lo consigliate sul serio? — Non vi comprendo. — Pur troppo non è la prima volta. E il giovane le strinse il braccio guardandola fisamente. — Spiegatevi meglio: aiutatemi a fare che sia l'ultima. — Subito: all'amante sostituisco una amante. — Il marito è in salvo. — Davvero! — Ma se mi pare che vi corrompiate, ella seguitò con gaiezza. Mi diventate morale... un amore femmineo, puro, delicato... Sarebbe mai per le critiche toccate al vostro _Ugo_? — Che! non mi arrendo già per una salva di moschetteria; anche i sovrani si salutano così. Poi il grido: All'immoralità! è un grido di guerra, e io non lo fuggo. — Sarete solo. — Ottimista!... Potrebbe anche darsi, ma coloro che mi fischieranno alla ribalta verranno a stringermi la mano fra le quinte, e se non verranno, tanto meglio! Del resto, il mio vero pubblico, il solo competente, questa volta sarebbero le signore belle, poetiche, sibaritiche come voi, e sono troppo signore per ammutinarsi colla virtuosa plebaglia della platea. — Ma dunque non sarà un amore puro?... Il giovane sorrise. — Così eccovi nuovamente infervorato a scrivere. — Chi ve lo dice? — Voi, mi sembra. — Discutiamo: sapete che sono avvocato. Voi mi chiedete un romanzo atteso che... permettetemi questi termini legali, il solo rimasuglio dei miei studii serii, ed io ve lo scrivo, ritenuto che... — Ne avete una gran voglia malgrado tutte le proteste. — Non vi affrettate: mi consentite un'ipotesi difficile sul vostro conto? — Veramente, siete avvezzo ad abusare... — Supponiamo che il mio romanzo vi piacesse. — Ebbene? ribattè la signora sorridendo cogli occhi. — Il romanziere potrebbe sperare altrettanto? La contessa, che durante il dialogo aveva avuto il tempo di cavarsi i guanti, si grattò con un'unghia, lunga e curva come il becco di un falco, una narice. — Non rispondete? — Se non l'ho ancora letto! — Lo leggerete. — Quando? — Neanche io ho preso la penna, ma invece vi piglio la mano. Si guardò attorno per vedere se erano soli, e suggellò il contratto con un bacio. Indi rialzando il capo con un'espressione d'ironia e di passione: — Madama, per questo bacio... — La monarchia è salvata, non è vero, signor Mirabeau? — Qualche cosa di meglio: spero di salvarmi io stesso. CAPITOLO I E ciò che inspira ai generosi amanti La sua stessa beltà donna non pensa, Nè comprender potria. Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto. _Aspasia._ — Leopardi. — Ebbene, Carlo? — Che debbo dirti? è strano per me stesso. — Sei alla vigilia di una grande scoperta — invece dell'America la donna; è probabile che non sarai più fortunato di Colombo. — Chi sa? Giorgio! Così parlavano seduti in un praticello, formato dal gomito della via, due uomini diversi di età e di aspetto, ma egualmente vestiti da cacciatori. E portavano un'ampia casacca di tela a scacchi gialli e nerognoli, i calzoni della medesima stoffa chiusi sul piede da uose alla soldatesca, una carniera a tracolla, una giberna in cintura piena di cartuccie e un cappello a larghe tese, che pel caldo avevano buttato sull'erba. Carlo, il primo nominato, chino il volto come in grave pensiero, si passava fra le dita il fischietto di zinco penzoloni a un occhiello del corpetto; e l'altro, ritto sul busto, tenevasi fra le gambe il calcio del fucile giocarellando, secondo il vezzo dei cacciatori non provetti, col cane, di cui lo scrocco dava un suono vibrato ed argentino; e guardava la campagna in quel mese di agosto splendida ancora di messi e di verzura, in quell'ora vespertina bella di una vivezza lievemente melanconica. Da quel praticello, l'occhio poteva spaziare davanti sulla distesa dei campi confusi lontanamente coll'orizzonte, o ai fianchi seguendo le ondulazioni dei poggi, che addossati, sinuosi, brevi, stupendi cingono e difendono Bologna a settentrione e a ponente. I quali, se dalla città appaiono belli nella ineguaglianza delle eminenze, nello scorcio degli aspetti, nella rottura delle facili balze ora nascoste dagli alberi, ora patenti per una villa sedutavi su, molto più belli si rivelano da una qualche loro cima. Infatti la loro duplice e triplice cinta non può essere vista che dal mezzo in tutta la poetica deformità della sua ossatura, e allora i colli sembrano prorompere da ogni lato, gareggiare e sformarsi nel medesimo sforzo. Qualcuno si appoggia al vicino che impedisce il libero dispiegarsi dell'altro; e dove uno domina esile, acuminato accanto ad un altro più forte che abbassata la testa mostra solo la schiena rotonda e verdeggiante: quale si piega addietro quasi respinto duramente nella lotta e rimane un pendio comodo e continuo; quale soffocato si discerne appena, e tutti insieme rivali ed amici si intrecciano, si serrano, si sostengono, si parano della bellezza di tutti. Certo nel passato l'acqua dovè farvi un gran lavorío, perchè s'incontrano fenditure profonde e tortuose, quasi corsi rasciutti di ruscelli, e declivi così ripidi e lisci che altrimenti non si capirebbero. Dalle falde che arrivano ai piedi della città cominciano le ville distendendosi in arco: alcune si adagiano confusamente sulla prima erta dove è spezzata, circondandosi d'alte piante o si affacciano curiose guardando sulla strada: o montano e dove incoronano le cime più basse, dove superata mezza costa si sparpagliano; molte scompaiono fra colle e colle e si nascondono in una conca, si rizzano giulive sopra una vetta, o allontanandosi a gruppi si fermano in un fantastico bacino, alla svolta di una strada, sopra un verde pendice; e misurandosi l'una l'altra si salutano, si parlano, s'invidiano, animano la campagna vestendone il terreno piuttosto ingrato di floridi vigneti e di giardini. Però se in folla piacciono, isolate male soddisfano la ragione e la fantasia dell'arte, generalmente case quadrate, di rosso dipinte, a tegole rosse e finestre verdi, borghesi, volgari; rarissima qualcuna che senta veramente di villa; nè serietà nè bizzarria nel disegno, nè originalità nè differenza nel tipo, anzi tipo nessuno, nè italiano, nè svizzero, nè inglese, nè francese, nè orientale, nè antico: pettegola l'eleganza, il lusso falso ed ignorante. Certo i colli sono magnifici, non per potenza di vegetazione ma per struttura; e se in maggior numero terrebbero testa agli Euganei, se più grandi e col mare, Napoli non sarebbe più il paradiso terrestre o i paradisi sarebbero due. E da quel praticello spingendo innanzi lo sguardo si vedevano campi, poi campi, e di essi per buon tratto le divisioni tracciate dai filari: qua una riga di pioppi, là fulgenti al sole le acque di un macero, e le case coi muri biancheggianti e i tetti neri: poi le cime degli alberi si abbassano e accostandosi si livellano. Solo a grandi intervalli nel verde lontano la macchia biancastra di una borgata o di una città, pare una vela sul mare; più lungi ancora il verde si fa scuro, più scuro, indefinibile: la terra si eleva, il cielo si abbassa; ambedue come due amanti al primo abboccamento mutano colore, si sfiorano... si baciano, e il sole curvo sull'orizzonte illumina dall'alto quel bacio e sorride. E in quel mare ancorata ai piedi del colle Bologna, simile ad un grosso vascello con la gran torre per albero maestro, sottile ma robusto, a quando a quando pel tremolìo dell'atmosfera quasi pieghevole. L'ora era deliziosa, la natura in tutta la pompa della sua estiva opulenza. Giorgio guardava distrattamente. A un tratto una rondine dall'ali nerissime e la coda biforcuta guizzò sul ciglio della strada, ma scorti i due cacciatori scivolò sul pendio prima che Giorgio avesse il tempo di puntarla; ritornò al di sopra, e impaurita a un secondo movimento di lui, che la aspettava, si alzò così rapidamente da evitare il colpo. Egli la segui col fucile sino oltre il tiro da cattivo cacciatore, la vide salire con manifesta fatica, poi abbandonandosi sull'ali fuggire come un nero baleno dietro il colle, donde si udiva un garrire di compagne. Poco appresso spuntò un falco e intorno a lui uno stuolo di rondini. Giorgio rimase guardando. Non era nè un corteggio di sovrano, nè una battaglia di molti contro uno, o se pure, la battaglia era finita: i pigmei avevano vinto il titano, i fischi accompagnavano il vinto. L'ali tese e quasi immobili il falco sembrava ritirarsi, ma le rondini lo perseguitavano, come i monelli un orso per istrada, gli volteggiavano intorno, lo chiudevano in un circolo, lo insultavano, lo deridevano. Leste quanto il pensiero gli passavano sugli occhi, ed egli pareva non avvertirlo, si riunivano a gruppi, si parlavano nel loro linguaggio chi sa che propositi oltraggiosi, e sciogliendosi tornavano ad arruffargli le piume del becco col vento del loro guizzo... e il falco si librava lento, solenne. Le rondini disperate di irritarlo acquetano il garrito, si ritraggono adagio, perfide, indifferenti; qualcuna si allontana in linea retta, impicciolisce, dilegua; l'altre si sparpagliano, salgono, si abbassano, si riuniscono ancora, in crocchio congiurando a bassa voce — e il falco s'inoltra lento, solenne. D'improvviso una si spicca, batte l'ali colla prestezza di un insetto, oscilla, serpeggia, trasvola... sembra che tema di non raggiungerlo, e nullameno quando gli è presso si raffrena, s'erge... e con una inesprimibile rapidità gli scivola sotto — il falco sente, si precipita, senonchè la rondine più leggiera lo evita con uno scambietto e sollevandosi nuovamente getta alle compagne il segnale della vittoria. Allora accorrono a stuolo, lo circondano, lo sbeffeggiano; il falco esacerbato si ostina a una caccia impossibile: ne insegue or l'una or l'altra sempre superato di agilità, sempre delirante di rabbia; si dibatte, si piega su ogni lato, si disserra, finge un istante di stanchezza, ripiglia il gioco, si accanisce e nullameno è vinto, sbertato, fischiato.... — Povero falco! esclamò Giorgio; eccolo là come un uomo di genio fra la folla dei mediocri... Guarda dunque, Carlo, seguitò volgendosi al compagno e accennandogli nell'aria quella scena. Questi alzò gli occhi. — Ebbene? chiese Giorgio con accento nervoso. L'altro lo fissò un momento senza rispondere e ricadde nelle proprie riflessioni. Come dicemmo al principio, cotesti due uomini erano assai diversi d'aspetto, non belli ed entrambi notevoli. Quello in piedi, alto e gracile della persona, quello seduto col mento sulle ginocchia, grosso e mal costrutto, sebbene in quella attitudine lo apparisse meno, ma la sua testa calva dinanzi e irta nel resto di capelli rossicci risolveva quasi l'antico problema della quadratura del circolo, essendo rotonda per natura e schiacciata nullameno da ogni lato, mentre gli occhi piccoli erano verdastri e i denti sporgenti dalle labbra con una vanità esagerata, anche per una bianchezza da zanne di elefante. Però, attentamente considerata, la sua fisonomia non repugnava; vi si leggeva molta intelligenza e una serietà, che a certi momenti poteva diventare quasi nobile. Ma la differenza fra loro derivava ancora più dalla espressione che dalla diversa irregolarità dei lineamenti. Giorgio aveva sembianza di una natura privilegiata, incompiuta forse, forse anche sciagurata; nella bianca pallidezza del suo volto sarebbesi detto stemperato del lividore, mentre la vivezza delle sue grandi pupille nere rispondeva stranamente alla contrazione della bocca pochissimo tumida e atteggiata ad un penoso sarcasmo. Ciò dipendeva da natura o da abitudine? Probabilmente d'ambedue, e probabilmente ancora questa contraddizione delle labbra e degli occhi egli la portava nella testa e nel cuore. Se l'artista avesse un tipo speciale come è di un'altra razza, lo si sarebbe a primo colpo indovinato per tale. Carlo invece era un borghese grave, intelligente, triviale: la sua persona mancava di eleganza, la sua faccia non esprimeva nessuna passione; forse non ne aveva che di pacifiche, quali le predilige il Manzoni, o se a caso violente, violente d'istinto piucchè di sentimento: mentre Giorgio doveva sentire tutto intensamente; nervoso, delicato, eccessivo. Scomparso il falco, Giorgio tornò a sdraiarsi, e deposto il fucile sull'erba stette considerando il compagno. Questi si mosse. — Ci pensi sempre? — Dicevamo? rispose col tono di chi sprofondatosi in un'idea vuole rifarne il corso senza smarrire il punto cui è arrivato. — Ah! esclamò Giorgio sogghignando: che sei alla vigilia di scoprire la donna. Non mi hai detto che la marchesa ti è un mistero? Saperla un mistero è già qualche cosa. — Ma non saperne altro... — Massime per un innamorato. — Non lo sono, ribattè con asprezza. — Lo diventerai; si è sempre abbastanza giovani per commettere una sciocchezza; poi a quarant'anni se l'amore è più difficile in compenso è più pericoloso. Quegli abbassò il capo. — Credi, domandò dopo una pausa, che ci sia qualche cosa sotto questo invito? Quella donna vorrei capirla... — Non so se ti sarebbe un bene o un male. Sei alla vigilia, se già forse non l'hai scoperta, di scoprire la tua donna: comprenderla è un altro affare. Ti ho paragonato a Colombo, e insisto nel mio paragone. Invece che qui, a un miglio forse da San Mammolo, sovra una collina di Bologna, ti suppongo sopra una costa del nuovo mondo: bada che invento perchè non ci sono stato: il terreno arido ed ineguale non presenta ancora nulla di strano, di magnificamente lussurioso, di tropicale; nè alberi, nè fiori, nè animali. Il cielo è azzurro, il mare verde come in Europa; eppure nella terra, nel mare e nel cielo si sente una inesprimibile diversità di un altro mondo. A fronte ti si alza un poggio, sulla cima del quale il vento soffiando ribatte le rose di un _gazuma_... e al di là? ecco il mistero: l'amore. Sei alle falde, ti senti attirato e dubiti di salire: monta dunque e guarda. — È presto detto! monta e guarda... ma bisogna essere giovane per salire la collina, o se vi mancano le forze non rimane altro tentativo che di una corsa disperata... come di un cacciatore dietro un lepre ferito. Si potrebbe forse arrivare sulla vetta... — E una volta sulla vetta, se invece di un giardino ti si affacciasse una palude? L'altro non rispose ed egli seguitò quasi fantasticando: — Allora guai! perchè ridiscendere la collina sarebbe rinunciare all'orizzonte ed al sole... Rimasero entrambi pensierosi, ma probabilmente assorti in opposti pensieri. Giorgio guardando il cielo sembrava quasi sognare, mentre Carlo colla fronte aggrottata, il labbro inferiore fra i denti, s'agitava nella soluzione impossibile di un inevitabile problema. Il sole si chinava sulla collina e giù nella pianura l'ombre si allungavano bizzarramente. — Ci andrò, proruppe alla fine discorrendo seco stesso: non sono già un ragazzo da avere paura, nè ella è tanto dotta da confondermi. È bella, ma se ne veggono di più belle; non è vero, tu, Giorgio? — Che cosa? — Sei intrattabile colle tue distrazioni. — Lo so: dunque? — Domani ci vado. — Ne ero sicuro. — Perchè? — Ti ho veduto riflettere, e gli innamorati non sono mai più sicuri di cedere alla passione che quando vogliono assoggettarla. — Ma se ti dico di no, che non l'amo, che non è vero! ribattè l'altro indispettito. — Che cosa m'importa quello che dici? Tu ci pensi a questa donna, ci pensi come non pensasti mai a nessuna delle cause che ti hanno fruttato maggiormente riputazione e danaro. Che vale dissimularlo? Ti comprendo: il tuo carattere freddo, positivo si rivolta all'idea dell'amore alla tua età, nella tua posizione, ammogliato da poco, con una bella moglie e una suocera assidua (qui Giorgio sogghignò e Carlo sorrise), dell'amore con una straniera stravagante, alla quale basterà forse di fermarsi due mesi a Bologna per essere gridata un mostro da tutte le signore oneste senza virtù, disoneste senza spirito. Tu hai paura dell'amore come dell'ignoto... e vuoi sapere perchè domani andrai a pranzo dalla marchesa di Monero? per provare a te stesso che non l'ami, che la puoi sedurre a sangue freddo, e che giovandoti della tua superiorità di dotto la sedurrai — e sai ancora come si chiama questa maniera di attacco? una fuga in avanti. Ebbene, vai, Carlo: provati a lottare; una gentildonna e un avvocato, ecco un duello interessante... e poi ascoltami: se non vai domani a pranzo, ti converrà andarci posdomani a presentare le tue scuse dell'invito ricusato e a riceverne un altro. — Tu approvi dunque? — Io? no, non faccio che constatare un fatto. E tu pure, proseguì animandosi, non sfuggirai all'amore: ti si è svegliato tardi, ma pure si è svegliato. Eterna malattia della vita! amare una donna senza saperne la ragione e senza riuscire a farsi amare, perchè fra questi due mondi non vi è ponte e nessuno è stato, nè sarà mai così forte da gittarlo... Che cosa ami tu in quella donna, che ti confessi un mistero? La bellezza delle sue forme, la voluttà di tale bellezza, ma la sua anima, la sua vita no, perchè questo è appunto il mistero. Non amare di più; amala come la nave corre sul mare sempre sulla superficie, e quando la stringerai fra le braccia e la vedrai sorridere, non ti chiedere per chi sia quel sorriso: tu sarai forse per lei uno strumento, ella per te — non vi è ponte. L'amore è un solitario che abita in noi stessi, e di cui la poesia è un soliloquio: non la conosciamo, e tutti gli sforzi per indurlo a parlare o per gettarlo nelle braccia di chi chiamiamo amante costano a noi e a lui una inutile tortura. Non chiedere alle donne che ti amino e non amarle, ma sii poeta ed ama l'amore. L'arpa non sente la musica, e non ti parrebbe pazzo chi, innamorato della musica, stringesse l'arpa sul cuore? Quelli che amano una donna sono appunto così, e sono ancora più infelici che pazzi... Musica, odori, voluttà: un'arpa che ha suoni migliori, un fiore che ubbriaca col profumo, una voluttà che accarezzando il corpo solleva l'anima e addormenta l'amore in un sogno inenarrabile, ecco tutto... ma bada a non innamorarti, per Dio! innamorarsi mai. E rafforzò questa ultima parola con un colpo di fucile addosso ad un povero passero che passava assai fuori di tiro. Carlo, che vide l'uccello così lontano, non potè frenare un atto d'impazienza. CAPITOLO II E avvenne una sera che Davide, levatosi in sul suo letto e passeggiando sopra il tetto della casa reale vide d'in sul tetto una donna che si lavava, la quale era bellissima di aspetto. Ed egli mandò a dimandare di quella donna. _L. II. Samuele_, C. XI. Un levriero dal pelo bianco e arruffato che spuntò correndo alla svolta della strada attrasse l'attenzione dei due cacciatori. — Bello! esclamò subito Giorgio, e lo chiamava; ma il cane, cui forse la fucilata aveva messo in orgasmo, scorrazzava guatando e cercando da ogni lato, e a un tratto s'accostò a Carlo, dimenando la coda quasi all'incontro di una vecchia conoscenza, non però tanto vicino che sembrasse stretta: e lo fissava con due occhi sfolgoranti di curiosità. Questi impallidì e si levò. Poco stante s'intese il calpestio di due cavalli al passo: il levriero scomparve d'un balzo latrando festosamente: indi ritornò, ma una donna lo seguiva tenendo un cavallo per le redini; ella si arrestò, fe' un gesto di stupore: l'avvocato impallidì, e mentre Giorgio meravigliato li guardava, comparve, una figura nera sopra un cavallo bianchissimo. Sarebbe stato un bel quadro: di fronte i due cacciatori col capo scoperto, ella in mezzo alta e bianca, vestita di un'amazzone nera che stringendole la vita con un corsetto dei più attillati scendeva in gonna a pieghe folte e minute da una forte ampiezza di fianchi sopra due stivali graziosi nella forma, quanto erano stupendi i piedini che calzavano: in testa invece del goffo cappello cilindrico portava un berretto indescrivibile, ornato con un largo nastro e una fibbia di bronzo dalla quale si alzava una mezza ala di fagiano. Aveva i capelli nerissimi, ai tacchi lo sperone ungherese, sull'abito nessun altro ornamento che i cordoni per allungarlo o raccorlo, a seconda camminasse o cavalcasse. Alle spalle le stava un cavallo baio di rara bellezza, bardato con finimenti bianchi, curvo del collo disegnando un arco, e la criniera e le briglie sfioravano quasi il terreno. Così libero e immobile, che sarebbesi detto pensoso, gli occhi intenti sull'orme della padrona, aveva del fantastico. Dietro a qualche passo contrastavano vivamente la mora col suo cavallo: questo bianco, arabo, colla testiera e le redini di seta, quella vestita pure di un'amazzone nera ma, invece del cappello, con un velo egualmente nero sulla testa e una larga cintura di cuoio alle reni. Era bellissima per la sua razza. Il cane ruppe primo il silenzio, e la signora avanzandosi verso l'avvocato, che cercava degli occhi il cappello sull'erba per torsi l'imbarazzo delle mani vuote: — Ritorno appunto dalla vostra villa, gli disse col più amabile sorriso. — Oh! — Ero venuta per un colloquio e la signora mi ha trattenuta così, che malgrado il mio serio bisogno, me ne sono quasi scordata. Carlo s'inchinò per ringraziare, egli marito, di questo complimento alla moglie. — Mi permettete, ella riprese con accento più gaio, d'invitarvi adesso da me? Debbo chiedervi consiglio per una lite che mi si minaccia. Siccome contavo di passare questo inverno a Bologna, il mio corriere mi aveva scelto in quel goffo palazzo dei Fantuzzi l'appartamento nobile e l'altro interno per ridurlo a serra. Io amo i fiori come i bambini amano i confetti. Adesso il padrone, giovandosi di qualche inesattezza di espressione corsa nella scrittura vuole togliermi quello della serra, così che dovrei cercarmi un'altra casa. Ciò è spaventoso, ed ero corsa da voi ad accaparrarmi il primo avvocato di Bologna e vincere la causa. Oh! non arrossite, proseguiva vedendolo colorarsi in volto a quella adulazione: quando si sortì ingegno nascendo e si spese la miglior parte della vita in uno studio, si ha diritto ad essere stimati; la modestia conviene a noi donne, che non abbiamo altri meriti. E un fine sorriso le passò sulle labbra. — Che cosa mi dite mai, signora marchesa... — Vedete, il sole tramonta. — E la caccia è finita, molto più che non ne abbiamo fatto. — Coraggio, gli rispose Giorgio con una occhiata: se ne offre un'altra. Ma la marchesa non se ne avvide, rivoltasi ad accarezzare il cavallo che le lambiva la mano sguantata. — Ai vostri ordini, le disse quindi l'avvocato raccogliendo il cappello e adattandosi con certa galanteria il fucile sulla spalla. — Accettate di accompagnarmi? mille grazie; ma allora aiutatemi a presentare le mie scuse al signore, cui se non guasto più la caccia, tolgo il piacere della vostra compagnia. — Tieni, egli ribattè indirizzandosi a Giorgio con famigliarità malamente spiritosa: tu che mi trovi sempre noioso; ma non temiate di disturbarci, signora marchesa: quando sono con lui ozioso di professione, ozieggio io pure. Concedetemi pertanto di presentarvelo. — Il conte Giorgio De Vinci. — La signora marchesa di Monero. Giorgio mosse un passo e le si inchinò colla grazia di un perfetto gentiluomo. — Debbo accettare l'assicurazione del mio avvocato? — Pur troppo: non ho motivo per trattenere Carlo, e me ne duole perchè avrei il piacere di sagrificarvelo. — Sai, Giorgio, gli si voltò Carlo vedendo la marchesa disporsi a proseguire: tornando a casa, puoi passare da Mimy e dirle che se avessi a tardare non s'inquieti: sono dalla signora marchesa. — Ah! il signor conte la vedrà questa sera... e si fermò. L'occhio le cadde sopra un mazzetto di amorini sprofondatosele nel seno fra il vano di due bottoni: ne lo estrasse e presentandoglielo: — Potrei pregarvi, signor conte, di portarglielo, ricordandole che lo ponga domani sull'abito bianco? Capriccio! aggiunse smorzando il tono delle parole; ho domandato alla signora Mimy di mettersi domani l'abito bianco, che finiva appunto di ricamare, e le mando questo fiore, il solo che convenga su quello. Sarà così bella in quell'abito!... Egli prese il mazzetto, e la marchesa barattando un'occhiata con Carlo: — Allora, signor conte, bisognerebbe che dopo accompagnato questo mazzetto dalla signora Mimy, accompagnaste lei domani a pranzo da me. Veramente è un abuso, ma dirò al mio avvocato che lo difenda come un diritto... — Accetto, accetto: sono stato giurato e conosco Carlo. Tutti sorrisero, meno la mora, che, immobile sul cavallo, pareva non vedere e non intendere. Quindi la signora, facendo al conte un grazioso cenno, si mosse; l'avvocato si lanciò per prendere a mano il cavallo, ma questo fe' uno sbalzo. — No, no, Bothaina, ella esclamò chiamando l'animale aombrato e che ubbidì subito alla sua voce: vienci dietro così: libera come lo eri nel deserto. Vedete, Bothaina non può soffrire gli uomini; io sola la monto e Zisa la cura. Vi pare strano? proseguì vedendolo tra il meravigliato e il confuso. — Piuttosto... — Perchè? Vi sono pure tante mogli che non sopportano i propri mariti. E rise: egli l'imitò per non sapere di meglio. Poi le offri il braccio. — Neppure, rispose, temperando però il rifiuto con uno sguardo lusinghiero: è tanto raro che ci possiamo muovere libere che non so rinunciarvi e mi ritiro in campagna quasi per ciò solo. Guardate i miei abiti: preferisco l'amazzone a tutte le vesti da salone: in sella, e via su Bothaina e il vento che rompendosi vi fascia la fronte come un velo... Se sapeste quanta voluttà proviamo noi donne, a battere fieramente il tallone agitando le braccia invece di appoggiarle timidamente su quelle di un cavaliere spesso più fiacco di noi! Andiamo, Bothaina. L'intelligente animale nitrì e le si appressò quasi a lambirle il collo; ma ella lo respinse dolcemente, e fatto un ultimo saluto al conte si avviò con Carlo, del quale il portamento imbarazzato e l'ineleganza della persona apparivano adesso più vivamente. La mora li seguiva, sempre rigida, e passando innanzi a Giorgio non salutò come avrebbe dovuto un paggetto. Giorgio rimase ascoltando il calpestìo che s'allontanava, poi ricoricossi sull'erba e considerando gli amorini: — È strano! e parve cadere in una fantasticaggine. Il sole era già scomparso dietro il monte. I suoi ultimi raggi, aperti sopra l'azzurro del cielo come un immane ventaglio di fuoco, venivano mano mano smorzandosi: la luce si velava intorno e la campagna acquistava fondi più carichi e tinte più riposate. La sera montava dalla pianura allargandosi e insieme attenuandosi in alto, bella di una sommessa mestizia e di un sereno appannato. Appena qualche rumore fra le siepi e qualche voce dai campi. Gli alberi perdevano le fisionomie e laggiù l'Appennino si faceva bruno come un vecchio muraglione; pareva quasi un ammasso di nuvole trasportate da una bufera... poi si ottenebrava ancora e l'occhio si arrestava ai primi colli sui quali l'orizzonte si era abbattuto come una tenda. La pianura si era alzata e i pipistrelli usciti guardinghi dagli ignoti ripari vagolavano silenziosi ed incerti. Invano la canzone di un passeggiero in ritardo avrebbe voluto essere lieta, mentre l'ombra avvolgeva tutto fra i suoi veli, e ogni gorgheggio cessava fievole come il soffio del vento fra le piante frementi nei verdi mantelli. Epicureo moribondo, un fiore olezzava tuttavia, e una novoletta sospesa nel cielo quasi un'amaca sembrava aspettare qualcuno per andarsene. L'infinito che circondava la terra era svanito per sempre; solo la luna piccola e solitaria impallidiva nel cielo: adesso la terra era piccola. Giorgio fantasticava. L'Avemaria scoccò al campanile di una parrocchia, quelli della città le risposero, e un tumulto di suoni chiocchi e villani turbò per qualche momento la tacita serenità della sera. Egli parve risentirsene. Qua e là per l'ombra brillava un lumicino o si alzava, ombra più densa, il fumo di un camino; laggiù nel piano prorompevano le fiammelle dei lampioni, così che da lunge poveramente e fantasticamente illuminata Bologna rassomigliava un grande cimitero corso da fiaccole mortuarie. — Che miseria quei lumi! esclamò finalmente. Ecco quanto gli uomini hanno saputo sostituire al sole; e se domani si dimenticasse di sorgere non avremmo nemmeno abbastanza luce per vederci morire. Dopo questa bizzarra riflessione raccolse il fucile sulla spalla e si allontanò. Lasciando la strada carrozzabile che saliva in serpeggiamenti alla vetta della collina, di là prolungandosi per erte e pendii, si mise per un sentiero chiuso da alte siepi di acacie, e digradando fu in fondo ad una valletta; donde rimontò per una strada frequente di ville, in quella stagione tutte abitate. Spesso s'incontrava in coppie di villeggianti, udiva dai cancelli il riso di persone sedenti al fresco, travedeva qualche forma biancheggiante di donna o ne intendeva la voce che talvolta cantava. Dopo mezz'ora si arrestò ad un piccolo cancello. — Come mai aperto! Lo spinse ed entrò in un recinto a quella luce incerta nè giardino nè bosco, piuttosto folto di alberi, in gran parte platani ed abeti: e si fermò al principio del viale che dava nel mezzo del casino. Una finestra del primo piano era aperta e n'usciva lume: un'ombra a quando a quando lo intercettava. Quindi le corde di un piano vibrarono. — È Mimy! e internandosi fra gli alberi venne a postarsi dietro un grosso ippocastano, contro la finestra, cinto al piede da un boschetto. Ascoltò. L'ombra fremeva: gemè un preludio di Chopin così delicato che parve il sospiro della sera: non saliva, non insisteva: erano note come staccate che si diffondevano svanendo in una melanconia senza nome, e altre seguivano egualmente lievi, e poi altre ancora e il tono calava e il silenzio sembrava palpitare. Se quella era una musica di dolore, divina ed infelice l'anima che lo patì! E dal preludio si svolse un canto indistinto, lento, ma a volta a volta con uno slancio ineffabilmente appassionato come di una farfalla legata ad un filo: una lotta soave e crudele che non poteva esprimersi senza quelle note e abbisognava della sera bruna, piena di reminiscenze e di brividi prima che la luna versasse tutto il suo chiarore e la solitudine si popolasse coi fantasmi della notte. Sembrava un'aspirazione verso un ideale incompreso che sorgesse da un'anima chiusa in una forma gracile e stupenda, come un dolce odore esala da un bel fiore, e perdendosi inutilmente si dolesse della propria delicatezza. Le note si fecero più rare, s'abbassarono languenti, sfinite... Il piano era muto e Giorgio commosso ascoltava ancora. Guardò alla finestra: l'ombra non passava più innanzi al lume. Quella musica sembrava aver desto l'anima del bosco, le frondi susurravano fra loro: qualche ramo luceva al raggio di una stella affacciatasi al suo balcone d'azzurro, mentre nell'aria udivasi come il passare di aerei fantasmi dalle lunghe vesti sibilanti che si inseguissero: la rugiada inumidiva lagrimosa le verdi pupille delle foglie. Giorgio era solo: nella casa e nel prato era silenzio. Attese che la musica ripigliasse fra la trepidazione della sera. D'improvviso sprizzarono le note di un fandango ebbre di risa e di baci e la voluttà levandosi in sussulto parve gittarsi nella ridda e riempirla di un disordine fragoroso e lascivo: gli occhi neri avventavano lampi, le bocche fremevano e il respiro ingrossandosi faceva arrovesciare le teste coi capelli ondeggianti... La ridda precipitava più veloce e più nuda, perchè le note, quasi mani convulse, alzavano le vesti... Giorgio fu trascinato: non potè resistere, si girò attorno un'occhiata e abbracciandosi d'un tratto all'albero cominciò una difficile e pazza ascensione. Giunse trafelato sulla forcata che la tormenta del Fandango aveva raggiunta la foga di una tormenta di sabbie e le ultime note cadevano soffocate, stritolate. Nella camera non si vedeva che un doppiere sopra un tavolo. Una bestemmia gli si frantumò fra i denti, ma indi a poco una donna, vaporosamente vestita di una lunga veste bianca, s'appressò al tavolo e si assise sulla poltrona: la sua posa era languida e la sua figura si rifletteva dietro in un alto specchio, illuminandosi più vivamente nel chiarore della lastra. — Se Ossian la vedesse in questo punto, Giorgio pensò, la paragonerebbe a Sumalla o ad Evirallina. La donna non si moveva dalla sua stanca posa; una treccia discesa in una piega della veste ne usciva sciolta in ciuffo; forse ella aveva cominciato a disfarla e s'era fermata prima che a mezzo. Passarono alcuni minuti: indi colla mano libera riprese la treccia, la disciolse, la diffuse: slegò il mazzo dell'altre lasciandone intatta una sola, e stette guardando fisamente per la finestra. La tenda era immobile, il vento era cessato; ella pure stava immobile e le candele la lumeggiavano. Sospirò forte, poi aprendo lentamente le braccia fe' colla testa un atto inesprimibile di seduzione, quasi che un fantasma le stesse dinanzi e non intendendosi bene col linguaggio degli occhi si movesse per abbandonarla: ma le mani non le caddero abbattute, anzi si levò, andò allo specchio e vi si mirò intenta. Poi si volse alla finestra; la tenebria facevasi mano mano più densa. Dal ramo, che stringeva colle ginocchia a guisa di una sella, Giorgio osservava comodamente nella stanza per il vano delle tende. Mimy si slacciò al collo la veste rigettandola dalle spalle perchè scivolasse; la veste scivolando si gonfiò come una nuvola e la nascose sino ai ginocchi; ella non aveva più che la camicia, strana, attillata quanto un abito, con un ampio bavero alla marinara e una cintura alle reni che le disegnava vagamente le forme della persona. Così contemplandosi si accomodò i capelli, stirò una calza scesa borghesemente in crespe, allentò la fascia, si sbottonò il pettorale con lentezza quasi di amante, che volesse bere a sorsi le voluttà delle bellezze che scopriva; poi lo staccò, e poichè voltava il fianco alla finestra, Giorgio potè ammirare una divina forma femminea. La camicia era diventata una mantellina a maniche. Allora si ammirò ella pure; poi fanciullescamente, a passi piccini, venne a prendere la mandola in sul tavolo, trasse la poltrona allo specchio e vi si adagiò: ma depose l'istromento sulla veste invece di toccarlo. All'insistenza della propria contemplazione quella donna doveva essere innamorata di sè stessa, poichè la vanità non bastava a spiegare la lunga e raffinata osservazione del bel corpo. Nella sua attitudine che avrebbe entusiasmato uno scultore posava dinanzi a sè medesima. Mollemente sdraiata sulla poltrona, colla camicia gettata sul dosso come un mantello, i capelli ondeggianti, una mano sotto il seno e un piede che scherzava colla cornice dello specchio, mentre la gamba vi si rifletteva in tutta la purezza del suo profilo... ella si inebbriava, insuperbiva forse, e non aveva torto. Le sue forme erano di grandezza mezzana ma di una inesprimibile castità artistica — bianca, bionda, fanciulla, all'aria estatica del volto e al fremente errare della mano forse assorta in un sogno di amore: sola, nuda, allo specchio, la mandola ai piedi, i capelli diffusi — figura poetica ed originale di voluttà e di bellezza! Giorgio la divorava. La stravaganza della sua ascensione sull'albero era superata dalla stravaganza di quella scoperta e dall'estasi solitaria di quella donna davanti a sè stessa e in sè stessa, giacchè quella nudità così pura e insieme così impudente prestavasi alle più bizzarre e audaci divagazioni. — Bella!... bisogna ch'io l'abbia, mormorò stendendo nell'ombra una mano verso di lei. La scena durava da quasi un'ora e la donna sembrava essersi assopita, quando un colpo piuttosto violento all'uscio la scosse. Stette in ascolto. Fu bussato nuovamente. — Chi è? ella chiese indossando lestamente la veste e respingendo d'un piede il pettorale sotto lo specchio. Giorgio non intese risposta, ma probabilmente fu un io, e questo era Carlo. — Che cosa facevi? domandò colla sua grossa voce fermandosi sulla soglia. — Nulla, rispose con un cenno. Le si accostò e fissandola talmente negli occhi, che dovette abbassarli, spinse la mano a una carezza: Mimy volle ritrarsi, egli le si chinò all'orecchio; ella fe' un gesto supplichevole, ma l'altro la trasse verso la finestra con un braccio alla cintura. Così Giorgio perdeva la vista dei loro volti: la notte era bruna e il doppiere rimaneva nel mezzo della camera dietro di loro. S'intese un grosso bacio. — Maledizione! ruggì Giorgio agitandosi sul suo ramo; ma è un'insolenza! almeno rispettassero la sensibilità dei vicini. Ma la scena peggiorava. — No, no, proruppe vedendoli abbandonare la finestra: bada, Carlo, che lo avrai voluto! E lasciandosi cadere penzoloni dal ramo, da quello su di un altro, senza badar al fruscio delle foglie sensibile mentre taceva il vento, scese dalla forcata e scivolò lungo il tronco. A terra si fermò, incerto di presentarsi coll'amorino o di uscire pel cancello; si decise per questo. In due salti lo toccò: era chiuso; tese l'orecchio, nessuno. Allora si mise a scavalcarlo, e come lo inforcava, si arrestò colpito da un'idea. — Ah! la marchesa di Monero! la rivincita di Carlo!: balzò dall'altro lato e sparve nell'ombra. Il lume brillava sempre alla finestra e il lettore può, se gli piace, risalire sull'ippocastano. CAPITOLO III «Caro amico, «Ti scrivo: perchè? veramente non lo so, ma giungendo alla fine della lettera forse non lo saprai tu pure e ripetendoti questa domanda non avrai più ragione di me adesso. La testa mi gorgoglia, i miei sensi fremono ancora. «Che penseresti tu, superiore anche nella virtù alla plebaglia borghese e che scherzi talvolta colla tua fantasia come Pericle con Aspasia, di una visione notturna, di una donna, la quale ti apparisse solamente vestita di luce e bianca, bionda, sublime si ammirasse nello specchio con tacita e solitaria voluttà; se la sua voluttà si fosse prima alzata in lamento e il lamento fosse poi scoppiato in un inno? Che penseresti, vedendola allungarsi sopra una poltrona bruna, cogli occhi socchiusi come nell'abbarbaglio di una visione fuggente e le mani tese per dirle: cedo allo splendore della tua divinità, abbasso le palpebre e schiudo le braccia, scendi e dammi un bacio? Se il petto le si sollevasse mollemente e i capelli corsi da brividi luminosi le ripiegassero la testa quasi nello spasimo di una ebbrezza insufficiente ed eccessiva? «Questa donna mi è apparsa: mi sapresti dire che cosa ne penso, perchè l'ignoro ancora e mi è d'uopo saperlo? Stavo a cavalcioni sopra un ramo, ella in una stanza chiusa a chiave. Contemplandola ho sentito ridestarmisi nell'animo la gioventù addormentata da tanti anni. «Una donna giovane e bella, che viene a rinchiudersi nella sua stanza solo per vagheggiarsi nuda allo specchio, prodigandosi carezze mestamente e timidamente lascive; così raffinata nella voluttà da compiacersi a coglierne le più fuggevoli espressioni sulla propria immagine e così innamorata della bellezza da adorarla per ore in sè stessa; una donna che assetata d'amore s'ubbriaca bevendo al proprio calice... ecco davvero una donna e una prepotente seduzione. Ella è innamorata di sè stessa: però questa passione deve aver deviato. Verso chi spingevasi prorompendo la prima volta dall'anima? Quale ideale conteneva, giacchè ogni passione deve avere il proprio ideale, il proprio germe di felicità, che non si svela o non scoppia se non nel suo cielo, nella sua regione? «Ecco quanto non so. «Tu conosci, amico, la mia opinione sulle donne; bisogna dunque che sia bella colei sulla quale deve posarsi il mio pensiero, e che brilli, perchè simile alla farfalla esso non s'innamora che della fiamma. Byron non ammetteva le donne a tavola; io le voglio solo ad istanti e che dileguino appena tramonta il sole ond'erano belle, o la stanchezza mi si appesantisce sugli occhi e sul cuore. Davvero non comprendo come si possa, nonchè la vita, trascorrere tutta una giornata con una di loro; come dopo essere salito sopra una barca soffice di fiori, abbandonandosi alla corrente di un fiume incantato, stringendosi fra le braccia un fantasma divino, per mezzo ad isole paradisiache, con dietro un palazzo di nuvole, con un vento di profumi nei capelli e un vento di poesia nell'anima: come si possa, ritornando da quelle regioni del sogno e trovandosi sopra un divano non sempre di seta, in una camera spesso plebea, in faccia ad una donna imbecille, non sentirsi tentato di fuggire e fuggire dalla finestra se chiusa la porta: non capisco come libato il vino si possa annusare la tazza, strappati i fiori odorare il fusto del mazzo. E non intendo nemmeno come bruciando dall'amore si possa andare marito in camera della moglie, amante a casa dell'amante, disoccupato nel mezzanino della cortigiana alla stessa maniera che al caffè per un gelato o alla tabaccheria per un sigaro, così accettando un'altra forma da quella che vi ha commosso e transigendo coll'ideale quando nell'ideale solamente sta il piacere, patteggiando col tempo nell'aspettare che la moglie abbia finito di pettinarsi, l'amante siasi liberata da una visita importuna e la cortigiana vi dichiari che è arrivato il vostro turno. Quando il fumo della voluttà mi sale al cervello e la febbre mi gitta addosso il suo caldo mantello, se per disgrazia sono solo corro a serrarmi nel gabinetto, socchiudo le finestre, abbasso le tende così che si faccia una tenebria indecisa, e stendendomi sul divano mi avviluppo nella mia passione, e sogno. Allora mi sento intorno un aereo fruscìo di vesti, un sibilar di capelli: e le forme stupende dei sogni mi passano davanti coprendomi di lunghi sguardi, gettandomi ineffabili sorrisi, salutandomi con gesti intraducibili. Non mi muovo: mi circondano, mi si aggirano a cerchio, mi passeggiano sul capo, s'intrecciano, compongono quadri che mai genio di artista compose più belli; si atteggiano, m'inebbriano, mi straziano. E vorrei che una forma reale fra quelle vacue s'insinuasse; vorrei udire un rumore più distinto; discernere la voluttuosa pesantezza delle carni, e mentre un alito infiammato mi lambirebbe la fronte e due braccia rotonde mi cingerebbero il collo, adagiare il capo sul guanciale di un seno. Oh! il piacere è una religione e pochi gli iniziati a' suoi santi misteri! Colui che prostituisce il momento dell'amore con una donna fredda o sconosciuta, che se la stringe fra le braccia prima che il petto minacci scoppiargli, è un infame come il poeta che vende la propria inspirazione, come la bella che discute il salario delle sue compiacenze. Siate innamorati amando; aspettate che la marea monti, il vento si levi, irrompa la tempesta e il sole la illumini, se volete godere le angoscie divine della passione. Il mio amore è un oceano, e io sono come quell'audace che salpava solo quando lo vedeva burrascoso... «Ogni piacere deve essere in noi essenzialmente d'immaginazione: gli orientali fumano l'oppio. «Che una donna mi commuova e la voglio subito, lei con quell'abito, con quella espressione, atteggiata di quella gioia, di quel dolore: non si schermisca, non dilazioni: via le oscenità del pudore, le goffaggini della capitolazione; o mi lasci prenderle la vita o prenda i guanti e se ne vada, o si esalti meco o si irrigidisca come il marmo, sicchè debba fuggirla come Pigmalione la statua, se Giove non si fosse per lui intenerito al miracolo. Perchè sillabare grottescamente la pagina più bella della vita invece di declamarla con entusiasmo? Perchè affibbiarsi il piviale della religione o il lucco della legge, mentre l'amore l'invoca nuda, e il pensiero le si insinua sotto le vesti e glie le slaccia, glie le strappa? «Greco in ciò, come nel resto, voglio la bellezza nuda, ma più spiritualista del paganesimo greco, voglio nuda la nudità — vi è sempre un velo sulle carni quando tutti gli altri sono tolti: vi è un pudore che non ha d'uopo che di sè stesso per coprirsi e non arrossire più; e colei, che ho sorpresa allo specchio, era più nuda che fra le braccia di un amante, nuda come si può esserlo davanti a sè stesso in un'ora di voluttà delirante. Se ella fosse mia, io, tanto superbo, me le butterei alle ginocchia colle mani in croce, perchè mi si mostrasse un'altra volta così, e, se nol volesse, la ucciderei, e, se nol potesse, credo che la prostituirei per renderglielo più facile. No, Anselmo: finchè quel velo è fra loro, i corpi non si combaciano e le anime non si fondono: strappatelo e la passione, come Mefistofele, ve ne farà un mantello, sul quale posando i piedi veleggerete nell'infinito... «E, profondamente scettico, quando ti scrivo non so parlarti che di donne e di amore! Tutto è inutile, filosofia, religione, incredulità: finchè la gioventù tresca col cuore e civetta colla fantasia, non cessiamo di compiacerci nelle meschinità sensuali della donna. Che giova se la ragione, appartandosi dal tumulto dei sensi e dei sogni, ripari sopra un dirupo e di là sogghignando sulle figure folleggianti pel prato dichiari la musica piazzaiola, la baldoria villana, le forme inestetiche, gli ornamenti triviali, i fiori selvatici? Non le badiamo, e slanciandoci nella ridda turbinosa ci pare assai di stordirci, mentre dovremmo sublimarci. Poche ore fa mi stimavo di molto superiore a Carlo, il povero innamorato della marchesa di Monero, nel battermi con una donna, e avere volentieri sfidato il sole per osservare i suoi raggi rimbalzare in frantumi sulla mia corazza di diamante — non era diamante ma ghiaccio. «Ti ho detto, la testa mi gorgoglia di idee e i sensi mi fremono ancora. «Sono stato dissoluto, lo sono e lo sarò. Nato coll'animo di un grande artista, quantunque non abbia prodotto cosa alcuna, nè la produrrò per un difetto organico, una inadeguazione fra il sentimento e il linguaggio, fra la concezione e la forza di estrinsecazione; e divorato miseramente da tutte le passioni ho dovuto spossare l'ingegno cogli sbalzi della giovinezza, stordire l'anima coi piaceri del corpo; perchè incapace di mostrarmi grande non ho voluto e non voglio parere mediocre; perchè non potendo avere un Dio da adorare, e quello sarei io medesimo, mi occorrono degli idoli da infrangere, e sono le donne, che mi amano. Sono dissoluto, perchè vi è un'amara voluttà nel sentirsi al di sopra della vita che si conduce, nel porre, dilapidando le proprie ricchezze, sul capo ignobile di una cortigiana una corona, che più accuratamente brunita farebbe levare superba la fronte di una regina: sono un dissoluto che si ubbriaca per non piangere, un mendico che nasconde sotto i cenci un enorme diamante mal faccettato. E adesso, io che delle donne preferisco la qualità alla quantità, ero senza amanti se costei non mi appariva; ma dovrò battermi per conquistarla e la guerra sarà terribile e fuori del mio mondo maschile, con una forma diversa, più bella, che si difenderà con tutto il vantaggio di armi meglio temprate e di conoscere perfettamente il terreno. «Il cimento è eroico. «Ti confesso che scrivendoti mi sento battagliero; vorrai tu tradurre innamorato? Forse ne avrai la malignità, forse anco avrai abbastanza spirito per non ingannarti. Comunque sia, debba o no innamorarmi di quella donna, e innamorandomene sedurla o essere respinto, questa lettera è soverchiamente lunga, e sebbene la mia calligrafia mi faccia supporre che ne salterai almeno la metà, mi rassegno a troncarla. «Una ultima parola — sono stato invitato per oggi dalla marchesa di Monero, quella signora che scandalizzò a Rimini tutte le nostre eleganti col bizzarro buon gusto delle sue acconciature e colla sua cameriera mora — me lo disse la contessina S***. Non è assolutamente bella, ma può essere affascinante. Carlo ne è una prova, sempre più ridicolmente imbarazzato dall'altera disinvoltura de' suoi modi. Ieri, incontrandoci, ella m'incaricò di portare un mazzo a Mimy; ecco come accadde l'invito e il resto. Andrò a pranzo da lei, giacchè mi preme verificare un motto della S***, la quale, poveretta, non può perdonarle di averla affatto ecclissata; un giorno che parlavamo di lei, veggendola passare a cavallo, mi disse: «Si regge meglio in sella che in conversazione.» Guai se mi ha ingannato! come temo; glie ne scriverò tante da farla inverdire per la stizza. _Vanitas vanitatum,_ mio caro. Un poeta latino domanda: Che cosa è più leggiero del vento? la polvere; della polvere? la piuma; della piuma? la donna; della donna? _Nihil._ «Che s'inganni? che della donna sia più leggiero chi se ne innamora? «Ti lascio questo problema per obbligarti a rispondere.» Così scriveva, ritornando a casa dalla scoperta di Mimy, il conte Giorgio De Vinci. CAPITOLO IV Studio i ricci che porta sulla fronte, i fiori che mette negli abiti, la maniera onde mi porge la mano, la prima parola che mi dice, il primo silenzio che mi serba. Non le ho ancora detto: Vi amo, ma forse lo sa; ho interrogato troppe cose su lei perchè nessuna mi abbia tradito. _Lettere_ — OTTONE DI BANZOLE. L'indomani all'undici, Giorgio, montato su Allah, magnifico cavallo andaluso, balzano da tre e tutto nero con una stella bianca in fronte, partiva dal suo casino alla volta di quello di Mimy: era vestito con eleganza cittadina, che goffa per sè lo pareva maggiormente in campagna; ma contro i decreti del destino e della moda ogni recriminazione è vana. E davvero quel tubo lucido sulla testa, quei calzoni fino sul piede uniformemente larghi, quell'abito senza nome nella lingua e che, aperto dinanzi, terminava in coda di rondine, spaccato nel mezzo, onde ne usciva ridicolmente il grugno della sella, contribuivano mediocremente a rendere bella la persona e romantico il cavaliere; però, all'espressione del volto, pareva contento di sè e ratteneva Allah accompagnando del corpo con grazia perfetta gli ondeggiamenti del suo passo lungo e nervoso. Era giunto sulla strada maestra, che da porta San Mammolo si prolunga in serpeggiamenti per una stretta valle, e aveva rivolto il dosso a Bologna con un trotto vigoroso, quando ad una svolta distinguendo fra una nuvola di polvere come due donne a cavallo, si spinse al galoppo. In un attimo fu loro presso e ormai le pareggiava, ma esse si slanciarono a tutta carriera o prendessero la sua corsa accelerata per una sfida o glie ne gettassero un'altra. La raccolse e schioccando la lingua fe' spiccare tre balzi ad Allah, che lo portarono oltre la seconda donna, ma la prima lo avanzava e il suo cavallo baio correva come il vento. — La marchesa! esclamò superando la mora: via, Allah: Allah si avventò disperatamente: la strada faceva un gomito: spronò, ma svoltando la vide che, frenata la cavalla, si moveva tuttavia a piccolo trotto. La raggiunse: ella china sulla criniera di Bothaina ad accarezzarla non lo avvertiva. — Siete voi, signor conte! disse finalmente voltandosi allo scalpito dell'altra che arrivava. Indi con vivacità: — Ci volevate proprio inseguire? credete che mi avreste raggiunta? — Chi è quell'uomo che possa rattenere una donna se voglia fuggirlo o raggiungerla se fugga? Ma chi fugge o teme od abborre! — In questi due casi mi avreste inseguita? — Forse... per sapere il perchè. — Sperando di raggiungermi? — Facendo almeno scoppiare il mio cavallo. — Ecco un complimento che un'altra potrebbe prendere per una dichiarazione. E un superbo sorriso le contrasse le labbra. Proseguirono senza chiedersi per dove. Poco dopo si fermarono al cancello aperto di un casino, borghese nel disegno e peggio ancora per una specie di giardino, che gli si stendeva dinanzi rotto ad aiuole con qualche albero e due statue di gesso. — La villa della signora Mimy? — Sì, rispondeva Giorgio tirando indietro il cavallo per lasciarla passare. — Mi spingete ad entrare? — Forse che la signora marchesa non ne aveva l'intenzione? Ella gli lanciò uno sguardo scrutatore, ma il volto di Giorgio aveva la migliore indifferenza del mondo. — Infatti è vero. E s'inoltrò risolutamente accennando alla mora di attendere. Al rumore delle cavalcature sui ciottolini del viale una figura bianca apparve e si ritrasse prontissima da una finestra al primo piano, ma non tanto che la marchesa non la riconoscesse: d'un salto ella fu alla porta. Giorgio si buttò da cavallo per aiutarla, ma troppo tardi; e si avviarono a braccetto preceduti da un servo mal livreato. Si fermarono in un salottino decente, colle pareti e la vôlta nascoste da una tenda di mussolina fiorata. Poco stette a presentarsi l'avvocato commosso fino alla confusione. — Lo debbo a te, senza dubbio, disse dopo esauriti i primi complimenti, questo regalo di condurmi la signora marchesa. — Perdono, ella rispose sorridendo mordace: ma la colpa o il merito è tutto mio: il signor conte mi ha incontrata, o meglio raggiunta per strada, e scambiò seco un'occhiata, e abbiam proseguito insieme. Stamane mi sentivo uno strano bisogna di moto: il caso o, se permettete, l'amicizia mi hanno guidato verso qua e una volta sulla via... Vorrei accorgermi di riuscire importuna per farmi perdonare dalla signora Mimy. Queste parole disinvoltamente pronunciate imbarazzarono subito Carlo. La conversazione non si legava: l'avvocato sbirciava Giorgio invocando aiuto, ma questi non gli badava o distratto secondo il solito o volesse giudicare, come scriveva al suo amico, dello spirito della marchesa lasciandole tutto il peso di quel goffo silenzio. Questa lo sentì; quindi andando verso un mazzo di rose sulla tavola lo prese quasi per esaminarlo: una sorgeva sull'altre col gambo rotto nello sforzo di piantarlo dentro il fusto. — Guardate questa rosa: non pare che le dispiaccia di trovarsi in tanto crocchio di compagne? un mazzo di rose è come un circolo di signore: si mescono spine e profumi. Liberiamola: chi sa con quale piacere si sarà destata al bacio del sole sperando forse di morire, quando tramonterebbe, in un ultimo bacio... Il destino! E se la poneva in seno. — Allora baciatela, rispose Giorgio, quando il sole tramonta e la rosa morirà contenta: appassire a un occhiello del vostro abito è un destino ben migliore che nel vano di due pruni. Carlo sospirò approvando: avrebbe desiderato un fine uguale, solamente alquanto più remoto. — La signora Mimy? ella gli domandò. — Credo che si vesta. — Non venivate dunque dalla sua camera? A questa domanda bizzarramente indiscreta anche per lo sguardo che l'accompagnava egli provò un sussulto. — Io? no, ero nello studio quando il servo è venuto ad annunciarmi che la fortuna mi era piovuta a casa. — Cioè salita. Giorgio era andato alla finestra nel cui mezzo, fra le tende, pendeva una canestrina di fiori, opera di Mimy, stupendamente imitati. — Mi permettete che vada a vederla? ella proseguì: ieri la pregai di mettersi l'abito bianco, non vorrei se ne dimenticasse. Quindi senza attendere la risposta facendogli col capo un intraducibile cenno di saluto, di carezza, di beffa sparve dietro la porta per la quale egli era entrato. — Non capisco! proruppe dopo un momento con voce dispettosa. — L'ho sempre creduto, ribattè Giorgio meravigliato di vederlo solo. — Sei un insolente. — Adagio: non ti ho ancora detto avvocato stamane e non hai diritto d'insultarmi. Ma che cosa hai? la marchesa t'imbarazza? Eppure sei solo. — Appunto per ciò. — È andata a cercare Mimy? Questo prova che non hai saputo trattenerla e che te la preferisce: infatti ha ragione. Tua moglie è una creatura molto amabile, tu semplicemente un avvocato molto stimato, molto dotto e anche molto noioso. Ma, Carlo! la marchesa è una donna di spirito, la vuoi sedurre, e sempre che la vedi diventi impacciato, ridicolo. Queste parole sono dure, però sono la verità, niente altro che la verità. Eppure dovresti capire che mancando di galanteria bisogna imporsi coll'audacia o coll'ingegno. Ti credevo più avanzato, ma sono contento di essermi ingannato: così mi avveggo di avere ancora delle illusioni da perdere. L'altro andò alla finestra. — Eccole là! Camminavano lentamente, le spalle rivolte alla casa; la marchesa le stringeva con un braccio la vita mentre coll'altra le teneva cavallerescamente il cappello sopra a ripararla dal sole come un ombrellino; Mimy aveva la testa bassa, coll'abito bianco serrato alle reni da un nastro cilestro e le lunghe treccie abbandonate. La marchesa le parlava all'orecchio come un uomo, ma così accosto che il suo alito doveva lambirle il collo. — Andiamo a raggiungerle! disse Giorgio. Carlo rimase alla finestra considerandole con malinconia: quel bellissimo gruppo lo avviliva. Brutto e quantunque robusto già sul declivio dell'età sentendosi inferiore disperava della propria passione, che tanto più s'accendeva quanto meglio penetrava la possente e strana bellezza della marchesa. Le forme di lei voluttuosamente rivelate dall'abito avevano tale vigore e nullameno i suoi gesti tanta grazia, l'espressione de' suoi occhi era così altera e quella del suo sorriso così procace; quella donna aveva tanto ingegno e tanta audacia che non si poteva non desiderarla, non amarla ardentemente... ma era impossibile dirglielo e più impossibile ancora conquistarla. Si sentì piegare sotto questo pensiero siffattamente che per non cadervi sotto scese a precipizio in giardino. Arrivò che Giorgio e la marchesa si tenevano testa. — Così, le diceva, rimproverate agli uomini di non saper amare? — Forse che avrei torto? — Perdono, ma il mio sesso mi costringe a credere che sì. — Il vostro sesso! Ecco la grande ragione degli uomini, il perchè di ciò che chiamano amore. Ma si può veramente amare ciò che non si comprende, e quale è l'uomo, per quanto fornito di genio, giacchè parlando di loro bisogna pur sempre supporlo, che comprenda il cuore di una donna o abbia una mano tanto delicata da aprirne le porte senza infrangerle, da montarne l'altare senza rovesciarlo? Sanno amare! ma intendono nemmeno il linguaggio della passione? — Cosa dicono adunque le parole di Amleto sulla bara di Ofelia? — Quello che il ruggito del leone, cui il cacciatore uccide la leonessa. — Ruggito sublime! — Selvaggio. Ma sia: ma quello è uno sforzo nel quale concorrono l'odio, l'ira, il dolore, la morte; egoismo e sensi che ruggono vedendosi sfuggire la preda. Amleto scenderebbe forse nella fossa, ma la vanità ve lo spinge, ma a questa Ofelia così cara che cosa avrebbe da offrirle se viva? Quando avesse intesa la poesia di quella creatura l'avrebbe sagrificata alla vendetta del proprio padre, un ubbriacone, all'ambizione di regnare sui Danesi, un gregge di bufali? La passione d'Amleto è sublime, voi dite: trovatemi dunque un aggettivo per l'altra di Salmaci o della Piccola Sirena di Andersen. — Favole. — No, simboli: gli uomini, seguiva con sdegnoso sorriso, sanno amare! Quale parte hanno fatta alla donna nella conquista del mondo? Magnanimo questo amore... Nella nostra società la donna è nulla: vergine, la si educa alla maternità del matrimonio riducendola ad un ballocco che si ammira finchè nuovo, ad una macchina da partorire, che si logora e si rompe partorendo. Di lei si preferisce il corpo all'anima e si dice al suo cuore: sii fedele al padrone — quindi un sonetto, un monile sono il premio del sagrificio. — Ma allora, interloquì Carlo attonito, la donna... — Gli uomini non la comprendono. — Eppure, replicò Giorgio, deve agli uomini che pensano, agli artisti che creano la grandezza cui è giunta. — Gli artisti menano questo vanto ma è una vanità come tante altre. La donna misconosciuta nella società non esiste nell'arte. La Grecia ne ebbe un cadavere nella Venere, il mondo moderno non ha nulla, perchè le vergini e le madonne cristiane, limite estremo della bellezza, sono un tipo umanamente falso. La nostra forma è bella, possiamo dirlo con orgoglio, ma sotto i vostri scalpelli si fa inanime, sotto i pennelli si altera, e perchè? perchè non conoscete la donna. I nostri sensi sono infinitamente più fini, la nostra anima sarebbe inferiore? Gli uomini, amandoci, userò questo verbo, passano vicino alle nostre siepi e non s'accorgono che dietro sta un giardino: pirati, approdano ad un'isola, si fermano un'ora in un seno e ripartono non solo pretendendo di averla conosciuta, ma di essersene impadroniti. — Stupendamente espresso! proruppe Carlo. — Ripiego d'avvocato per non darmi ragione: ma non importa: sono le donne che debbono approvarmi. E gettò uno sguardo a Mimy, che abbassò gli occhi. — Siete dunque pentita? ella riprese dopo brevissima pausa. Mimy spalancò due occhi del più bel ceruleo. — Il mio amorino? — Eccolo, disse Giorgio: ho pensato che Mimy lo gradirebbe assai più dalla mano che lo offriva, e l'ho conservato. — Confessa piuttosto, intervenne Carlo, che la è stata una delle tue solite distrazioni. — Mai. — Non è vero, Mimy, che ho avuto un buon pensiero? — Ebbene? insistè la marchesa. Mimy le alzò gli occhi nel viso, e guardandola con aria di dolce rimprovero mormorò un sì fievolissimo. La marchesa le prese allora il capo con dolcezza, e chinandoglielo quasi all'altezza della propria bocca le mise l'amorino in un riccio, così che pareva caduto dal cielo. Si riprese la conversazione: poco dopo, una carrozza si fermò al cancello e la mora entrò ad avvisare la marchesa. — In viaggio, signori, ella disse gaiamente. L'avvocato fe' qualche osservazione, perchè aveva egli pure la carrozza, ma dovette arrendersi. Quella della marchesa era un magnifico calesse ad otto molle, tappezzato di un damasco azzurro a fiorami più cupi: due cuscini ricamati distinguevano i posti delle signore. Giorgio cavalcava allo sportello: ultima veniva la mora. Si udì un nitrito: era Bothaina che rimasta libera pel prato aveva girato dietro la casa, senza che niuno le badasse nei preparativi della partenza, e accorreva colle orecchie tese. — Bothaina! gridò la marchesa; l'intelligente animale accostandosi alla carrozza dal lato di Mimy mise dentro la testa per ricevere una carezza. — Come si fa adesso? domandò l'avvocato. — Bothaina può seguirci così. Partirono; una nuvola di polvere densa e leggiera li accompagnò lungo la strada. CAPITOLO V Et veritablement je ne sache rien de plus hideux a voir pour quelqu'un de sang froid que... et ce visage enflammé de la plus brutale concupiscense: mais si nous sommes ainsi près des femmes il faut qu'elles aient les yeux bien fascinés pour ne nous prendre en horreur. _Les Confessions._ — ROUSSEAU. La sera dello stesso giorno Giorgio, Mimy e l'avvocato si trovarono assieme nel salottino, per chiacchierare dopo cena, ma non parlavano che a monosillabi. I due uomini erano pensierosi, nei movimenti quasi irrequieti. Carlo si alzò come chi prenda una risoluzione. — Te ne vai? gli chiese Giorgio con uno sguardo. — Ho una causa che mi preme: poi sono stanco. Tu resti con Mimy. — Buona notte, ella ripetè senza levare il capo dal ricamo. Rimasero soli: egli sdraiato sulla poltrona fumando lo sigaro; ella china sopra un fazzoletto ricamando. La luna, che illuminava lenemente la camera, si nascose dietro una nuvola; e Giorgio rimase nell'ombra, mentre sul volto di Mimy la luce della fiamma a petrolio velata da un cappello di rose tremava lievemente. Era ancora più pallida, quindi più bella del consueto, coll'abito bianco e sui capelli l'amorino appassito della marchesa; solamente la pettinatura cominciava a scomporsi per l'indocilità dei ricci, alcuni dei quali le coprivano le orecchie e avanzandosi sulla fronte unita e liscia le cadevano sulla radice del naso come il fiocco di un cavallo. — Mimy... Ella lo guardò interrogando. — Non dici nulla? penserai forse: anch'io penso a te in questo punto. Ella si strinse famigliarmente nelle spalle ripiegandosi sul ricamo. — Sai che cosa mi figuravo? Che questa tua placidezza copre molta rassegnazione e il tuo pallore molta malinconia. — A proposito di che tutto questo? — Di tutto e di nulla: un'idea che mi ha traversato la mente e, se non fossi con te, aggiungerei, che mi ha fatto battere il cuore. Mimy, mi fai un piacere? — Sentiamo. — Fai o non fai? — Cugino, peggiori tutti i giorni: sei stravagante, diventerai pazzo, rispose con un sorriso di carezzevole compiacenza. — Forse per colpa tua. Levati e va alla finestra. — E poi? — Niente altro. Ella comprese, e levandosi con mollezza andò lentamente ad appoggiarsi sul davanzale. — Sei bella così! esclamò Giorgio, che l'aveva seguita con un gesto di ammirazione. Ella non rispose. Col capo chino sulla spalla stava addossata a uno sportello in una attitudine di fantasticaggine: l'abito, le treccie, la finestra, la luna che omai riappariva, l'oblio forse in un pensiero d'amore, nulla mancava per comporre una romanza; se Giorgio non fosse stato poeta nell'animo, forse ne avrebbe provato il solletico. Invece le si venne al fianco, posando i gomiti sul davanzale e voltandole il viso nel viso. Ella non se ne commosse; la luna scaturì con poetica compiacenza dalla sua nuvola come un brindisi alla fine del banchetto e li avvolse nel suo sguardo luminoso. — «Povera Emilia, l'idolo dilegua e il cavalier,» mormorò fra i denti. — Che cosa canti? — Niente: un notturno che canto spesso; è molto malinconico. — Come la tua vita. — Chi te lo ha detto? — Forse è necessario che ci si dicano certe cose? Il fiore del loto, dice un gran poeta, non può sopportare il raggio del sole e amoreggia la luna. Credi che sia felice quest'amore? Luce e calore, amore e voluttà: ecco l'atmosfera della vita. Sai, Mimy, come passi pel mondo? Pallido fantasma traversi la terra come in processione accanto al marito trovata per via, coperta di un gran velo nero: la tua gioventù è una salmodia monotona, la tua bellezza una statua nel fondo di uno studio, che pochi conoscono e nessuno ha sentita ancora, tuo marito pel primo. — Ebbene? chiese punto meravigliata di quelle comparazioni e quasi approvandole. — Ebbene: non so quello che mi dica; ma pensando di te, e mi accade spesso, provo un senso di pena. Mi pare che tu debba aver bisogno di uno che animandoti col suo spirito ti cangi la processione in una scorreria fantastica di un mattino di primavera, e dalla monotona salmodìa tragga una musica come il terzo atto del _Faust._ Mimy appoggiò la testa allo sportello e rimase pensierosa. Era una notte stupenda. In fondo al cielo sereno oscillavano nuvole turchine che la luna salendo imbiancava della propria luce; un immobile splendore dormiva sui campi lontani, mentre qualche raggio penetrando tra gli alberi del bosco sembrava volervisi nascondere; ogni cosa taceva. Una molle stanchezza pesava sulla natura. Nessuna stella brillava: solo quelle nuvole oscillavano lentamente aspettando un soffio di vento per proseguire il loro misterioso viaggio. Giorgio si scosse: fe' qualche passo per la stanza, poi fermandosele innanzi, — Vuoi scendere in giardino? — A che? — A passeggiare. — Se non ti dispiace preferisco di restar qui. — Allora suonami il tuo notturno favorito. — Per carità... — Dunque... parliamo se non vuoi far nulla. — Ascolto. Invece di parlare tacquero: la conversazione era impossibile, ma intanto che Giorgio vi si sforzava Mimy rimaneva insensibile. Allora la prese famigliarmente per le mani e sollevandosele al volto come per osservare il ricamo al lume di luna la staccò piano piano dalla finestra, senza che opponesse resistenza — si trovarono quasi nel mezzo della camera, Giorgio al buio, Mimy sull'orlo della striscia luminosa segnata sul pavimento; avevano i volti accanto, così che allungandosi egli dubitava di baciarle la fronte o le mani, Mimy rinvenne: in quel punto un bacio ardente le cadde sulle dita e violentemente attirata barcollò sul petto di lui. — Giorgio! balbettò resistendo. — Non ti muovere: ho bisogno di guardarti, di toccarti, d'altronde non hai nulla a temere! aggiunse con voce più dolce. Senti, sei ancora fanciulla, sei bella, se ti vedessi ora potresti darmi ragione senza vanità, ma sei infelice. Qualche cosa ti manca al cuore, forse pure allo spirito: ma amerai. — Io! — Ti pare stravagante?! Carlo non poteva comprenderti; tu ti consumi alla sua ombra come un povero gelsomino soffocato da un'ellera: divori per nutrirti il tuo profumo, ma questo profumo che respirato da un altro sarebbe essenza di vita per te è di morte. Qualche volta ti ho sorpresa a guardare Carlo e nel tuo sguardo ho notato tutta la penosa meraviglia della tua anima pensando di essergli moglie. Nega se puoi. Io lo capisco, Mimy il tuo notturno... — Il mio notturno! — Il tuo notturno, la tua malinconia, quello che non dici a nessuno, che confessi forse appena a te medesima quando sei ben sola. Oh, ascoltami! ho bisogno di parlarti. Quindi tenendosi sempre le sue mani al petto la traeva al divano e le sedeva di contro. — Anch'io sono infelice: ti stupisce? fanciulla! se non distingui il sorriso dalla smorfia del sogghigno che tenta occultarsi! Se il tuo occhio azzurro così placido potesse scandagliare gli abissi della mia anima, affacciarsi un momento alle desolate solitudini del mio cuore si sbarrerebbe per raccapriccio o si velerebbe dallo spavento. Se dovessi dirti le mie disgrazie, i miei dolori non vi riuscirei: saranno bazzecole, scempiaggini, pazzie, forse tutto ciò riunito, forse nulla di tutto ciò; ma sono infelice e mi è d'uopo di una donna che mi apra le braccia e mi chiuda gli occhi col suo petto quando lo spasimo segreto infierisce. Vedi, così... e tentava di mettersi al collo le braccia di lei. — Ma sei pazzo stasera! rispondeva divincolandosi. — Pazzo! ecco la donna! ma non capisci... sono pazzo? ebbene ai pazzi è tutto permesso. Sì, ti voglio rivelare a te stessa, poi ti aprirò la mia anima; chi sa se potrai rifiutarla. Hai ventun anno: non so se il tuo spirito fu mai vergine, ma se sposa significa la donna che ha saputo l'amore, tu non la sei. Il matrimonio era stata la porta dell'avvenire, di un mondo di sogni e di piaceri, di luce e di profumi, ma appena varcata hai dovuto guardarti attorno stupita; invece che sovra un giardino dava in un cortile umido e buio. Ti sei, ti hanno ingannata. Credi adesso che quel bel mondo non sia? No; esiste, Mimy, e bisogna entrarvi, ma la passione ne tiene le chiavi. Le vuoi? io te le offro, ti offro la mia anima con tutti i suoi entusiasmi e le sue piaghe: la mia anima di poeta che sente tutti gli odii e tutti gli amori, che ha ancora la primavera della speranza fra le rovine della fede. Ah! io ho bisogno d'essere amato... da te. Successero alcuni istanti di silenzio: erano entrambi commossi, specialmente Mimy alle mille miglia dall'attendersi questa scena. Giorgio vi aveva trasceso: non poteva ragionevolmente sperare di sedurla subito, mentre spintosi troppo oltre, se gli resisteva, piucchè la battaglia perdeva forse la guerra: però quella passione malgrado il discorso a Carlo e la lettera ad Anselmo la sentiva. Mimy teneva gli occhi bassi, egli la divorava. Insensibilmente le appressò la poltroncina e coi ginocchi le toccò i ginocchi. Tacevano in un silenzio che era l'ultimo sforzo della eloquenza. A poco a poco i volti si attrassero: egli allungò il collo e vedendo Mimy socchiudere gli occhi, stimò giunto il momento: le cadde ai piedi passandole le braccia alla cintura. Ella volle levarsi. — No: e la ratteneva coprendola di uno sguardo umido di voluttà; non mi lasciare. Non è vero che mi ami? confessalo! sei troppo bella per deturparti colla maschera della modestia... Adesso! balbettò appena, intelligibilmente premendole il volto nel grembo. Mimy tentava sempre di svincolarsi fissandolo in modo che pareva esaminarlo; nel suo sguardo c'era ancora più curiosità che sbigottimento. Egli tacque un altro minuto supplicandola coll'atteggiamento. — M'ami? ridomandò... Oh! ne sono degno, sono tanto infelice, ti amo tanto! Se sentissi la mia ebbrezza e il mio spasimo in questo punto m'ameresti per vanità o per compassione. Come sei bella! un'ora sola... e morire... vivere per te, per animare il deserto della tua vita, per occupare le tue malinconie... sei pur bella così! Non temere, Mimy, ti amo troppo per perderti; voglio che la tua felicità sia il mio monumento di artista; così sarà più nobile di un quadro o di un poema. La posizione di Mimy facevasi sempre più difficile, era diggià nelle sue braccia. Lo sentì, quindi colle manine bianche tentò risolutamente di rompere il laccio, ma Giorgio la ricinse più stretta. — Impossibile! ella mormorò rivolgendo la faccia per non vederlo. — No, no! — Ma Carlo!... ripetè guardando istintivamente verso la porta. — Tu non l'ami; che importa ora? Carlo è lontano, poi non è che tuo marito; provati ad avere un amante e vedrai. Fammi solo un segno colle palpebre e rimango qui inginocchiato sino a domani, a posdomani, finchè vorrai. Sai: per me in questo momento intrecciarti le mani sulla cintura, appoggiarti il capo... è una gioia inesprimibile, eppure non sei che una statua — animati dunque; vorrei trasfonderti metà della mia vita, ne dovessi subito morire... Pronunciando con voce rotta queste parole le si aggrappava mentre ella indietreggiava, così che per seguirla trascinavasi sulle ginocchia. L'infelice si contorceva. Le guance gli si erano accese, teneva gli occhi sbarrati, luccicanti, con un sorriso villanamente lascivo. Codesta trasfigurazione che un'altra donna o non avrebbe osservato o avrebbe ammirato, ributtò Mimy. — No! proruppe con tale accento e tale sguardo che a Giorgio caddero le mani. Si scostò imbarazzata e allora solamente arrossì vedendolo ginocchioni colla fronte contro la spalliera del divano. Stette sospesa in osservarlo e o temesse qualche nuova stranezza o non trovasse nessun finale per quella scena, sparì tacitamente dietro alla porta. Quando Giorgio si risollevò non parve punto stupito di essere solo; si passò due o tre volte le mani sulla fronte. — Imbecille! proruppe nell'andarsene. Per chi quest'ultima parola? per lui o per Mimy? CAPITOLO VI Il faut se rappeler cet admirable cri de Sapho, par le quel une nouvelle mariée s'adresse à Diane, la deesse virginale «deesse, deesse tu me fuis! pour combien de temps? — Je ne viendrai plus vers toi, jamais plus.» _Portrait de Teocrite._ — SAINTE BEUVE. Mentre Giorgio usciva dalla casa, Mimy entrava in quel gabinetto, ove la vedemmo la prima volta, chiudendosi dietro la porta: posava la bugia sul tavolino, e ne traeva dal cassetto un album piuttosto grande legato in marocchino rosso con un grosso _M_ dorata sulla coperta. Lo aperse; quindi si mise a sfogliare un quaderno racchiusovi, fermandosi qua e là a leggere un periodo, a guardare una pagina senza leggerla. Era nell'aspetto insieme distratta e commossa: al primo foglio bianco, poichè il quaderno era scritto appena per metà, sembrò voler aggiungere qualche cosa, ma rimase colla penna levata, la fronte pensierosa: non scrisse; seguitò a sfogliare, questa volta leggendo una pagina invece di un periodo. Poteva mancare un'ora a mezzanotte; lo sguardo pallidamente curioso della luna entrava col vento notturno fra le tende abbassate, l'aria era tiepida; fuori tratto tratto alzavasi un romorio di frondi. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Questa mane era tuttavia a letto sognando ad occhi aperti quando è entrata mammà. Mi pareva di essere ancora fanciulla e di entrare in un antico salone gremito di splendide dame e di più splendidi cavalieri: tutti mi guardavano domandandosi in bisbigli chi ero, così bionda e così pensierosa. Solamente in un angolo un paggio dai capelli d'oro, gracile al pari di me, non mi guardava, non udiva il mormorio destato dalla mia presenza. Io lo fissavo singolarmente, mi sentivo attratta verso lui fra la folla che mi si apriva dinanzi... Dio! il suo sguardo... Mi veniva incontro, mi offriva il braccio senza parlare, io accettava, e ci smarrivamo inosservati fra la folla che tornava alle proprie galanterie: ma noi discorrevamo d'amore tanto bene, che non me ne ricordo più nulla. Nel più bello è entrata mammà; vedendomi sentoni sul letto, forse all'aspetto troppo meditabonda, mi ha chiesto col suo sorriso cattivo « — Che cosa hai, Mimy? « — Niente. « — Sei abbattuta; bisognerà che gliene parli a Carlo. « — Per carità, mamma. « — Non spaventarti, piccina; quindi chinandomisi all'orecchio sempre con quel sorriso: Guardati... diventerai brutta, e allora poi... «Fortunatamente è sopraggiunta la cameriera e si sono messe a chiacchierare. «Ma guardarsi da che, mio Dio! Quale trista manìa di leggervi sul viso i dispacci della notte e di volere che l'incomodo di dormire con un uomo vi renda assolutamente felice... Non incontro per strada due signore che non mi guardino; se vado a trovarle o vengono da me si occupano ancora più della mia faccia, specialmente degli occhi, che del colore e della guarnizione de' miei abiti. Non so se le mie amiche mi amino molto, ma s'interessano troppo della mia vita di sposa e mi interrogano come tanti medici sopra mio marito — io che lo dimenticherei tanto volentieri! Le mie compagne di convento poi sono insopportabili: talora mi pare quasi che m'odiino per essere uscita dalla loro classe tanto mi esaminano minutamente per scoprirmi senza dubbio qualche ruga. Bisogna che amino ben furiosamente gli uomini, se il mio matrimonio le angustia tanto. Poverette! E pure tanto bella quando, fanciulle, si va a letto ritornando dal teatro, ancora commosse dal _Faust_ o dalle splendide fantasmagorie del ballo, quello spogliarsi lentamente la graziosa toeletta, quel togliersi ad uno ad uno i fiori, lasciandosi cadere liberamente i capelli sulle spalle: poi si va e si viene per la camera: vi fermate a mettere a posto un sopramobile: aprite un cassetto o lo chiudete, odorate un profumo o vi ponete allo specchio e vi ci vedete quale poco fa in teatro, ma libera di sognare e senza paura di uno che entri e vi disturbi, mentre la vita e il mondo stanno come due palazzi di esposizione coi portoni aperti e le sale zeppe di meraviglie: e si può entrare, si può ancora comprar tutto. Allora slacciando il busto si pensa inorgogliendo a tante occhiate: si alza la gonna per ammirarsi il piedino, poi si trascina la poltrona allo specchio, e civettando col vostro bel visino si fanno mille sogni di trionfi e di piaceri. Allora gli uomini ci si possono mescere perchè non li conosciamo; e se ne abbiamo veduto uno delicato, femmineo, coi baffi appena nati, ce lo immaginiamo supplichevole ai piedi con un silenzio e un anelito... Gli uomini — veramente ci pensiamo troppo; però ce li creiamo come dovrebbero essere e non come sono, triviali, brutti, opprimenti. Essere fanciulla... sentirsi vergine, destinata ai piaceri divini inimaginabili, che poi non arrivano mai, e che accadranno forse domani, posdomani; prepararvisi, non avere in sè stesse nulla che vi dispiaccia, voi belle, amabili, adorabili, adorate forse; accarezzare i vostri tesori che appartengono a voi, a voi sole. In questa parola sta il segreto della felicità di fanciulla «appartenersi,» nessuno può stendere una mano sulle mie treccie, chiedermi ignobili carezze, a me fredda, mesta forse in chi sa quale pensiero. Oh! quando si è fanciulla vi cogliete a meditare una scena letta o veduta, e a poco a poco una calda nuvola vi avvolge; ma invece essere sposa, lì a letto con un uomo che ha bevuto abbondantemente a cena e depone, prima di spogliarsi, la pipa sul tavolino: non poter stendere una gamba senza il timore di urtarne un'altra, non stirare un braccio senza far nascere il sospetto di un desiderio che non avete... e aspettare tremando che un gran corpo angoloso e peloso vi si accosti trascinandosi, quale orrore! E una testa si affonda sul vostro cuscino, un grosso naso vi entra in una guancia, un fiato vi passa sulla bocca intanto che due zampe vi schiacciano i vostri piedini Meglio essere fanciulla nel vostro lettuccio bianco, odoroso: le cortine mezzo stirate, il lume chiuso nell'alabastro, un romanzo sotto le coperte, e voi fuori col petto, coi capelli in disordine, bellina! — quante volte mettevo lo specchio sotto il guanciale per guardarmi! poi sognare, inebbriarsi magari di un amore solitario contemplando a occhi chiusi qualcuno che non si conosce ed è tanto caro. «Pazienza se il marito fosse un amante e vi istupidisse a forza di moine: niente! Carlo viene a coricarsi come va a sedersi sulla poltrona del suo studio e stende la mano al mio volto come ad uno di quei grossi volumi, che mi pregò ieri di porgergli — fortuna che mi consulta di rado. Ma come mai questa gente, la quale pretende a un grande ingegno e a un gran cuore, tratta così una povera fanciulla, attaccandola e staccandola dalla carretta del loro amore (intesi questo paragone da una contadina di mammà), battendola quando è sotto, dimenticandola affatto quando non vi è più? Come rimango io poi?... Questa è la voluttà, questo l'amore del talamo tanto vantato ne' miei sonetti di nozze? Ci credevo poco, ma non mi aspettavo a questa atrocità. «Ho letto in un libro, non ricordo più quale, che gli Indiani vivono essenzialmente di legumi e hanno un alito, un odorato talmente finì, che la vicinanza di un europeo carnivoro e ubbriacone li ributta: matrimonialmente Carlo è un europeo, io un'indiana. «Che cosa ne penserà? egli è sempre solo nel giardino delle sue voluttà: io sono una pellegrina che perde il tempo per via fermandosi ad osservare i fiori fra le siepi, sui margini dei fossi; che amerebbe sedersi all'ombra di un albero, che le carezze del vento distraggono e le esalazioni olezzanti del terreno snervano. — Arrivo sempre troppo tardi, quando il cancello del giardino è chiuso, e mi sveglio dal vaneggiamento urtandovi dolorosamente col capo: almeno non vedessi lui sdraiato da ubbriaco sulla soglia. Ho sempre letto che l'amore ha bisogno di mistero e la voluttà di veli, però il loro maggior bisogno è quando spirano. — Cesare si ravvolse nella toga. La commedia finita cala il sipario: perchè non in tutte? Nel nostro teatro no, e per compenso la musica del suo russo. Povera Mimy! · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Non lo si direbbe, eppure bisogna che Carlo sia uno sciocco per mostrarmisi addormentato così brutto e in una attitudine, che il più spiritoso caricaturista non gli consiglierebbe per perderlo. Intanto che lo guardavo inorridita si è svegliato, e mi sono prontamente rivolta perchè non prenda, come un'altra volta, la mia attonitaggine per un'estasi e me la retribuisca. Basterebbe un equivoco simile a rendere il matrimonio insopportabile. Guai se spiando vostro marito in tal momento una romantica figura vi traversa l'immaginazione! Che sarebbe più la colpa dell'adulterio? Non lo commetterò mai, perchè non mi innamorerò mai di un uomo, io già vecchia a venti anni e che morirò di una malattia che i medici non capiranno, la mancanza di aria e di amore — passerò bella e triste pel mondo come una bella nuvola pel cielo di notte. Povera Mimy, tutto è finito: sei sposa: la tua gioventù è morta: non ti resta più che la gravidanza, e avrai bevuto il calice fino alla feccia. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Ma il matrimonio è un contratto, Carlo diceva oggi a pranzo col presidente della Corte di appello: il matrimonio è un contratto e tutto sta nel consenso. «Io tacevo ansiosa di comprendere questo mistero del matrimonio. Il presidente, che è religioso, negava il divorzio malgrado la maschile bruttezza di sua moglie. Coraggio di martire! «Hanno discusso con veemenza e credo pure con dottrina, ma non ho inteso se non che il matrimonio o è un contratto o una istituzione; sempre affare di discussione fra gli uomini: per le donne non ci si pensa. Come negare, frattanto, o ammettere il divorzio senza consultare le donne, la metà degli interessati e i maggiormente? «Basta: il matrimonio nel codice è un contratto? Non è vero, è una truffa. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Se suor Maria, che mi amava tanto e mi diceva: gli uomini? demoni! fosse qui, con lei direi tutto, tutto. Mi piaceva suor Maria colle gote più bianche del soggolo, gli occhi neri dolci, la bocca grande e il viso melanconico. Che bella donna se l'avessero vestita alla moda! Poveretta! laggiù nel convento chi sa quanto soffriva, ma adesso la invidio: nella sua cella è sola, libera; ha tutto il giorno e tutta la notte per sognare; che le manca? gli uomini — io ne ho uno e non avrei cuore di cederglielo... cara suor Maria, vi renderei disperata col mio triste regalo.» Mimy interruppe le lettura e rimase meditando. «Bice, che m'interroga sempre sulla mia tristezza, me ne ha mandato come spiegazione: _Petites misères de la vie conjugale_. Ho divorato il libro e non mi è piaciuto. Balzac ammette il matrimonio e ne fa la caricatura degli inconvenienti. Le sono davvero piccole miserie — e le grandi? Se il matrimonio fosse contro natura? Quando m'intendessi a scrivere e potessi dopo decidermi a gettare la mia anima al pubblico, io sì che farei un bel romanzo, per esempio — Il Romanzo di una moglie — quattordici capitoli come sono quattordici le stazioni della_ Via crucis_. «Gli orientali hanno il serraglio, e credo ci convenga meglio delle nostre famiglie. Il serraglio è un magnifico carcere guardato da mostri: vi si vive fuori del mondo una vita d'immaginazione: si dorme sui tappeti, si respirano profumi, si sta lunghe ore nel bagno, più lunghe allo specchio; il pensiero è tutto fisso nella bellezza, la speranza nella voluttà; il padrone entra come un attore sulla scena. Ma un marito che si vede sempre, certe volte, in certi momenti: non vi è passione, nè illusione che resista. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Pensavo al matrimonio: ci penso spesso. Tutti predicano che li solamente è la vera felicità per noi donne; cioè, che per divertirsi molto e sempre bisogna prendere un abbonamento vitalizio a un teatro in cui gli stessi attori danno sempre la stessa commedia e gli uni sono più goffi dell'altra. La logica degli uomini, essi che scherniscono tanto la nostra! · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Sono sua! ecco la grande parola. Sua! Egli penserà forse: il corpo di Mimy è mio. Come della scimmia il violino che s'imposta sotto il mento e non sa suonare. E l'anima? sua! il mio passato, il mio sentimento, la mia fantasia, i miei sogni, i miei castelli che fabbrico sulle nuvole e nei quali mi rifugio, proprio tutto suo? · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Sono stata tre giorni a letto e nessuno è venuto a trovarmi. «Ero ancora più triste che malata: la penombra, il silenzio della camera, la cameriera che entrava sulla punta dei piedi e mi parlava bassamente... essere sola — un raccoglimento quasi voluttuoso se i nervi delle tempia non mi si fossero a quando a quando dolorosamente stirati. Carlo, non lo immaginavo, malgrado un accrescimento di lavoro mi veniva spesso al letto, si sedeva al capezzale, mentre l'osservavo fingendo di sonnecchiare. Carlo è incapace di amare, ma non manca proprio di cuore — è buono come un uomo. «Se avessi una persona amata che mi si ammalasse, mi ammalerei anch'io; mi crederei cattiva diversamente. «Mi sono sentita inclinare verso di lui: non era più mio marito, ma un amico, un medico disinteressato, e se mi avesse aiutata forse mi entrava in cuore — meglio per lui e per me: ma no, sempre così... i mariti, anche i più intelligenti, non capiscono nulla. «Se al momento di coricarsi m'avesse detto: — Mimy, mi permetti di stare con te? altrimenti dormo nel gabinetto: correrò pel primo se chiami; — credo che gli sarei saltata al collo, però chiedendogli di lasciarmi sola. «Invece a mezzanotte m'entra in camera: mi domanda come sto, si spoglia e giù placidamente in faccia alla cameriera: « — Va pur là: ci penso. «Ci pensava russando! · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Giorgio è ritornato più secco e meno brutto dalla Spagna. Come mai gli uomini sono le nostre metà se non ci somigliano punto? «Il sorriso che rende così grazioso il nostro volto deforma il loro, forse per l'angolosità dei lineamenti, che al più piccolo moto si urtano come le faccette dei giocattoli da bimbi. Qualche volta mi sono messa ad esaminare un uomo: meditabondo, via! ma in azione: ogni cinque minuti un'espressione triviale, un gesto villano: hanno i movimenti ancora più pesanti delle forme (per esempio ballando nessuno di loro si regge sul pollice, come sanno fare tutte le ballerine); il loro viso è talmente grossolano che nessun sentimento delicato vi può sfumare; se vi dicono un bel complimento, gli è come se vi offrissero un diamante montato in ottone. Comprendo che la cavalla ami il cavallo; la loro bellezza è uguale: ma la donna l'uomo? «Ecco come da fanciulla mi figuravo l'amore: una tiepida pelliccia di ermellino, nella quale mi avviluppavo nuda, morbida, candida, intatta. Invece mi hanno affagottata in una pelle di asino. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Suor Maria aveva per me una ben'altra tenerezza che la mamma. Quando eravamo in camera per la meditazione veniva spesso a trovarmi: mi domandava tante cose! Benchè fossi sul quindici anni mi pigliava ancora sulle ginocchia: qualche volta mi scomponeva quella orribile pettinatura, mi sbottonava dalle spalle la pellegrina e acconciandomi i capelli come la Maddalena dell'altar maggiore mi baciava sulla fronte. « — Sei bellina, Mimetta; non insuperbire, veh! «Arrossivo. «Un giorno mi chiese se aspettavo ansiosamente di lasciare il convento. « — Non lo so io: se tutte le suore fossero come lei, madre! ma la badessa mi strapazza sempre... « — Poverina! « — Venga con me anche lei: le vorrò bene anche fuori: non dimentico io. «Suor Maria mi guardò con due grandi lagrime negli occhi grandi. «Mi venne da piangere e pensando di averla afflitta le gettai le braccia al collo: la baciai, la ribaciai senza badare al rispetto... «Mi lasciava fare. « — Le vuol bene, madre, alla sua Mimetta? « — Tanto! «Io le tenevo il viso fra le palme. «Si levò bruscamente. «Rimasi impaurita per la mia audacia di averla baciata. «Il mattino la rividi, e poichè teneva gli occhi bassi venne a me con dolcezza. « — Hai detto le tue orazioni, Mimetta? « — Sì, madre. « — Ti sei ricordata di me? «La guardai incantata. « — Prega il Signore, mia cara innocente, anche per la tua suor Maria, che ne ha tanto a bisogno. «Povera suor Maria: ci penso spesso.» Mimy saltò qualche pagina. «Uno de' miei roseti è stato ucciso da un bruco: ho seppellito l'ultimo fiore in uno scatolino d'oro dove tengo i capelli di suor Maria. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Invece che a Giannina voglio raccontarlo a suor Maria. «Faccio conto che siate qui nella mia camera, stasera che Carlo è a Ravenna per un processo: voi sedete sulla poltrona, io vi avvicino lo sgabello e nascondendovi la testa sulla spalla vi dico tutto. Ella è una triste istoria e io sarò una narratrice ancora più triste. «Da sei mesi ero uscita di convento: suonavo e leggevo. Nessun uomo mi aveva parlato d'amore e nessuna donna dopo di voi. Ero quieta e malinconica: campavo di musica e di fantasie, consolandomi delle frequenti asprezze della mamma coi fiori della mia finestra. «Una mattina che copiavo una rosa, mammà mi entrò in camera gravemente ed esaminato prima il disegno mi tolse di mano la matita: ascolta, mi disse, e seguitò dicendo che avrei sposato Carlo, il quale mi conveniva sotto ogni rapporto. Questi lo avevo poco veduto e meno osservato, perchè non mi piaceva. «Spalancai gli occhi meravigliata, ed ella aggiunse che il matrimonio si farebbe fra due mesi. «Mamma non mi ha mai voluto bene: ma allora non avevo altra dote che la speranza dello zio Giovanni: ero più povera della mia cameriera, e non mi venne nemmeno il pensiero di resistere: poi due mesi erano tanto lunghi. Rimasi dunque stupita, poi mi calmai. «Egli veniva ogni due sere: era meco gentile e serio: annoiava anche più che non parlasse: copiai tutto un album di fiori alla sua presenza. « — È mio marito: pensavo qualche volta guardandolo, ma non pensavo oltre. «Mamma aveva una vecchia cameriera pettegola, plebea — poveretta, adesso è morta! Mentre prima mi trascurava, dopo l'annunzio del mio matrimonio, per cavarmi forse un regalo, diventò meco graziosa, e un mattino a letto, che stavo col busto fuori delle coperte: « — Come si divertirà il signor avvocato! mi disse guardandomi leziosamente il seno: e io a coprirmi. «Ella m'irritò, io fui curiosa e mi raccontò, anzi e mi descrisse tutto. «Scoppiai in pianto mentre ella se ne andava ridendo. Dunque era vero? «Il matrimonio, cui non aveva riflettuto ancora, divenne la prigione de' miei pensieri: non ne uscivo, o se pure, tutto mi vi riconduceva: intristivo; mamma non se ne accorgeva. Ebbi la debolezza d'interrogare un'altra volta la cameriera, che mi punì con molti frizzi. «Adesso osservavo Carlo con ispavento e non ardivo più dirmi in faccia sua: è mio marito. «La mia vita peggiorava ogni dì, perchè non potevo incontrarmi colle mie compagne che non mi salutassero ironicamente col nome di sposina, o se in parecchie non mi tempestassero di maligne allusioni, di scherzi insolenti: trovavano brutto il marito e me lo litigavano: mi compiangevano piaggiandomi, ma se piegavo abbattuta la testa, esasperavo ancora la loro cattiveria di aguzzine. Le ragazze sono senza pietà quando invidiano. E le mamme erano anche peggiori coi loro gravi complimenti sulla mia buona ventura. «In que' giorni lessi l'_Amour_ di Stendhal; il suo ingegnoso paragone dell'amore col bastone gettato nelle miniere e dopo tre mesi ritrattone coperto di brillanti cristallizzazioni non mi soddisfece; lo raccontai alla cameriera di mamma: mi rispose ghignando che l'immagine del bastone era giusta, perchè suo marito, fortunatamente morto, l'aveva sempre bastonata durante i loro amori. «Ma la ballata alla Luna di Alfredo de Musset capitatami in una strenna mi fece proprio male: mi ricordo tuttavia le ultime terribili strofe. Dio! essere ridicola in quel momento. Quella luna che spia i due sposi e li impedisce col suo sguardo derisorio non la potevo sopportare; chiuderò, pensavo, le finestre: ma qualcuno mi vedrà pur sempre, e questo qualcuno era a Fognano nella vostra cella, suor Maria. Musset deve essere stato un uomo cattivo, e la sua Lucia, se lo amò, fece male. Ma pensare che se potessero vedervi in quel momento scoppierebbero risa così forti e sguaiate che nemmeno egli le sopporterebbe.... Gli uomini sono mostri, suor Maria; se vi avessero veduta quella sera, che dopo piangeste e toccò a me a consolarvi, oh il nostro doveva essere un gruppo molto bello! «Arrivò la vigilia. « — È la mia ultima notte, pensai facendo la piega al letto. Non avevo voluto la cameriera per star sola. Girai luogo tempo per la camera, esaminai i miei sopramobili, consultai il mio specchio e lo raccomodai: tutto mi parlava forse con più commozione che non quando lasciai il convento. Era di primavera. Il letto bianco mi pareva più soffice, più misteriose le cortine; volli leggere e non vi riuscii, perdermi in qualche fantasia delle dilette e nemmeno. Egli mi era sempre agli occhi: lo vedevo entrare in manica di camicia, cacciar dentro la testa a guardarmi... io raccapricciavo immobile e desolata: egli stendeva una mano sulle coperte... È orribile. Mi rifugiai nel vostro pensiero, suor Maria, penetrai nella vostra cella e vi scorsi sul giaciglio il capo libero dalle bende, l'abito slacciato. Avevate il volto pallido ed estatico: pensa a me! come è buona! E mi chinavo sul guanciale ad accarezzarvi insensibilmente una ciocca vagabonda — non mi sentivate. Il mio alito vi lambiva le tempia: vi rivolgevate, vi rivolgevate senza un segno di meraviglia... vi ero vicina e il vostro sogno continuava. «Quella notte fu un'eternità: talora correvo incontro al pericolo e lo affrontavo istupidendomivi — era ancora meglio che vederlo appressare lento, inesorabile: talora lo fuggivo senza persuadermi di fuggirlo ed era uno spasimo inesprimibile. «Si fe' giorno — la funzione sarebbe alle dieci della mattina. «Attraverso i vetri vidi un bel garofano sbocciato nella notte: scesi a coglierlo, mi ricoricai. «Lo ammirai: poi montommi la stizza e lo stracciai. « — Mi faranno lo stesso, proruppi piangendo. « — Cosa farà egli in questo momento? Sempre lui e non poterlo dimenticare... «Poco dopo, entrarono la cameriera e la zia, ambedue guardandomi con un sorriso di mistero. Volevano conoscere se avevo dormito, perchè non dormirei la notte veniente. « — Sollecita stamane, Mimetta: intanto la cameriera usciva: ti preme dunque molto di lasciare il tuo lettino di fanciulla? «Non risposi. «Ella sedette sulla sponda, e prendendomi la fronte colle mani mi baciò: poi facendosi grave: « — Dunque è per oggi! Già, tu lo sai meglio di me, e chi sa che cosa ti figuri nella tua testolina. Non bisogna spaventarsi, sai: gli uomini sono un po' ruvidi: vedi, il pudore va usato con civetteria; tu poi, civettuola, te ne intendi, e la tua riserbatezza è di una seduzione irresistibile. Bene! che cosa hai adesso che diventi seria? non ti dispiacerà già di maritarti, Mimetta? «Mentre mi andava consigliando colla sua esperienza gli occhi mi si empivano di lagrime. « — Ma via, Mimetta: non istà bene adesso questa afflizione. Carlo ti vuol molto bene, tu l'ami e sei bella; egli è ricco e bravo e sarete felici. Poverina, ti rincresce: va là che la è più paura che altro: fa conto che t'abbiano a levare un dente, e davvero Carlo ha un bricciolo di cavadenti nell'aspetto: via non ti offendere dello scherzo, che non sei ancora sua moglie. Vuoi che ti conti io?... purchè ti quieti, la zia Matilde ti confessa quello che le accadde, perchè la scena su per giù è sempre la stessa. Siccome voi altri non seguite la a moda, del resto commoda, di partir subito, usciti di casa gli invitati e la mamma, resteremo io e la zia Agnese per condurti nella camera nuziale; se la vedessi! è una cosa da principe; un letto di mogano colle cortine di damasco in lana. Ti spoglieremo e allora, solo allora, signorina, vi daremo gli ultimi consigli. Poi ti lascieremo e passerai i cinque minuti più lunghi della tua vita, Carlo entrerà: vuoi sapere in qual costume? forse le mutande sotto e la veste da camera sopra. Eh! bimba mia, non è un costume seducente come quello di Salvini nell'_Otello_ alla scena del Senato (la zia ha sempre avuto per il grande attore un culto segreto ed appassionato) però bisogna adattarsi: se meno splendido è però comodo a gettarsi per entrare sotto le lenzuola... ti par mille anni di esserci? Una volta sotto egli tacerà: gli uomini sono tutti imbarazzati a questo punto per quanto facciano gli audaci: poi ti domanderà qualche cosa inutile, cui penerai molto a rispondere; lo sentirai guardarti, perchè allora certe occhiate si sentono proprio... ma vuoi proprio saper tutto? Bene, bisognerà appagarti. Dunque ti accarezzerà, e le carezze cominceranno naturalmente dall'alto; tu fin qui contentati di arrossire, e fremerai involontariamente: è quanto basta. Quindi le sue mani scenderanno nel medesimo tempo che la sua faccia e i suoi piedi si accosteranno alla tua faccia e a' tuoi piedi: lo sentirai allungarsi; non aver paura ancora: la balestra non scatta sebbene sia tesa. «A questa frase risi involontariamente e la zia scoppiò più forte, così che aprendo la porta, mamma, e la cameriera ci sorpresero in ilarità. « — Ma bene! mamma esclamò: ecco la morale della predica: il predicatore che ride più del pubblico. «Fu deciso che mi alzassi subito. «Presi un bagno e volli essere sola. Per l'ultima volta mi guardai vergine allo specchio e baciai la mia immagine come per salutare una compagna adorata: salutavo la Mimy fanciulla e la salutavo mestamente, perchè non l'avrei trovata mai più, mai più! «Povero ermellino, cacciato nell'antro della volpe come diventerà la tua candida pelliccia? «Giunse Carlo in abito nero: il mio era di un pallido color lilla; sotto il velo mi sfuggivano le treccie, annodate da due nastrini con queste parole: _Amor, Fides_ — il motto del blasone matrimoniale, e l'idea era di lui. «Suor Maria, questo racconto m'irrita, e vi risparmio la descrizione delle formalità. «Alle sette della sera lasciai davvero la mia casa. Sul primo pianerottolo pretestando non so quale cosa, ma certo bizzarra perchè tutti risero, riscappai dentro, corsi nella mia camera; sebbene ne avessi portato gli oggettini più cari, la volevo rivedere. Mi affacciai alla finestra, scopersi il letto, mi guardai nello specchio: mi si stringeva il cuore. Quante idee! mi vennero le lagrime agli occhi, ma fu un lampo: intesi che mi venivano a cercare, e con uno sforzo fuggii. «Il pranzo era annunziato per le otto e mezzo, non vi trovammo che alcuni parenti dei più stretti. Mi pareva un sogno di essere in un'altra casa mia: mi osservavo attorno, e niente mi conosceva: ero un'estranea anch'io. Gran faccenda per la tavola; io medesima dovetti intervenire gustando prima della tavola un antipasto di economia famigliare — queste due parole sono sue. «Che sciocca idea di non partire subito da Bologna! Oh tutte quelle premure, quei sorrisi, quelle occhiate della gente che vi analizza, quei complimenti sciocchi! e non sapere dove fissare gli occhi temendo che se vi scappano anche per ribrezzo sul marito subito venti bocche sogghignino e venti teste gustino un pensiero insolente: e dover rispondere a tutto e a tutti, mostrarsi disinvolta e fino a un certo segno innamorata... quel rumore, quella gioia volgare, spietata... «Si pranzò: io fui il bersaglio di tutti gli sguardi, di tutti i motti spiritosi: inspirai tutti i brindisi. Chi sa quanti ci lodavano ridendo in cuor loro. Fra i parenti sedevano alcuni amici di lui, giudici, consiglieri della corte, che parevano tante faccie staccate dalle bomboniere di Rovinazzi; parlavano gravemente fra il romorio degli altri avendo l'aria di essere qualche cosa di più... Infatti erano anche più brutti. «Poi finì il martirio dei complimenti, degli sguardi che mi volevano svelare tutti i misteri. Non rimasero nelle sale che alcune signore. «Suor Maria, non vi dirò quello che mi dissero. «Quando la mia buona santa volle se ne andarono esse pure lasciandomi nelle mani delle due zie. Fui condotta nel gabinetto attiguo alla camera nuziale, che egli stesso aveva arredato; proprio il capolavoro di un uomo. «Lì cominciarono a spogliarmi senza che potessi nè consentire nè resistere, come un fantoccio. «Rimasi colla camicia, gli stivalini e la corona di rose bianche, quindi mi offersero un paio di pantofole in lana di un orribile disegno: chinandomi per calzarle mi si slacciò il seno. « — Piccino! disse la zia Agnese, e nella sua voce c'era quasi del rimprovero. Ella certo lo aveva decuplo del mio. «Arrossii. « — Non ti levi le calze? seguitò. « — È meglio che le tenga, rispose la zia Matilde. « — Sono di seta, delicate. « — Meglio: sarà bene che le tenga per le prime ore: poi, Mimetta, mi si rivolse, te le trarrai. Gli uomini, proseguì colla zia Agnese, ne vanno pazzi e molti spingono l'esigenza fino agli stivalini; bisogna pure contentarli questi tiranni. «Io ascoltavo attonita questa grave discussione. «Fu deciso che andassi a letto colle calze. « — Zia, disse la Matilde, tocca a voi accomodare il letto per la piccina: andate a fargli la piega e a dispor tutto: non vogliamo che Mimetta si fermi nella camera; se vorrà poi uscire di letto se la intenderà con Carlo. «Ridevano. «Cominciavo ad avere la febbre: quei preparativi m'irritavano dolorosamente, e mi sarebbe quasi parso di essere alla commedia se la coscienza non mi avesse avvertita che la protagonista era io. « — Mimetta, mi si voltò la zia: siamo all'ultimo, coraggio! Non bisogna piangere; no, piccina mia, bisogna ritirare quelle lagrime dai begli occhioni cilestri. Adesso voltati addietro: il passato di fanciulla è passato davvero e incomincia una vita nuova — incominciala dunque bene. Non gli vuoi ancora troppo bene, e abbassava la voce per non essere udita dall'altra camera; me ne sono accorta, silenzio! Anch'io quando sposai il mio Giuseppe ero come te: ma questa di non amarlo non è una buona ragione, per mostrarti fredda con lui: anzi al contrario, perchè guai se ti sospettasse! la pace della tua vita ne sarebbe distrutta per sempre. Gli uomini tengono molto all'amore della moglie sul principio, poi si rallentano. Lascialo farti bella, lascialo fare, e se soffrirai, mostralo per averne il merito: sarà il maggiore —. Sapendo condursi si può nella prima notte conquistare la propria supremazia. Ti voglio bene io, e ti consiglio più da amica che da zia: abbi giudizio adesso se vorrai averne poco in appresso... ma no, tu sarai sempre buona, angelo mio. «Mi baciò davvero commossa. « — Piano con quei baci, che non senta Carlo: sarebbe capace d'ingelosirsi! interruppe la zia Agnese. Siamo pronti, sposina. «Mi presero ognuna per un braccio. Chiusi gli occhi: sentii che entravamo nella camera, travidi un gran letto colle cortine rosse. «Ci fermammo: eravamo sulla sponda del talamo tanto vantato nei sonetti di nozze. A sinistra, dal mio canto era già fatta la piega. «Mi scossi come se fino allora fosse stato un sogno, quindi ciò che avevo imparato della notte mi apparve in tutta la sua grossolana realtà, così che mi sembrò quasi d'aver tutto sopportato. Egli poteva essere nel letto ad aspettarmi che la sensazione non sarebbe stata più violenta. « — Su! esclamarono ridendo, e prima di avvedermene mi trovai seduta con una gamba lungo la sponda e l'altra penzoloni: le pantofole troppo grandi m'erano cadute. « — Guardate quanto è fatta bene questa bricconcella! disse la zia Matilde. «Quelle mani mi agghiacciarono dove si posarono. Non era una profanazione? Mi riparai prestamente sotto le coperte tirandomele sul collo. «Indi: « — Buona notte; noi ce ne andiamo, mi dissero. «Le guardai impaurita: tremavo di restar sola in quella camera ignota, in quel letto non mio, troppo grande. «La zia Matilde s'incamminava verso l'uscio: l'altra fingendo di accomodare le coperte: « — Siate buona. « — Agnese... « — Vengo. Dunque vi lasciamo. Datemi un bacio. « — Anche a me, e la zia Matilde ritornò al letto. «Dovetti levarmi per contentarle. In quella che davo l'ultimo bacio scorsi una figura fra la porta e gettai uno strido nascondendomi. «Uscirono. «Suor Maria non saprò mai esprimervi ciò che provai in quei momenti. Avevo la testa in subbuglio: mi fischiavano gli orecchi. Stavo rannicchiata sotto le coperte e sudavo ritirandomi in me stessa come una sensitiva: se avessi potuto impicciolirmi tanto che non mi avesse più trovata! Ma cosa parlano all'uscio? Ebbi la tentazione per un istante, di scendere ad origliare. E i famosi consigli delle zie? Ecco che viene! balbettavo nel pensiero. Ah! è questa la voluttà di un primo appuntamento con un uomo, che vantano i romanzi! Adesso dimenticavo tutte le spiegazioni della cameriera e ritornavo ingenua, ignorante, fingendomi mille cose, storpiando quelle che ancora ritenevo. Come sarà vestito? Lo vedrò, mi vorrà vedere? come mi conterrò? lasciar far tutto secondo le raccomandazioni della zia Matilde: capisco... anzi non capisco nulla. Ma come, noi che ci siamo trattati tanto freddamente per due mesi, così all'improvviso passare a una confidenza... Gli parrò bella con tutti questi ricciolini giù pel collo e col mio petto piccino? La zia Agnese, che cattiveria! Ma se mi ripetesse quella sprezzante parola: piccino! «Udii muoversi la maniglia dell'uscio. Mio Dio! mi raccomandai. «Non entrava alcuno; respirai. «Che si cacci subito a letto o me ne domandi il permesso? mi pare che dovrebbe chiederlo. Povera Mimy! Ah! se fosse qui suor Maria e mi proteggesse — se dovesse entrare lei invece. «Era lui: aveva la veste da camera: scalzo colle pantofole. « — Hai freddo? mi disse con un mezzo sorriso vedendomi rattrapita. «Mi stesi subito senza rispondere. «Egli si premè contro la sponda del letto: era quasi pallido. Dio! che goffaggine... « — Se mi domanda di venire a letto gli dico di no, pensai. «Taceva sempre: d'improvviso, non sapendo forse cosa fare, si chinò per baciarmi; le sue labbra mi toccarono la fronte mentre la ritraevo. «Soffocai un grido: era già a letto. «Avevamo le faccie in iscorcio che si toccavano quasi: avrei sofferto qualunque tortura per muovermi e non mi arrischiavo. «Stemmo così in silenzio. Riandavo il discorso della zia Matilde attendendo che si verificasse e fremevo. La vicinanza di lui mi destava un indefinibile ribrezzo. Ero così lungi da ogni pensiero d'amore, come dal trovare lui bello; ma debbo confessarvelo? non desideravo neppure di uscire da quel letto: capitemi, perchè non mi so spiegare. Dipendeva dalla curiosità, dalla stanchezza di meditare un male inevitabile? Non lo so, immaginate tutto fuorchè una simpatia per lui. «Che cosa parlano mai i romanzi della fragilità del nostro sesso? Menzogne! Coloro i quali scrivono di queste cose non hanno conosciute le donne... Giorgio mi ha raccontato che il papa ha dovuto ordinare una camicia di bronzo al bel genio di Canova sul monumento di Clemente XIV, perchè le inglesi si fermavano troppo ad ammirarlo, e può essere; ma esaltarsi, soccombere di concupiscenza, come diceva la badessa che mi strapazzava tanto, presso un uomo brutto come generalmente gli amanti e i mariti, questa è una infame calunnia inspirata dalla vanità ai nostri padroni o una malattia nervosa di qualche povera donna. Siamo troppo belle per essere così brutali. «Vedete come divago dal racconto che vi ho promesso? Non ci posso proprio pensare a quei brutti momenti. «Carlo sospirò — ci siamo, e ci eravamo davvero. «Dopo il vento la gragnuola. «Sentii il suo sospiro salirmi per la guancia e la guancia credo che arrossisse, perchè egli stendendovi la mano: « — Come sei calda! osservò, e nel medesimo tempo un piede di un peso enorme mi affondava i miei due piedini. «Mi avevano consigliato di lasciar fare. «Egli principiava a smaniare. Voleva forse discorrere e non trovava che dire: mi sembrava d'intendere le parole mormorargli in bocca. Gli volsi un'occhiata di sbieco e vidi due occhi verdi, luccicanti come gli smeraldi del mio finimento di nozze, e un viso rosso quasi avesse soffiato per dieci minuti sui carboni. « — Mimetta... «Finsi di non intendere. « — Mimetta... « — Avete bisogno di qualche cosa? balbettai. « — Sorniona! E la sua mano dalla guancia mi scivolò al seno tentando invano di aprire i piccoli bottoni del corsetto. « — Apriti! susurrò con voce convulsa. «Apriti! ma rompilo piuttosto: violentami e lasciami la grazia della debolezza che è vinta, il pudore della innocenza che è sagrificata!... «Arrossii credo sino ai piedi. Vi ricordate, suor Maria, con quanta grazia pigliandomi le mani e accarezzandomi cogli occhi, coi palpiti del petto, mi costringevate a schiudermi il turpe abitino di educanda?... « — Apriti, via. «Dovetti ubbidire. «Il mio povero seno, il mio solo orgoglio! io che lo amavo come un poeta può amare il proprio genio, che l'avrei voluto sempre casto per conservarlo sempre bello... il mio seno che voi amavate, suor Maria, e coprivate di baci appoggiandovi la vostra bella testa di angelo sventurato: essere costretta a profanarlo così senza potere neppur piangere, senza la poesia del dolore per consolare il sagrificio. Oh! lasciatemi piangere adesso che non sono più Mimy la fanciulla, narrando come la povera fanciulla fu ignobilmente uccisa nel triste mistero di una notte, che non tornerà mai più... «Non potevo piangere: la mente mi si faceva di una limpidezza terribile, mentre il corpo mi si irrigidiva: nulla doveva sfuggirmi della scena sciagurata. «Mi era sopra colla testa e io tenevo con isforzo gli occhi al muro per non vederlo, ma una curiosità dolorosa mi spingeva. Mi venne la cattiva voglia di guardarlo; giacchè non potevo allontanare il calice ne volevo la feccia. Infelice! la mia occhiata parve forse un invito; sparii soffocata. «Non è tutto. «Egli spiritava. Mi cercava colle labbra sorridenti e mi giunse con un bacio lungo, infernale, che non scemava, non finiva: un bacio co' suoi denti neri senza che potessi muovermi. Non respiravo — non è tutto: mi sottrassi disperatamente, ma invano, giacchè le sue labbra ancora sulle mie labbra ripetevano orribilmente la sublime carezza delle colombe intarsiate sulla cimasa del letto. «Non è tutto, ve l'ho detto: il suo alito puzzava. E quando le lagrime gonfiandomi infine gli occhi mi caddero giù pel viso, cadeva egli pure. Aveva trionfato... aveva bevuto il vino senza badare alla tazza. Ubbriacone villano! «Villano! «Siamo pure infelici noi povere donne... «Non è tutto ancora... Oh risparmiatemi il racconto di questa ignobile miseria, la più ignobile, e possiate non indovinarla nella delicata bontà del vostro cuore. — La vostra candida colomba, la vostra Mimy...» Qui interruppe la lettura e si passò la mano sugli occhi ad asciugare una lagrima: sfogliò ancora molte pagine arrestandosi ad una scritta con un carattere, sebbene della stessa mano, assai dissimile. Forse coloro che pensano d'indovinare l'anima dalla calligrafia ne amerebbero un'analisi, ma troppo poco ingegnosi per tale impresa ci contenteremo di leggere con Mimy, guardandole negli occhi, ai passi più difficili. «È bella come una eroina. Ho visto un ritratto di Goethe: la stessa fronte ampia e possente, quasi misteriosa nella sua strana bianchezza; vorrei vederla in mezzo a una tempesta dominare le onde. «Se non avevo quel brutto signore dinanzi forse mi avrebbe scorta. Me ne dispiace davvero: le avrei offerto la mia ammirazione: vi è tanto piacere nell'ammirare una donna! Peccato che la sarta non mi sappia fare un abito simile al suo in due giorni, correrei subito allo stabilimento ed ella capirebbe che la copio; ma chi sa se capirebbe il mio complimento o non mi supporrebbe invece una ridicola provinciale, che s'affretta a scimmiottare le grandi dame della capitale. Non mi pare italiana e non so qual nazione darle, mentre è più bianca e diversamente bianca dalle belle inglesi che ammirai tanto nell'inverno a Firenze — un bianco non vivo come nel marmo, nè spento come nella camelia, tiepido, appannato, sotto al quale si travedono appena le vene azzurrine. «Oh come è bella! «Sarà vedova o maritata.» Mancava il punto interrogativo: forse Mimy non aveva osato compire nel pensiero questa domanda. «Le ho parlato. «Era vestita come le signore di Bologna non lo sono mai: con un abito da mattina. Me ne intendo di eleganza io, sebbene moglie di Carlo che veste filosoficamente, dice lui. Quanto sarebbe brutto vicino a lei! «Ci siamo incontrate scendendo di carrozza. Sulla porta dello stabilimento non c'erano uomini. Io precedeva e non ho osato fermarmi per passare la seconda. Il salone era deserto. Ho sentito che ella affrettava il passo e il cuore mi ha balzato con violenza, mentre il pensiero mi è subito corso alla volgare mussolina che indossavo. Avrei voluto guardarmi nello specchio perchè mi pareva mi stesse male ogni cosa: la parrucca era certo per traverso, i cannoncini sulle spalle disciolti, la veste troppo inamidata non accompagnava i movimenti del passo; ma non mi arrischiavo toccarla sentendomi dietro il suo sguardo. Ho traversato il salone certo più largo del solito, e scendevo l'ultimo gradino quando ella apriva l'uscio. Eravamo sole. Giulietta doveva raggiungermi nel camerino. Fortuna che l'ombrellino mi ha salvato dall'impiccio delle mani — la strada era proprio troppo lunga. Sarà una pazzia, ma avevo la febbre. Titubando ho rallentato il passo, poi ho pensato: se mettessi gli occhiali neri? così potrei guardarla con più coraggio... sì ma divento brutta: il mio nasino li sopporta male: e non ho di bello che gli occhi — se li copro è finita. A poco a poco mi sono fatta raggiungere, ma me ne sono subito pentita perchè ella sembrava decisa a non oltrepassarmi. L'ombra del suo ombrellino mi dava sul petto: ascoltavo il rumore de' suoi passi sulla sabbia, odoravo il suo odore di vainiglia — scriverò a Giannina che me ne mandi subito qualche boccetta. Mi sono accorta che camminavo a testa bassa come una educanda. «Non voglio pensarci oltre: vado a suonare la canzone del moro di Gottschalk. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Eravamo otto signore nel bagno; le più belle io e Giulietta. Mi sono dimenticata la cuffia nel camerino, ma credo di averlo fatto a bella posta: però non pensavo che mi si avessero a sciorre le treccie. Ella era là sulla piattaforma respirando il vento marino che le scherzava col velo; quando mi sono caduti i capelli le è sfuggito un gesto. Il mare era mosso: io nuotavo con passione rompendo le piccole onde, mentre le altre signore strillavano di paura strette alla fune. La spuma imbiancandomi i capelli mi susurrava: ti guarda, ti guarda. «Ne ero sicura: quando sono uscita dal camerino era lì che mi aspettava. Molti giovani, i belli di Bologna, attendevano pure sulla piattaforma, collezione di scimmiotti più grandi che nei serragli ma in compenso assai meno graziosi. Ci camminavano dietro ridendo forte per farsi notare — imbecilli! badare a loro vicino a lei. «Siamo giunte così agli scalini: mi sono scansata per lasciarla passare; ella mi ha risposto col medesimo gesto d'invito. « — Oh! impossibile: mi è sfuggito. « — Impossibile! Là gioventù e la bellezza non debbono mai cedere il passo. «Ho arrossito senza muovermi. Che sciocca! non dovevo rispondere: Allora io passo la seconda? «I scimmiotti ci guardavano: ella si è accorta della mia pena e mi ha offerto il braccio. « — Sarò il vostro cavaliere. «Ho accettato tremando. Il salone era pieno di gente che si è messa subito a guardarci. « — Bello il mare stamane: ella mi diceva all'orecchio come un uomo. « — Sì. « — Del colore dei vostri occhi. È questa l'ora del vostro bagno alla mattina? « — Sì: ci verrà pure la signora? « — Oh! no: me ne dispiace; piglio il bagno in alto mare, lungi dalla folla: ma ci verrò egualmente; spero che c'incontreremo. «Eravamo fuori dello stabilimento: una magnifica carrozza l'aspettava. Ci siamo barattate le carte da visita. « — Emilia... un bel nome. « — Comincia per E come Elisa. « — Ah! e stringendomi vigorosamente la mano mi ha salutato. «==Elisa di Monero==con sopra una corona di marchesa: scritto in corsivo: un biglietto piccino piccino. «La marchesa ha una fossetta sul mento: pare un nido di baci. Mimy scartabellò due o tre pagine. «Il mare ondulava appena: Carlo ritto a poppa seguiva da lungi il bianco di una piccola vela, mentre io pensavo alla marchesa. «Avevo preso meco la mandola per consiglio di lui e m'era accomodato sul capo un fazzoletto color di rosa alla graziosa maniera delle contadine, colle punte dietro svolazzanti. Il rosa mi va bene, perchè colora lievemente la mia pallidezza spesso marmorea. «Carlo mi chiama. « — Voltati, Mimy: quella barchetta pare che sia ferma: vi è dentro un moro: no, aspetta, mi pare una donna. «E guardava vivamente col cannocchiale. « — È della marchesa! mi ha subito esclamato il cuore. «Egli ordinava di remare a quella parte. Mi sentivo agitata: il mare ondoleggiante mi pareva aumentare la nostra distanza trascinando sempre più lungi la barchetta: il tremolìo dei raggi nell'acqua mi abbarbagliava. « — Perchè non canti qualche cosa sulla mandola? Non ho mai ascoltato musica in mare; dicono che faccia tanto effetto. « — Ora? « — Si leva il vento di terra, diceva il marinaio più vecchio; che alziamo la vela, signore? si va più presto e meglio. « — Come vuoi. «In un momento hanno piantato il bastone e spiegata la vela: era fra me e Carlo. «Volavamo: quindi ho cantato sopra un'aria di Schubert la mia barcarola favorita: «Soffia il vento nella vela «Ride il cielo e ride il mar... «ma gittando l'ultimo trillo, il più acuto, ero a poca distanza dalla barca. Uno strano marinaio vestito di una camicietta bianca dentro un largo calzone egualmente bianco e rimboccato al ginocchio, con in testa un fazzoletto come il mio, stava curvo sui remi quasi aspettando un ordine. Era davvero una donna. Intorno alla barca nulla: dunque nulla? Quella mora era proprio della marchesa? non poteva appartenere a qualche capitano di vascello? frattanto vascelli non se ne vedevano. Avevo cantato quella barcarola per la mora e per Carlo — che sciocca! «Volsi indispettita le spalle alla barca e per non vedere più nulla mi copersi la faccia col fazzoletto: mi veniva da piangere. « — Ma no, pensai; è una scempiaggine. «Mi scossi agitando così il fazzoletto che mi cadde nell'acqua. « — Ah! gridò il marinaio che mi era presso: lo pigliamo subito. Difatti allungò il remo percotendolo sull'acqua, ma i cerchi che vi si formarono lo respinsero assai più lungi. « — Come si fa adesso? « — Diamogli dietro colla barca. « — Contro vento? «Un'ondicciuola lo coperse: dopo un momento riapparve più lontano. « — Ti butti: disse Carlo al più giovane. « — Già, se non ci fosse lei... e mi indicava. « — Perchè? « — Che vuole, coi calzoni si nuota male e ad asciugarseli addosso c'è da buscare un malanno. Beppe, tu non ce le hai mica? « — Che cosa? « — Bestia! «Carlo scoppiò a ridere rumorosamente: il pover'uomo non aveva mutandine. « — Va là: poco male. «Io m'ero già rassegnata a perdere il fazzoletto ed ammiravo il remoto sfumare del verde marino, quando un grido di Carlo mi scosse: guardai e vidi nuotare verso noi una testa, di cui le treccie nereggiavano a quando a quando sopra un dorso nudo nello sforzo della sbracciata... La marchesa! Mi venne quasi male. Nuotava colla forza del più robusto marinaio: non sapevo più cosa credere, e non pensai nemmeno di farle accostare la barca. Ci raggiungeva egualmente. «Mi chinai e vidi Carlo a guardare anelante. « — Carlo! «Non m'intese. « — Carlo! «Si volse e comprendendomi si ritirò, ma siccome la vela ci separava, non so se veramente si nascondesse dall'altro lato, come esigeva la convenienza. « — Ferma! gridai al vecchio. « — Che cosa? e si piegava verso di me per guardare. «Lo respinsi colla mano ponendomi fra lui e la marchesa: nello stesso momento con un colpo vigoroso sull'acqua ella arrivava ad afferrare l'orlo della barca: si sollevò col fazzoletto fra le labbra. « — Il vostro fazzoletto, signora. «Tesi confusa la mano, ma ella non lo lasciò e stringendomi un dito, cogli occhi negli occhi che non potevo nè evitare nè sostenere il suo sguardo: « — Non mi ringraziate? « — Signora marchesa... « — Allora stendete un po' più la mano e permettete alla mia bocca di baciarvela: ella vi ha reso il servigio, a lei la ricompensa. «Ubbidii: ella si rituffò e ricomparve lontana nuotando verso la barca della mora, che parve chiamare col fischietto d'oro, che le pendeva al collo per un filo rosso. «La vedemmo salire sulla barca e non vedemmo altro, perchè la mora l'avvolse subito in un bianco accappatoio. «Ci allontanammo. «Carlo non mi prestò più il cannocchiale. «Ecco come io pure concepisco il bagno, in alto mare guardando la riva lontana e le vele bianche passare all'orizzonte paragonandosi con esse. Vorrei uno scoglio bianco per sedermi con lei al sole e parlare d'amore fra la cocente solitudine del mare e del cielo. Un bacio allora sarebbe sublime; poi tuffarsi ancora, nuotare di conserva come si cammina a braccetto per il viale di un bosco, e ritornando stanche allo scoglio, riposarci l'una in grembo all'altra coprendoci coi capelli, dopo averli torti sul sasso come si scolpiscono le Veneri. «Poi montare sulla barca, rivestirci: la mora vogherebbe... e io canterei accovacciata ai piedi della marchesa sopra un cuscino... «È bella!... se trovassi una immagine... Bella come la prima speranza d'amore in un'ora di solitaria voluttà. «Ho paura che Carlo discorra dell'accaduto allo stabilimento; se lo sapessero che ella ci si è mostrata così... Che importa? ho letto in un romanzo che il pudore è una invenzione moderna dei brutti — credo che abbia ragione. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «La marchesa mi ha mandato i Nibelungi; queste parole erano segnate colla matita: « — Che mi parli di uno sposo, mamma diletta? Senza amore di guerriero voglio vivere sempre, perchè a causa di un uomo nessun dolore mi tocchi. Così mi conserverò bella fino alla morte. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Carlo si è innamorato: egli! La marchesa lo deride e non se ne avvede. «Questa sera le ha fatto un complimento: « — Ma sono proprio bella? gli ha risposto la marchesa: trovatemi un paragone. « — Non ve ne sono, mi è sfuggito. «Ella ha sorriso. « — L'ho trovato. « — Originale? « — Lo spero: come la Minerva vaticana. «A questo paragone veramente originale la marchesa ha fatto una smorfia. « — E voi non avete il vostro complimento? « — Sì. « — Come sono dunque bella? « — Come io vorrei esserlo se voi non lo foste. « — Ah! perdonate al mio orgoglio, signor avvocato, ma questa volta la moglie ha vinto il marito: accade spesso. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Mia cara signora, «Poichè ieri sera non mi fu possibile venire allo stabilimento e debbo partire sull'atto, mi piglio la libertà di scrivervi: posso sperare che non vi sembri strano? Certo ci conosciamo da troppo poco perchè costumi così amichevoli corrano fra noi; ma se la simpatia è la prima apparenza e il primo fondamento dell'amicizia, permettendomeli, non faccio che esprimervi parte dei sentimenti che mi avete inspirato. Siccome non ho conosciuto che voi a Rimini, sono quasi tentata di credere voi pure non vi abbiate conosciuto che me. Il nostro incontro fu quasi romantico quanto la vostra bellezza. Vi ricordate la passeggiata sulla spiaggia al lume di luna? Quella sera mi pareste stupendamente bella; seppi che occupavate un gran posto nel mio cuore e che potrei difficilmente un giorno dimenticarvi. Eravate vestita di bianco, melanconica, meditabonda: la vostra mano appoggiandosi al mio braccio fremeva, i vostri occhi mi guardavano a quando a quando incantati mentre sulla bocca vi aleggiava un voluttuoso e triste sorriso. Perdonatemi, signora, l'audacia delle osservazioni e il cattivo gusto delle frasi; ma quel ricordo mi brucia così nel pensiero, che trattandolo, la passione mi turba e non so velarlo come vorrebbe forse la convenienza. «Io parto, voi pure a giorni lascerete Rimini per la vostra villa: così almeno mi disse il signor avvocato. Volendo rivedervi mi converrà dunque cercarvi fra le belle colline felsinee, ed ecco una nuova attrattiva. Ma voi, signora, all'ombra di un vecchio albero o sotto una rustica capanna penserete mai a me? Vi tornerà mai la memoria alle poche sere sulla piattaforma, nelle quali abbiamo tanto parlato guardando il mare? Vorrei essere davvero vostra amica per godermi questa bella speranza e dirmi qualche ora del giorno o della notte: forse adesso la più bella fanciulla, perdonatemi ancora questo nome che non conviene al vostro stato di sposa ma va sì meravigliosamente alla vostra figura, la più bella fanciulla cui mi sia incontrata, s'intrattiene di me... Vi sono nell'amicizia consolazioni ineffabili, e questa n'è una: occupare la vostra anima delicata quanto il vostro viso, esservi intorno invisibile ed avvertita: sentire le vostre melanconie, comprendere le vostre passioni, essere la vostra confidente, colei alla quale si ricorre per non star sola, che è nella nostra vita, nell'aria che si respira, nei fiori che si colgono, nel giardino ove ci si perde, nel letto ove ci si adagia... Ecco un sogno di felicità; questo sogno mi assedia. «Dall'amicizia all'amore è un tratto anche più breve che dalla vita alla morte, dall'amore alla voluttà; quindi desiderandovi amica vi confesso di amarvi. Voi donna comprendetemi e perdonatemi se non dividete il mio affetto — consultate però bene il vostro cuore prima di rispondermi e non mi spedite la risposta, perchè non posso darvi ora alcun indirizzo. «Il cuore di una donna è capace di sentimenti d'infinita delicatezza, che gli uomini ignorano: consultatelo bene. «ELISA DI MONERO.» «_PS._ Se intendeste di mostrare questa lettera al signor avvocato per avvisarlo che parto è inutile: gli mando una carta da visita. Mi accorgo, rileggendo la lettera, che non vi ho salutato; non ve ne offendete. Mi duole troppo dirvi addio: non so pensarci, mi è impossibile scriverlo. «No: a rivederci. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Partita... come un sogno! « — Ci rivedremo — non lo credo; perchè dovrebbe ritornare? Eccomi ancora sola, più sola e per sempre.... Inchiodate dunque il coperchio, ora che il cadavere è adagiato nella cassa... «Povera Mimy! · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Che scena! Ero nel gabinetto quando Giulietta è entrata ansante. « — La signora marchesa! « — Chi! « — Di Rimini. «Mi è mancato il respiro, e Giulietta è scappata per preparare non so cosa. «Dio! com'ero mal vestita. L'abito mi faceva mille brutte pieghe, avevo la pettinatura vecchia, le pantofole invece degli stivalini, ma il tempo, di raffazzonarsi mancava — Come mi troverà brutta! Nullameno, sono andata verso la sala sudando freddo. La porta era socchiusa; la ho traveduta presso il tavolo con un mio ricamo in mano. «Sentendomi si è rivolta. « — Così dunque vi sorprendo: il signor avvocato è a Bologna, alla Corte di Appello: vi stupisce che sia tanto bene informata? almeno non vi dispiacerà... « — Perchè?... « — Ah! signora Mimy, questa è una cattiva risposta: una amica avrebbe trovato di meglio. «Ero nella massima confusione. « — Mi permettete, soggiungeva colla sua disinvoltura prendendomi le mani, di invitarvi a sedere: la mia visita sarà molto lunga. «Poi ha parlato lei sola di tante cose con uno spirito e una leggerezza, che a poco a poco mi è ritornata la confidenza delle migliori sere ai bagni, e ho potuto seguirla. Adesso che ci penso, non capisco come ella abbia retto la conversazione con me, che parlavo a monosillabi. « — È appena di un anno il vostro matrimonio? « — Di un anno. « — Breve? « — Un anno. « — A me parve lungo. Davvero il matrimonio non vale quanto costa. Amore e matrimonio, un fiore di primavera e un fungo di autunno: che ne dite di coloro, i quali ne compongono un mazzo e pretendono che sia bello? «Le ho risposto con un sorriso. « — Si vede che le leggi sono fatte dagli uomini: ci vogliono immacolate nel matrimonio e appena contrattolo ci si rivelano nella più ributtante animalità: prima il morso, poi gli speroni. Le donne vi assentono; alcune, le più volgari, vantano perfino la vita di famiglia. Partorire figli, essere idropica nove mesi dell'anno e gli altri tre convalescente, diventare brutta dieci volte prima di essere vecchia, balloccarsi coi piaceri della nonna avendo intorno una torma di bambini... ecco tutto — e il sogno, il romanzo della gioventù, le passioni, l'incognito, la febbre, questa vita della vita?... Compiango le mogli, ma non posso sopportarle felici: mi sembra una rinnegazione della nostra aristocrazia questa loro plebea beatitudine nel matrimonio... « — Ma il mondo... « — Il mondo, mi ha interrotto riscaldandosi, lo so, finirebbe: anzi tutto dubito se fosse un gran male — e che m'importa del mondo? che cosa è? La moltitudine è il mondo? Ebbene, abbia le sue leggi e i suoi matrimoni; però tutti non sono moltitudine, e coloro che hanno un altro mondo nell'anima, le donne che sentono sè medesime perchè accettano o peggio ancora godono di questa degradazione: la subiscano almeno, abbiano la poesia del dolore se non quella della felicità. Una volta vidi una tigre domata lambire la mano a un facchino e ne patii: ecco la donna e il marito. Ci battano, ma non ne siamo innamorate. La tigre non deve amare che la tigre; la tigre è più bella dell'uomo. «Così parlando gli occhi le lanciavano fiamme e il viso le si era colorato. Bella e superba! Ma che discorsi! eppure ha ragione. «Io tacevo non sapendo che fare o dire: la sua audacia mi spaventava. « — È vostra questa rosa? proseguiva mutando discorso e tono con incredibile facilità; e m'indicava un ricamo sul seggiolino. « — Sì. « — Allora accettate anche questa: ha soggiunto traendosi e presentandomi una magnifica rosa bianca. «Poi abbiamo ancora parlato non so come di cose malinconiche. Mi sono venute le lagrime agli occhi. «Ella si è alzata vivamente guardando l'oriuolo: « — Ho tuttavia una mezz'ora: la passo con voi: ma usciamo, scendiamo in giardino. « — Come siete pallida, triste: siete sempre così? « — Carattere... « — O sciagura. « — Forse anco. « — Però siete giovanissima. « — Venti anni. « — L'età del primo amore. « — E del matrimonio. « — Dimentichiamo, dimentichiamo ha mormorato mormorando gli ammirabili versi del Carducci: «Odi le cetere tinnir, montiamo; «Fuggiam le occidue macchiate rive, «Dimentichiamo.» « — Vi ricordate? «Non volevo rispondere, e poi non potevo. « — Consentite? « — Consentite? insisteva ancora con voce più sommessa. « — Sì... «Il suo volto si è avventato sul mio e le sue labbra mi hanno tanto baciato le labbra da suggermi il respiro. Oh, il suo bacio! Siamo rimaste così: quando l'ho guardata aveva le labbra bianche. « — Ho fatto male a chiedervi un bacio: avrei dovuto darvelo quando siete entrata, così sarebbe stato meno terribile. «E mi ha trascinato correndo giù per le scale. Erano le quattro dopo mezzogiorno: fra le piccole aiuole l'aria scottava, sebbene il sole fosse nascosto da un gran nuvolone turchiniccio: laonde abbiamo girato dietro il casino internandoci fra i pochi alberi, che Carlo decora col nome di bosco quando parla coi vicini: ci siamo sedute all'ombra della vecchia quercia: mi sentivo in una atmosfera tropicale. « — Che ne pensate de' miei discorsi? mi ha chiesto. « — Belli... « — Null'altro? confessatelo, sono stravaganti come io stessa, come tutto e tutti che abbassandosi o sollevandosi escono dalla zona comune. Mostrate al vostro giardiniere la rosa delle Alpi e vi risponderà: Strana! Mostrategli la rosa Gulsad-berk dalle cento foglie e vi risponderà egualmente: e se io dicessi a vostro marito, che è pure un gran giureconsulto: una donna ama una donna con maggior passione dell'uomo più sensibile, di Byron o di Heine, mi risponderebbe: stravaganza — e avrebbe torto come il vostro giardiniere. Ma se io ripeto a voi intelligente quanto bella: il matrimonio è il peggiore fra i contratti ammessi e proibiti dal codice, la famiglia un ergastolo per la passione, la gioventù senza amore il delitto più insensato contro noi stessi e la natura: se vi ripeto che noi donne siamo la poesia e dobbiamo essere i nostri poeti, che Eva amò gli angeli perchè soli la somigliavano ed Eva era sola, mentre Adamo era il cane che veniva a lambirle la mano abbandonata nel languore dell'amplesso celeste... mi ribatterete: stravaganza? « — Oh! no_ — Gli amori degli angeli — _il mio poema favorito... Ma la passione, e tremavo dolente di contraddirla e curiosa della risposta, è davvero la vita? Noi facciamo sogni stupendi... non sono che sogni... « — Perchè disperare? Credere ai sogni della mente, sogni di volgari interessi, seguirli, dar loro una forma più consistente del marmo e considerare quelli del cuore come nebbie che il vento debba dissipare ancora prima che il sole le illumini... È un triste piacere quello di lanciare un sasso contro un vaso di porcellana per riconoscerlo fragile. Io accarezzo i miei sogni, e se Sardanapalo offriva un premio per un nuovo piacere, ne offro un altro, fosse un bacio ad un uomo, per un nuovo sogno. Sognare è godere, quindi vivere, ed io voglio sognare... «Così dicendo la sua testa mi si è languidamente appoggiata sulla spalla, come la testa di Zaraph sulla spalla di Nama. «Una ciocca de' miei ricci le era rimasta sotto la gota: l'aria bruciava, le foglie ci guardavano immobili, noi pure stavamo immobili. « — Mio Dio! « — Le cinque! ho esclamato ascoltando l'orologio. « — Sognavo... «Ah! « — Perchè non mi chiedete del sogno?... Ve lo lascio ad immaginare. «Poi levandosi e tenendomi per mano siamo andate verso il cancello: la sua mora l'attendeva colla carrozza. «Mi ha stretto la mano e raccolte febbrilmente le redini è partita di gran carriera. Speravo che alla svolta della strada si rivolgerebbe: mi sono ingannata. «Mia cara signora. «Così dolci mi rendi, o creatura «Bella, i riposi, che la veglia è morte «E vita il sonno dilettosa e pura. «Ma perchè mi t'involi e, quando assorte «Fiso in te le pupille ebbre d'amore, «Ratto mi chiudi del tuo ciel le porte? «Ricorderete questi versi: sono la preghiera di Lille, sublime come ella ed il suo amore. «Lille muore in amplesso di luce, e il bacio della sua voluttà moribonda divora la bocca del serafino piucchè il bacio di una saetta: cercate in tutti i poemi ma non ve ne troverete un altro di maggiore potenza: è il bacio di una donna. Noi siamo eccelse: stiamo dunque in alto, _excelsior, excelsior!_ Se i fiori spuntano nel fango il loro profumo sale al cielo; se la donna è depressa nella società deve sollevare in alto il pensiero, perchè la poesia come la gloria non si posano che sugli alti monumenti — le cornacchie che gracchiano non giungono alle vette delle aquile, e se il poeta disse che le vette sono battute dai fulmini per distorci dal salirle gli risponderemo: menti, non sei un poeta — la passione può incontrarsi colle folgori come la tigre colle iene — in alto l'aria è più pura, più limpida l'anima; e non sarà impossibile intenderci. «L'infelice posizione della donna mi ha sempre, dacchè appresi a pensare, addolorata. La vita è voluttà, mi dicevo, e queste donne non godono: non godono le vergini fra le pareti assiderate dei conventi; non godono le spose che la legge consegna ammanettate al marito del quale la vita, attività di officina, non somiglia tampoco alla loro, fantasticheria di poeta; non godono le madri ridotte allo stato di balie... e la vita o è voluttà o è dolore. Io non intendo nulla alle parole di missione o di cielo da guadagnare: non ho che un sole, che una luna, che una vita, che una giovinezza, che una passione l'amore. Colgo il fiore che olezza senza pensiero che la morte possa cogliermi nello stesso momento. Voglio godere, sempre godere, null'altro che godere: la voluttà è bellezza e splendore, gioventù di sensi e di anima, poesia di arte, di natura. Ahimè! bisogna dunque esser belli e ricchi per godere, mentre l'immensa maggioranza dei viventi è brutta e povera. Una bella statua non istà bene in un granaio, un amore in una soffitta: occorre un altare per la statua, un tempio per l'amore. «Vedete, il mio problema si rinserra: abbandoniamo alla misericordia di Dio e alla fatica dei filosofi la felicità delle masse affamate, e piangendo su esse una ultima lagrima occupiamoci della felicità delle eccezioni. Io ne sono una, voi un'altra; incontrandovi fui subito tratta verso di voi. Ho quindi sognato come ieri sulla vostra spalla. «Siete sempre malinconica. La vostra fronte bianca come l'ala della più bianca colomba è avvolta nella benda di un pensiero doloroso, la quale ne lascia vedere il candore ma lo ammorza: i vostri occhi hanno la fissazione penosamente estatica delle lunghe meditazioni — e badate, mia bella amica, quando una donna medita così sè medesima, ella è gravemente infelice, poichè il dolore si concentra e si raggomitola quasi a farsi più piccolo, mentre la gioia sprizza dall'anima come una fontana di luce, ricadendo in fiocchi, che si sciolgono in una atmosfera d'irresistibile espansione. Perchè tanta pallidezza sulla vostra fronte? Il pallore è la tinta della morte; una fronte così pallida può ben sospettarsi il sarcofago di un morto ideale. Perchè l'azzurro dei vostri occhi è sovente smorto come quello di una turchese? Vedete: vi ho osservata. Siete divinamente bella nella vostra tristezza, bella come una di quelle statue nude e velate, colle quali gli scultori si compiacciono da qualche anno a popolare le esposizioni: perdonate dunque all'affettuosa curiosità della donna che vorrebbe alzarvi il velo. «Non soffrite una malattia della vita, ma avete la vita ammalata: non è il lago che sollevato dalla tempesta si frange invano nelle roccie, ma lo stagno, il quale fremente ancora sente che non si muoverà più, non risalirà la collina, non serpeggerà nella pianura; che l'immobilità sarà la morte delle sue acque, onde imputridendo perderanno l'aspetto del cielo e uccideranno i fiori sulla sponda; che ode il vento passare al di sopra e non può sorridergli, che vede le nubi addensarsi minacciando la bufera e sente che non sarà liberato. «Oh coraggio! La malinconia è la stanchezza del desiderio inappagato, la prostrazione della speranza: sperate, chiedete. Che cosa posso fare per voi? Vi comprendo, non vi sarà spesso accaduto di essere compresa: ma non basta; mi vi offro. Conosco la vita sebbene io pure non viva, ma diventate sinceramente mia amica e vi dirò come abbia scoperto il nostro mondo: vi racconterò la mia odissea, vi mostrerò i giardini di Circe così belli che a rovescio di Ulisse, il quale ne fuggì, bramerete forse di entrarvi: allora indicandovi il sentiero vi domanderò il permesso di accompagnarvi. «ELISA.» «Un'altra lettera di lei. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Bella e gentile, vi ringrazio. Il mazzo di bianche gardenie, che mi avete mandato stamane per ciò solo che camminando ieri al vostro braccio ne lodai la grandezza e il profumo, non è stato solo un pensiero della mente, mi lusingo, ma anche del cuore. L'avete composto voi stesso il mazzo? Il mio istinto di donna me lo dice, perchè un giardiniere vi avrebbe aggiunti altri fiori e curata più la simmetria. Queste bianche gardenie strette insieme da un cerchio di verde giranio senza arte, senza pretensione sono sublimi. Le avete colte per un pensiero improvviso e appena colte mandate, non è vero? «Vi ringrazio. «Ogni gardenia m'inspira una idea, mentre fiutandole insieme mi sento avvolgere il viso dal loro profumo inebriante come dalle larghe maniche del vostro abito bianco, che profumate così caramente. Ho baciato le bianche gardenie come se baciassi la vostra bianca fronte. Ah! come sareste bella vestita di un semplice manto candido, meno ampio ma tagliato sul gusto della toga romana: sopra una spalla rattenuto da una fibbia e sull'altra buttato colla negligenza di persona che mediti: i piedi nudi entro sandali pallidamente rosei, i capelli inanellati e sui capelli una gracile corona di queste gardenie... sareste così bella che tutti vi guarderebbero come una pellegrina di altri mondi smarritasi sulla terra. «Debbo dirvelo? Il mazzo che ho baciato con tanto affetto mi ha risvegliato nell'anima un senso inesprimibile di malinconia: ho pensato alla felicità di questi poveri fiori sul loro arbusto, ai loro amori odorosi, alla loro vita aerea e così breve... e noi li tronchiamo con feroce indifferenza per ornarci il seno dei loro profumati cadaveri. Forse erano felici di vivere nel vostro piccolo giardino, di vedervi, di salutarvi come una sorella maggiore... Adesso mi paiono sorpresi di essere nelle mie mani e nel loro olezzo fiuto un non so che di doloroso. Poveri fiori! Conserverò le loro ceneri in una bell'urna e possa la nostra amicizia durare quanto esse. Perdonatemi questa malinconia forse insulsamente poetica e credete pure, che regalandomi altri fiori non mi saranno meno diletti e preziosi. Tutto ciò che viene dal vostro cuore e passa per la vostra mano mi diviene caro. «Vi mando un ramoscello di geranio: il suo sorriso cupamente verde è ancora più melanconico che quello della gardenia candida ed appannata; il suo odore è acuto come il pungolo del desiderio, acre come il vaneggiamento della passione che spera ed attende. «Il ramoscello non ha che le foglie adesso — credete che un giorno avrà i fiori? «Bella e gentile, addio: no a rivederci. Posdomani sarei ben felice d'incontrarvi; eviterei così di farvi sempre visita nell'assenza di vostro marito. Lasciatevi trovare nel viale coperto di acacie che sale alla parrocchia... vi passeggeremo sole: ho tante cose da dirvi, ho tanto bisogno di stringervi la mano. «Pensate qualche volta alla vostra «ELISA.» Così scartabellando Mimy era giunta all'ultima pagina. Rimase alquanto assorta colla penna fra le dita. — Voglio scriverle, mormorò. «Signora, «Siete sublime, vi amo, voi pure avete detto di amarmi — datemene una prova. Amate i fiori e li respirate, il mare e vi tuffate nelle sue onde, i cavalli e li slanciate alla corsa, amate, me e...? «MIMY.» PARTE SECONDA Caro Anselmo, Di villa, 5 agosto 1871. Soffia un vento indiavolato che scompone la campagna dalla lieta serenità: gli alberi sibilano furibondi mentre i campi di canepa ondeggiano come laghi verdeggianti. Tale tempesta col cielo sereno e l'aria secca somiglia a quelle che talora si scatenano nell'anima e la scuotono senza offuscarne la lucidezza, nè toccarne la profondità — tutto trema, ma alla superficie; il muggito delle passioni si perde in un fracasso uniforme, onde il pensiero ne è più sbattuto che impaurito. Tale bufera m'imperversa adesso nel cuore. Certo sopportai nel passato ben altri uragani, ma pochi così mi tormentarono, giacchè la maretta mi è sempre dispiaciuta più della burrasca e non ho mai provato maggiore spasimo della mediocrità del piacere e del dolore. Forse mi esprimo male che non riescirai a comprendermi; non so meglio esprimermi. Studiando noi stessi siamo come pescatore, che da una rupe si chini sopra un limpido lago a gittarvi le reti; e vorremmo pescare il segreto che ci commuove: scorgiamo laggiù un'immagine, l'avvolgiamo, tiriamo la corda, ma l'immagine è quella del nostro volto — l'altra dell'anima è rimasta nel fondo. I più dotti psicologi non fecero mai pesca migliore, o riuscendo a decifrare qualche carattere sopra una porta si vantarono indarno di esservi entrati. L'anima chi l'ha spiata? Talora ci sale al cervello un profumo inebbriante, ma dove sorridono i fiori che lo esalano? Mistero: l'idea è un mistero per l'idea, il sentimento pel sentimento, perchè la logica che li unisce non li spiega, e la coscienza, avvertendoli, è come una strada polverosa che conserva le orme dei passeggeri, non le fisonomie. Sono agitato, caro Anselmo, da un gran vento di collera. Sento in me lamentarsi un ferito, cui bene non distinguo se orgoglio, senso o sentimento; la mia ragione è irritata da questo dolore. Mi permetterai di sfogarmi teco confessandomi? Mi sei amico, sei curioso come filosofo: ecco due eccellenti pretesti che me lo consigliano e te lo impongono. Nella mia dell'altro ieri ti parlai di una donna sorpresa nuda allo specchio amoreggiando sè stessa e del mio progetto di sedurla, meno ancora per esserne innamorato che per distrarre la noia dolorosa del mio spirito in questo tempo. Non val meglio sfogliare un cuore mediocre che un mediocre romanzo? Ti assicuro che il pensare sempre di sè stessi è pure il triste pensiero e che colei che me ne liberasse meriterebbe davvero una riconoscenza infinita! Avevo pensato, mi ero deciso. Ebbene, caro Anselmo, sono stato respinto malgrado l'impeto della mia passione, in quel momento sincera, e la simpatia di una vecchia amicizia. Virtù! Vorrai tu dire? Ma t'inganneresti perchè Mimy non ha nulla di quel sentimento, strano volgarmente nelle donne, chiamato con tal nome e che consiste nel conservare il loro corpo solamente pel marito, mentre non lo amano; e se vuoi convincerti che Mimy non è una borghese virtuosa, io le faccio la corte, io che non la farò mai ad una donna la quale intanto che le parli di amore pensi alle pene dell'inferno o si aggiri fra i metafisici aforismi di Kant come una pescivendola fra le rovine del foro romano. Perchè dunque fui respinto? La ho vista nuda e la sua nudità era allora terribilmente lasciva...; invece calma, gelida mi guardava colle grandi pupille azzurre, inesplicabilmente curiose, mentre singhiozzavo ieri alle sue ginocchia di amore e di dolore. Oh! è uno spasimo senza nome quello di aprire in delirio le braccia per stringere la voluttà e non abbracciare invece che un cadavere; di essere lì, anelante, ai piedi di una donna, voi artista, re dei mondi ideali e dirle: t'amo, soffia il vento, partiamo sovr'esso come Paolo e Francesca di Schaeffer: t'amo divina... ed ella fredda e stupida, senza nulla comprendere e nulla sentire — e voi che dovete chiudervi colla mano la bocca per soffocare l'incendio che vi divora il petto, chiudere le orecchie per non udire le arpe dei misteriosi paradisi, chiudere gli occhi per non vedere i misteri dei dilatati orizzonti, ricadendo dall'altezza del sogno sulla strada della realtà, sicchè alla caduta vi scoppiano per aria i polmoni, vi si frantumano le membra sui ciottoli... e non morire e veder lei che vi guarda fredda, stupida, senza nulla comprendere, nulla sentire... Sono stato respinto, ma non sono ancor vinto; anzi la guerra non fu nemmeno dichiarata. Posso quindi vantarmi di essere fra non molto vincitore — sono troppo orgoglioso per cedere, troppo gentiluomo per avere degli scrupoli — fors'anco riuscirò ad innamorarmi in qualche giorno, e allora ella stessa sarà contenta di me. So quello che tu, nobile puritano, potrai dirmi a dissuasione della impresa, ma so che sarebbe inutile e voglio risparmiartene la fatica. Ecco la mia morale: condanna, ma ascolta. La società è una lotta di tutti contro tutti, nella quale ognuno predica il sacrificio per farne suo pro: la moralità è una barriera mobile alzata da interessi timidi che vogliono agire nascosamente, saltata dai forti, rispettata dai deboli: tutti gli uomini s'ingannano a vicenda, le donne gli uomini: la virtù consiste nella forza, la grandezza nell'abbassamento dei vicini. La felicità di uno nasce dal dolore dell'altro, quindi odio di tutti verso tutti, necessariamente unito ad una simpatia di tutti per tutti, a cagione della nostra vita socievole e dell'interesse che rattiene l'individuo all'individuo. Al di là del mondo umano nè speranze, nè timori; e nel mondo la necessità in ognuno di impadronirsi di quanto gli giova — l'amicizia è un'alleanza, l'amore un'aderenza di forze: guai ai fiacchi! Che una donna mi piaccia, caro Anselmo, e me la prendo ed ho ragione; il marito me la contende ed ha egualmente ragione; ci battiamo ed abbiamo tuttavia ragione, e tutta la giustizia sta in questo, che qualunque sia il risultato della lotta il vincitore acquista il possesso, non un diritto sull'oggetto conquistato — la lotta può sempre ricominciare, sempre giusta, sempre uguale la ragione nei combattenti. Mimy è bella, dunque cerco di impadronirmene, libera di resistermi, se ne ha la forza morale: Carlo suo marito non saprà nulla per legge di guerra, e se per caso lo saprà, a noi due la battaglia, e guai al vinto! Adesso condannami e rimanimi amico, perchè la nostra alleanza non ti grava in questa mia impresa: solamente, ti manderò il bollettino della campagna. _Vale et me ama._ 5 agosto. _Venite et videte si est dolor sicut dolor meus._ Ti ho letto, ma non ti ringrazio: hai troppa ragione. Forse che io cangierò? Pur troppo ne dubito. Organismo robusto ed armonico, che nella tua superiorità non puoi intendere la mia debolezza, mi tratti senza pietà perchè non approvi se non ciò che capisci, e non capisci se non ciò che è logico. Malattia! esclami rimproverandomi la compiacenza onde ti descrivo le mie contraddizioni; ma dimentichi dunque che anche la malattia ha la sua voluttà, e che nello spasimo vi è spesso un prurito, che lo rende quasi caro? Quando il vaiuolo si essica, l'infermo è incessante a scrostarne i grumi e vi si tortura e vi si inebbria — tu dirai: ha torto due volte: e cosa credi di avergli provato con ciò? Nessuno può mutare sè stesso: _Ego sum qui sum_, come il Dio di Mosè: però conserva la tua generosa intenzione, e io rifiuto la cura. Parmi di averti scritto altra volta che nella mia anima erano due grandi passioni, la bellezza e la forza, e m'ingannavo, perchè non due, ma tutte. Qualunque sia l'oggetto o l'idea, o non mi tocca o se mi appassiona mi vi porto con tutta l'anima, mi vi perdo e nullameno me ne distolgo colla massima facilità. Poeta e filosofo, classico e romantico, austero e dissoluto, passo prontamente per tutti i gradi del termometro e le antitesi dei sistemi, uniformandomi a tutti; materialista, ho l'entusiasmo della forma; spiritualista, la febbre dell'ideale, e una stravagante potenza di attenzione e di distrazione. Talora parlando con una donna, se le sfugge una parola o un'idea la inseguo senza badare più ad altro: invano ella mi vorrebbe richiamare, non respiro più che per quell'idea, e finchè non l'abbia raggiunta non ritorno in me stesso: talora m'incanto invece a guardare una donna, ed ella potrebbe parlare come un genio che non l'ascolterei: studio qualche cosa della sua fisonomia, onde a poco a poco la cangio, la trasfiguro — -è lei, non è più lei, è una conoscenza di altri mondi, una mia creazione, divento pazzo, e due volte perdetti così due signore molto amabili. Quindi al pari dello spirito ho variabile l'amore: ho lo spirito nei sensi e i sensi nello spirito. Ho torto ancora? Poeta, l'inno è la mia forma e mi sprizza dall'anima come un getto di fiamme: invece di ballonzolare come l'allodola sul prato, scatto dal suolo, mi innalzo, dileguo stringendo fra gli artigli l'immagine che mi ha commosso, e là solo nell'azzurro, senza via, senza limite al mio volo, volando sempre, ignorando se mi fermerò, se dovrò o vorrò fermarmi. Ma fin qui sono osservazioni confuse: seguimi giù nelle bolge del cuore, e chi sa se nel fondo non vi troverai, come Dante, un satana mostruoso o una perla come il palombaro. Debbo confessartelo? il mondo interno mi seduce più dell'esterno, forse per la vanità di essere solo e più facilmente grande. I suoi confini indeterminati si allargano e si rasserenano a seconda della luce: il suo aspetto è estremamente cangevole: ora mestamente monotono come quello del mare o del cielo, ora vario e intricato quanto un paesaggio alpino, ora ridente come un mattino di Grecia, ora nebbioso come un vespero scandinavo: qualche volta un deserto, qualche volta un'oasi, qualche volta un isolotto. Io vi sto come un anacoreta assorto nella contemplazione, vi passeggio come un epicureo per un giardino, vi erro come un pastore che si compiace della natura, vi passo come un guerriero fuggiasco, lo traverso come un viaggiatore curioso, lo studio colla curiosità di un dotto. Tutto mi attira, i fiori delicati quanto i sinistri, quelli con le urne fragranti e quelli con le velenose: tento le sabbie e le terre per scoprirvi diamanti o serpenti, monto sugli alberi, interrogo le pietre, imploro spiegazioni dalle poche figure di abitanti che rare mi passano innanzi e dileguano. In questo mondo tutto mio, mi regalo le scene più opposte, i panorami più splendidi, gli orrori più terribili: simile a un Dio creo ed annullo con un atto del pensiero: intreccio e separo le forze: sollevo l'uragano e lo acqueto, offusco il sereno e lo purifico, confondo le stagioni e i colori; in questo mondo mi faccio una vita e un impero. E fra questo e il mondo umano vorrei gettare il ponte dell'arte, ma non vi riesco — ecco la mia infelicità. Humboldt ha detto, che passando successivamente dal polo all'equatore si morrebbe in pochi istanti; ed ha ragione anche nel mio caso. Il mio ideale di felicità è un sogno impossibile, la mia passione pel dolore peggio che un sogno, una follia. Talvolta ne' miei giorni più foschi mi piglio il cuore fra le mani e stringendolo convulsivamente, ne spremo poche goccie, che mi porto alle labbra colla avidità di un febbricitante. Tutto quindi mi si fa lugubre agli occhi e al pensiero; da ogni oggetto mi giungono ferite, in ogni voce è un lamento, in ogni minuto è uno spasimo, che mi affina e mi accresce la vita. Allora mi ravvolgo nel dolore, come in un cupo mantello, e pallido di orgoglio guardo sogghignando la ignobile folla dei felici... senonchè troppo spesso agli urti dei loro gomiti mi casca il mantello, e rimango seminudo alla puntura degli insetti e delle beffe... Ma lasciamo le miserie del dolore, perchè, se lo spettacolo della malattia è più orribile che quello della morte, e possiamo ripetere il grido dell'animo nel parossismo dello strazio, nulla può rendere il suo continuo e difficile lamentio. Il genio stesso non trovò nulla per esprimere il tedio, questa miseria più comune del dolore. La Grecia scolpì la disperazione che lotta nel Laocoonte, spossata nella Niobe; l'Italia l'amarezza inconsolabile nella Madonna, la desolazione delirante in Maddalena, il contrasto di uno spasimo insopportabile e di una rassegnazione divina nell'_Ecce Homo;_ ma chi potè raffigurare l'irritazione di Leopardi o la febbre di Byron? dolori senza espressione, dolori di artista, di uomo deforme nella sua superiorità, con più sentimento e fantasia che ragione. E anch'io sono artista: ne ho gli entusiasmi fulgidi ed improvvisi, le passioni deliranti, il sonnambulismo nervoso; per me non vi è aria respirabile che sulle cime alle quali tiene l'occhio la storia costeggiando le rive del passato, non luce che avvolgendomi in un raggio di sole, non profumi che abitando il calice di un fiore. Non vivo, non godo, non soffro che per me: tutto il mio studio sta nello svilupparmi, tutta la mia fatica nel costruirmi un palazzo. Egoista! mi dirai; ti risponderò: artista, e avremo entrambi ragione. Napoleone invade la Germania, abbatte eserciti e città, rovescia il vecchio impero e Goethe, assorto nella concezione del Faust, volge appena il capo al rumore della grande caduta e guardando fra il fumo dei cannoni e delle macerie l'immane carneficina, mormora indifferente: schiavi contro schiavi! Ecco per la patria. Uno scolaro di Donatello è agonizzante; il prete che lo consola gli offre un Cristo a baciare: ed egli parla ancora per chiedere un Cristo del suo gran maestro. Ecco per la religione. Egoista che assorbe tutto in sè medesimo, deve essere grande per rendere nell'opera quanto ha assorbito, e guai all'artista che è piccolo, che non può essere immortale. Io, artista, morrò. La comprendi tu questa parola e hai riflettuto come l'arte sola dia l'immortalità, perchè mentre di Annibale non rimane che il nome di una battaglia, di Euclide la ragione nei suoi poligoni, di Aristotile l'intelletto nella Repubblica, di Eschilo, di Dante, di Raffaello rimane tutta l'anima nel _Prometeo_, nella _Divina Commedia_, nella _Trasfigurazione_? Talora credo sentirmi improvvisamente la potenza della creazione: afferro la penna o il pennello e mi accingo, ma alle prime righe mi cessa il coraggio e mi veggo innanzi il mio _Mefistofele_, che sogghigna spietatamente. Oh! Anselmo, quando nei tuoi studi non tocchi la meta, non la vedi — io invece ho sempre sotto mano il mio titolo all'immortalità e non posso impadronirmene. Se prendo in mano la creta e mi provo a plasmare soffro ancora una più tremenda tortura: vorrei copiare la bellezza che mi sorride nella fantasia, e copio invece una faccia che m'insulta colla sua trivialità: i lineamenti mi si sformano sotto le dita, gli occhi non guardano, la bocca non trema, le carni non palpitano; insomma la creta non vive, eppure in quella creta vi è la mia forma divina, come dentro un astuccio. L'antichità ha espresso magnificamente colla favola di Tantalo questo supplizio dell'artista. Quindi gettando la penna o la creta, corro nel mio gabinetto: piango, folleggio: torno a' miei sogni, alle mie appassionate contemplazioni, povero muto dell'arte, povero mendicante della immortalità... e tu vieni a dirmi: esci dal labirinto e risplendi! Non sai che vi sono dentro nudo, e che il labirinto è di spini, e che più volte, la persona insanguinata, urlando di rabbia e di dolore ho tentato invano di evadere? Ho pensato anche a morire, ma non ne ebbi la ragionevolezza o l'imbecillità: non voglio morire perchè sono degno della vita; mi ucciderò solamente quando m'accorga di essere un volgare... Allora addio, sole innamorato, poeta della natura! Adesso nella mia impotenza trovo tuttavia un argomento di superiorità. Da fanciullo m'immaginavo la strada della gloria come la via Appia, fiancheggiata da sepolcri; e immaginavo di esservi io pure, diritto sopra un cippo, con una ghirlanda sui capelli, ricevendo il saluto della gente: sentivo montarmi intorno l'anelito di migliaia e migliaia di anime innamorate, sorridevo, e il mio sorriso era per loro un raggio di sole. La gente non cessava di passare, e noi sempre ritti, eternamente belli, eternamente venerati; invece mi seppelliranno come un cane! la mia vita sarà come non fosse stata, come la traccia della neve sul mare, dell'uomo nella donna. Vedi il torrente che trabalza da quella costiera?... il torrente è la vita, noi le impercettibili gocce che, sbalzando in aria, incontrano un raggio di sole e vi brillano un istante — l'iride dei colori è l'iride dei nostri giorni mesti o lieti; ma quel sorriso di luce svanisce, e la goccia si scioglie... Potesse invece irrigidirsi in diamante e fra i sassi della costiera parlare eternamente co' suoi raggi ai raggi del sole... Ti parrà soverchiamente lunga questa lettera! Avresti torto, perchè non sono ancora a mezzo, e la tua conversazione mi diverte. Pascal domanda: che cosa sarebbe stato di Roma se Cleopatra aveva il naso più lungo? Avrei mai fantasticato di Mimy non sorprendendola nuda allo specchio? — nullameno ci vantiamo ragionevoli. Domani andrò da quella donna, e mi sia lusinghiera o ritrosa, proverò gioie o dolori sinceri, profondi: ieri no, oggi sì, posdomani forse no. Di qual filo è dunque questo laccio che si stringe e si scioglie improvviso ed è infrangibile? Ma supponi ancora che ella mi ami, che Carlo ci sorprenda: ecco forse tre cadaveri, tre vittime per avere sorpreso una donna senza camicia: e tale catastrofe, che può accadere domani, andrò freddamente a sfidarla. Bada, Anselmo, che non scorgo in ciò un delitto, come forse tu moralista pretendi: noto solo la facilità di conseguenze sanguinose da un sorriso, e la vanità del nostro spirito di accettarle, conoscendole — mistero della passione, la quale generata da un nonnulla cresce subito immane, quasi stilla che il vento scuota dall'albero e toccando la terra si gonfii in torrente... In questo punto ricevo un biglietto di Carlo, che m'invita per domani: manca dunque ogni scusa, e Dio lo vuole! come strillavano, molti secoli fa, gl'ingenui delle crociate. Adulterio! scrivo questa armoniosa parola, che mi accarezza l'orecchio come una musica altra volta intensamente gustata. Se ti dicessi, Anselmo, che questa è per me la forma sublime dell'amore? Paradosso? No, tutto al più errore, perchè io credo a quello che dico. Amo l'adultera. Questa donna giovane e bella, che comprata dal marito innanzi al sindaco, freme schiava nella casa maritale; che educata unicamente al matrimonio colle lusinghe della virtù e il terrore di minacce umane e divine, concepisce di romperlo arrischiando tutto per un uomo, cui appena conosce e che andrà forse la sera del primo appuntamento a dirlo nel _club_ fra una questione di cavalli e una partita al faraone: che di lui solo innamorata, cura le proprie bellezze divorando spasimi indicibili quando il marito le manomette, che nelle convulsioni delle voluttà deve conservare tutta la lucidezza del pensiero, affinchè non le sfugga il nome adorato e non si rinnovi la tragedia di Parisina: questa donna che una sera apre tremando l'uscio dell'appartamento lasciandovi dietro il lume, scende le scale per le quali un vicino può incontrarla e perderla, traversa l'andito, arriva alla porta, tira il saliscendi, piglia un uomo per la mano... gliela bacia, lo tira, lo strascina su nell'anticamera, nella sala, nel gabinetto e anelante, spaurita, inebbriata cade sopra una poltrona... oh ti amo!... Ah! vi è qualche eroismo in questa scena. Ma se il marito, che ha promesso di ritornare a mezzanotte, si ravveda ed entri adesso... egli ha facoltà di ucciderla, la legge glielo consente, la società approva, Dumas stesso, il caro romanziere, gli grida: _tue-la_? Non importa. Ma i figli che resteranno senza madre, i genitori senza figlia, ella medesima senza l'avvenire vagheggiato nelle deliranti meditazioni — morta, cadavere, così bella, così felice? Non importa. Ma se il marito non l'ammazzerà condannandola al disonore, chiudendole tutte le porte delle amiche e dei saloni, ove sfolgorò tanto bella... poi l'amante l'abbandonerà per un'altra: più nulla, la miseria, l'infamia, l'isolamento? Non importa: ella ama. Questo amore è un'angoscia inesprimibile, perchè la sua coscienza educata al culto della legalità si dibatte contro la passione e si morde come un maniaco... Tutti i pericoli e i mali le passano e ripassano vertiginosamente nella idea: sa che, solo le tenebre la proteggono, ma che nelle tenebre errano spesso fiaccole, e basta un raggio per scoprirla all'insolenza spietata del mondo. — Mio Dio! che cosa ho mai fatto! Le viene alle labbra, ma l'amante appressa il volto, e invece di aprirle a balbettare la paurosa esclamazione essa le tende smaniosa respingendola nella strozza. Il bacio l'accende, il brivido di una carezza vagabonda la scuote... Dio! s'egli tornasse! E sia: ti amo: mio marito è un mostro: amo te solo, sarò tua, la tua adultera che non potrai neppure sposare volendo, che dandoti tutta sè stessa non potrà aggrappartisi agli abiti quando l'abbandonerai... Oh non pensiamoci: non è vero che mi ami? Vedi: io ti amo più della mia vita, de' miei bambini — ti chiedo solo di amarmi... Anselmo, che ti pare di questa donna? quale cortigiana, quale moglie, quale vergine può con la fulgida impudenza, col sereno trasporto, con la delicata ingenuità rapirci alla sua passione? Ti ripeto: amo l'adultera. Quando il piacere diviene intenso, il dolore vi si mesce; quando il dolore infierisce, il piacere gli passa vicino toccandogli il gomito come un amico obliato e lo conforta di un sorriso: egli è che la vita si compone di molte cose, e la felicità di molti elementi. Vivere è sentire: onde più si sente più si vive. Non ho quindi mai capito la beatitudine del paradiso cristiano, di essere là sopra una poltrona di nuvoli contemplando la faccia di Dio immota fra una orchestra di angeli sbuffanti nelle trombe, là sempre contento di guardare e di ascoltare senza l'ansia di slanciarsi ad un bacio, l'anelito della voluttà la vertigine del desiderio, il languore della stanchezza. Questa felicità di inerte e fredda contemplazione, frutto di una vacua teologia, mi pare l'ideale più opposto al vero umano, alla nostra vita di espansione continua; nè mi stupisce che la maggiorità dei cristiani ne sia così poco innamorata da godersi viziosamente la terra, arrischiando l'inferno — nè più mi soddisfa, malgrado la sua volgarità saturnale, il cielo di Maometto colle Peri alle porte e le Uris nelle sale, perchè questo è una festa da ballo e quello un concerto. No, la felicità non deriva unicamente nè dal bene o dal male; distinzioni vane se si pretendono assolute, nè dal bello nè dal brutto, nè dall'anima nè dal corpo: multiplo il mondo, multipla la vita, deve esser multipla la felicità: bisogna unire tutti i colori in un prisma, tutti i fiori in un mazzo, tutti i ritmi in una musica; ogni senso deve esserne saturo, la ragione invasa, la fantasia accesa: bisogna che in noi goda l'uomo e il fanciullo, l'animalità più bruta e lo spiritualismo più oltramondano: bisogna conservare il fremito della lotta quando la lotta è finita, che nell'armonia vi siano note scordate; nell'ebbrezza un po' di convulsione, nelle carezze un po' di solletico; bisogna che la vita senta la morte, come la primavera sente sotto i piedi gli ultimi brividi dell'inverno e sulla testa i primi baci dell'estate. Gli Egizii tenevano uno scheletro nelle sale del banchetto, ed avevano ragione. Il bene e il male, due forme intimamente inesplicabili dell'essere, hanno a concorrere nella felicità, o l'anima non è commossa che a metà e la pienezza manca alla sua vita. Al di sopra di Satana e di Dio che si disputano il suo cuore, l'uomo riassume le loro due nature: ritto sopra il suo scoglio intende lo sguardo alla immacolata serenità del cielo e l'orecchio al rumoreggiare maestosamente perverso del mare: il pensiero gli vola lieve per gli spazii tremoli di armonie e di pianeti, e si culla sulle onde del mare pallide di spume e di minacce: egli sente tutto, deve tutto sentire, ma perdendosi nel cielo o nel mare perde il suo trono sublime. Così è dell'amore. La Grecia, fanciulla d'ingenuo genio, lo dipinse bambino alato e cieco: io lo concepisco invece, e se ne avessi la forza vorrei dipingerlo, vestito a bruno come un Amleto: le calze fino a mezzo la coscia, i calzoncini a sbuffi, il giustacuore e la mantellina ricamata di perle nere, e una collana di voluttuosi coralli al collo; gli darei una persona alta e slanciata, un viso ovale, capelli lunghi, un profilo minaccioso, sulle labbra un sorriso lascivo e negli occhi una vampa fatale. L'amore deve aver provato tutte le gioie e tutti i dolori: il suo aspetto essere quello di un dio maledetto. Provasti mai la voluttà del male? Ma hai letto il Caino? Veduto piangerti sotto il petto una vergine sacrificandola? Non ti sovviene il grido della Sulamitide nel delirio della passione? oh! fossi tu mio fratello: ecco il letto dove fu corrotta tua madre! Il poeta di quel canto insuperabile doveva essere ben profondamente uomo, se coglieva la natura nel più intimo segreto. Il male, amico, ha pure la sua bellezza e il suo fascino: mortali se vuoi, ma inebrianti. Leonida alle Termopili sulla fronte del suo battaglione non ci commove più di Nerone sulla cima della sua torre, colla cetra in mano, illuminato dai riverberi di Roma incendiata: l'occhio della gazzella ammalia come quello del serpente, il sangue ubbriaca come il vino. Ricordi quell'aneddoto nel pomposo e vano quaresimale del Segneri, di un peccatore moribondo, che incalzato dal prete a rinunciare all'amante, rispondeva smaniando non posso, non posso, e moriva con questa parola sulle labbra? Io la comprendo questa voluttuosa agonia nel male: l'inferno è lì spalancato, immensa voragine di fuoco e di fiamme: vi cadrò se non mi pento, se non rinuncio al piacere della lascivia ora che il senso è impotente: ebbene, no! l'amo ancora questa donna che appena morto mi tradirà, se non mi ha già tradito; mi rivolgo ancora alla memoria dei suoi amplessi, e tu puoi ben coprirti la fronte, povero angelo custode; tu, Dio, corrugare i grigi sopraccigli; tu, Satana, illuminarti di ebbrezza feroce: piuttosto dannarmi che cedere: io muoio intrepido col sorriso dell'orgia sulle labbra e la sfida dell'empio negli occhi. — Male, sii tu mio unico bene, rugge il Satana di Milton, levando la fronte minacciosa alle porte chiuse del cielo. — Padre, perdona, perchè non sanno ciò che si facciano, geme Cristo sulla croce, ed entrambe queste esclamazioni sono vere. Ma ritorniamo all'adultera. Perchè entro a notte nella casa dell'amico per violargli la moglie che ama, la quale gli ha dato due figli e tre sarebbero troppi? Che cosa mi ha fatto quest'uomo perchè lo assassini nell'anima e nella discendenza? divise meco le sue prime gioie, i suoi primi dolori: mi giovò di consigli, mi confortò di sollecitudini... non importa: lo tratterò peggio del mio nemico, chiudendolo, se mi scopra, in questo dilemma, o suicidarsi o uccidere l'amico, la moglie, la madre de' suoi bambini. È un'infamia? Eppure tutti la commettono inebriandovisi, e io come gli altri — perchè? Domanda al pesco perchè il succo de' suoi frutti sia tanto delizioso e quello delle sue foglie tanto mortale: se ti risponde, faccio altrettanto. Solo posso dirti che l'amore dell'adultera è il più bello, perchè il più appassionato: l'ingiuria fatta all'amico vi rende più care le carezze, il peccato punzecchia il desiderio, il delitto profuma la voluttà; sentite che toccando quella mano accettate la vostra sentenza di morte, e il brivido della paura mescendosi a quello della concupiscenza, raddoppia la scossa nervosa. Per sedurre questa donna quanta fatica, quanti dolori, quanti pericoli! Ho lottato con me stesso, con lei, col marito: ho calpestato la confidenza, la gratitudine; legato dalle catene dei costumi e delle leggi, le ho spezzate lanciando a Dio e alla società il guanto del duello. Adesso striscio come il serpente, domani mi batterò come un leone; adesso la mia arma è il sorriso, quando vorrete le pistole... e a te, donna, depongo ai piedi le catene rotte, il cuore lacerato, la mente ribelle: Due Giuda, il nostro bacio è il prezzo del nostro tradimento, prezzo inestimabile: due maledetti ci stringiamo seno contro seno, e la folgore, che ci brontola sul capo, stringe più forte il nostro amplesso. Oh! coraggio, donna: bastiamo a noi stessi. Senti come è dolce l'olezzo di questo fiore sepolcrale? rifugiati pure nel mio cuore — ma credi che vi saresti penetrata così avanti, se il rimorso non ti incalzava? Ecco il linguaggio dell'adulterio, stupendo connubio della lirica colla drammatica. Mi ripeto ancora; amo l'adultera. Vedi, il matrimonio e la vecchiezza si rassomigliano spaventosamente. Sulla soglia di questa si fermano speranze e sogni, sulla soglia di quello si ferma l'amore come un ateo alla porta di una chiesa. Lì seduto pensa alla fanciulla rapitagli e si consuma nel rammarico. Come sei bello nel tuo dolore e nella tua fantasticaggine! O superbo mendico, ateo sublime, io ti saluto. E saluto te pure, Anselmo. 9 agosto. Mimy è lievemente ammalata. Ieri quando giunsi al suo casino il sole tramontava. Le finestre erano chiuse, sul prato nessuno. Mi fermai a guardare il sole e mi sovvennero le parole di Moor, commoventi di mesta grandezza: — Così cade un eroe! — Quando ero fanciullo il mio pensiero fu di nascere e di morire come il sole. Un pensiero di fanciullo! — Pensiero di re, Moor, e io l'ebbi teco. Ma pur, di coloro che splendettero nel meriggio, quanti ebbero un tramonto come il sole? Un imperatore romano, mediocre in tutto fuori che nell'orgoglio, si levò moribondo da letto: un re muore in piedi! Menzogna. La vecchiaia deturpa l'eroismo e la gloria: ci spegniamo nebbiosi invece di tramontare. Vivere e morire come il sole, ecco un destino! Prorompere splendido al mattino, abbagliare nel meriggio, e al vespero gettarsi sul capo un lembo della clamide e lento, lento, come il leone ripara all'antro, allontanarsi nell'infinito... Nell'andito incontrai Carlo, che mi domandò subito della marchesa. — Dove è Mimy? lo interruppi. — A letto, non si sente bene. — Infame! e non me lo hai detto subito? — Ma senti... Siccome avevo sentito abbastanza, corsi alla camera di lei e mi arrestai sulla soglia; non avevo incontrato nessun servo, dentro non udivo rumore. Un pensiero orgoglioso m'illuminò; che siasi ammalata per me! però ebbi il buon senso di non fermarmici su, e m'appressai piano piano alla porta: busso o non busso? non bussai. Stava appoggiata a una bica di cuscini, i capelli entro una cuffietta bianca, il capo sopra una spalla. Scambiammo poche parole. — Questi fiori sono appassiti! notai pigliando dal tavolo un mazzetto di amorini. I vostri fiori prediletti! li avete colti voi stessa? — No: mi furono regalati dalla marchesa. Com'era bellina in quel costume d'inferma! — È venuto il medico? — Sì. — Come vi ha trovata? — Debole, e mi ha ordinato un po' di moto. — Obbedirete? — Mi ci proverò. — Allora, se me lo permettete, domani vengo coi cavalli; li monteremo per una piccola passeggiata al passo. — Vi ringrazio. — Eppure la marchesa, se fosse qui, mi darebbe ragione! Del resto, se la mia offerta vi dispiace, sia come non fatta. — Adesso vi offendete... — Perchè? avrei torto! Che cosa sono per voi da farvi accettare i miei consigli? Siamo cugini, ma al mondo siamo tutti più o meno cugini e ci siamo, nullameno, stranieri. È entrato Carlo recando una lettera. — Leggi: è della marchesa. Ho riconosciuto il carattere. Indi con ansia mal dissimulata: non c'è niente per noi? — Leggete; e gli tendeva la carta. Erano poche parole: «Se domani sul vespro passassi dal vostro casino colla carrozza, potrei sperare che mi accompagnereste? Faremo qualche giro per la campagna; sono sicura che ci divertiremo: siate tanto amabile.» — Andrete colla marchesa? le ho chiesto con malumore. — Quando non vi dispiaccia. — E per me ci sarà un posto? dimandava Carlo. — Potrebbe darsi, ma il biglietto non ne parla; e un sorriso, che mi è parso di trionfo, le ha sfiorato le labbra. Povero Carlo! se non innamora la marchesa, sua moglie non è certo innamorata. Adesso che ti ho dipinta la scena ti manderei quasi la romanza, che ho scritta per Mimy appena ritornato e che le manderò dimani. È in versetti biblici, la forma di Michiewitz, il grande polacco, ma non mi piace, e ti risparmio. Non so che cosa mi pagassi in questo momento perchè la romanza fosse degna di Musset e per dirle: Mimy, ti getto un fiore immortale, dammi un bacio. Invece le regalerò un fiore di zucca. Un'ora sola, Anselmo, un'ora sola di genio e acconsento a gettarmi dalla finestra. Si è paragonata la vita a molte cose, a un grido, a un pellegrinaggio, a un'ombra, a una foglia, ma nessuna immagine è forse più giusta di quella di un naufragio. Non m'importa di morire, ma vorrei chiudere un foglio con pochi versi entro un'ampolla, e lanciarlo in mare prima di affogare: l'ampolla sarebbe raccolta da altre imbarcazioni e quando i vascelli non solcassero più l'oceano, vi errerebbe eternamente, conchiglia immortale di perla divina. Ad altri di me più forti la gloria affannosa dei grandi poemi, dei segreti carpiti alla natura, delle leggi adagiate nella società: mi basta un nonnulla, una novella, una romanza, un cartone; la dimensione non monta, purchè il genio l'abbia toccato... Ma ritorniamo a Mimy. Non l'ho vista mai più bella che a letto. Dumas ha profondamente ragione mostrandoci l'amore appoggiato come un angelo dietro il letto di una inferma. Nessun fascino insolente di meriggio regge al malinconico prestigio del vespero, e se la modestia o l'audacia possono talora rendere più acre lo stimolo della voluttà, l'impotenza che nasce dal dolore la rende sempre più intensa. Se Carlo non fosse entrato nella camera sarei rimasto fino a sera, fino a notte presso il letto a guardarla negli occhi aspettando di udirla gemere per mormorarle all'orecchio: Soffri, Mimy! Ella è malinconica: avremmo forse pianto insieme a qualche mesta parola inebbriandoci del nostro dolore come il poeta coll'entusiasmo, il trionfatore coll'orgoglio. Il corsetto da notte nella sua casta semplicità aveva maggiori seduzioni dell'abito più scollacciato: avrei preferito la religiosa trepidazione di girare per la camera in punta di piedi fremendo allo scricchiolio delle scarpe, o di rialzare una tenda perchè il lume crepuscolare si abbattesse sulla sua faccia altrettanto smorta... noi due soli, muti... al più ricco tumulto di una festa da ballo. Ridi, Anselmo? Hai ragione, perchè questi sentimenti li provo adesso nel mio gabinetto e non li ho provati nella sua camera. Forse che la farfalla dell'amore romperebbe solamente adesso il suo involucro e batterebbe l'ali nel raggio del sole? Ti rammenti la stupenda pagina di Herder sulla crisalide? Egli ne ha poche di uguali e con lui pochi scrittori di simili. Di Herder fu giudicato assai bene, è una poesia e non un poeta: e questa definizione dolorosa, che mi si addice ancora meglio che a lui mi dispera, giacchè la poesia senza essere poeta è come la bellezza senza il dono della simpatia, la superiorità senza la grandezza. _Les delicats sont malheureux_, non è vero, La Fontaine? La delicatezza non è il fondo della poesia, mentre il genio ne è la forza e lo splendore? 11 agosto. Ho ventotto anni. La gioventù mi abbandona senza nemmeno rivolgere il capo colla leggerezza di una donna: la veggo allontanarsi istupidito, contemplando la civetteria del suo passo e la vivacità de' suoi movimenti... giacchè al mio braccio camminava sempre mesta e per correre aveva d'uopo di ubbriacarsi. Ventotto anni, Anselmo! ormai la metà della vita, e come trascorsa! Se mi rivolgo, nessun segno attesta il mio passaggio sulla strada. Se guardo innanzi, essa si perde in una steppa muta e monotona come una strada ferrata, per la quale non passa viandante e non s'incontra orma che vi favelli; ho rimorso di aver vissuto. Al principio colsi alcuni fiori sugli orli dei fossi, ma il loro profumo non mi consolò la stanchezza del viaggio; qualche tempo le illusioni mi accompagnarono, precedendomi in aria come uno stormo di uccelli, ma il loro canto così gaio non mi commosse il cuore, anzi dimenticando l'invocazione di Valmichi nel Ramayana — o cacciatore, possa la tua anima non essere mai glorificata per tutte le vite avvenire, poichè colpisci l'uccello nel sacro momento dell'amore — mentre fra loro s'innamoravano, sparai a più riprese, esaltandomi ferocemente nel raccogliermi ai piedi i cadaveri insanguinati. Adesso i fiori sono scomparsi, cessato il canto, tutti gli uccelli morti, e la gioventù, che procedeva al mio braccio, mi abbandona con freddo sorriso. Mi lamento, mi lamenterò ancora, e se avrò torto, sarà un'altra ragione di lamentarmi. Sono fuori della vita, non ho famiglia, non gloria, non fede, non amore. Vero nomade attraverso i paesi senza affezionarmivi, mi accompagno e mi divido dagli uomini senza salutarli fratelli. Nato in Italia, non sono italiano nè di mente nè di cuore: cristiano, non appartengo ad alcuna religione e potrei assistere impassibile alla caduta della nuova monarchia savoiarda tanto contrastata per tanti secoli, come all'incendio di tutti gli altari di Cristo. A che giova la mia esistenza? Perchè andrò più oltre persuaso di non arrivare ad una meta? Queste domande non le movo per vezzo romantico, ma per un intimo incessante rodimento dell'anima. Oscillo nel vuoto. Qualunque cosa imprenda, sono sicuro che non approderà, perchè la mia vita non ha basi e sono inetto a gettarle. L'ozio mi è insopportabile, la fatica impossibile: non mi trovo attorno un piacere. Credi che si possa durare un pezzo a questo modo? So quello che mi risponderai: Rompi il cerchio incantato, metti a capo della tua strada una idea. — Troppo bene, amico! Dimentichi dunque che sono un artista impotente e che il dirmi: suscita in fondo alla tua via un fantasma, che ti attiri e ti guidi, gli è come dire ad un cieco: metti una lanterna per dove passerai, se non vuoi inciampare? A che debbo rattenermi? Il danaro non mi affascina e non ammetto altro mercato che il gioco: non sono ricco, cosicchè mangiando capitale e rendita, i miei due milioni non mi danno un lusso abbastanza poetico per affezionarmi alla vita. Non ho scampo, sono solo: il mio mondo interno è una prigione, immensa sì, ma una prigione; l'arte una smania di paralitico, gli intrighi della galanteria, le orgie dei sensi consolazioni di un'ora e nulla più. Che farò? Viaggiare? Anzitutto questo non può essere uno stato, poi conosco tutta l'Europa, sono sceso in Africa, salito a Gerusalemme, e poichè non scriverò un altro _Child Herold_, non voglio sopportare altrimenti tempeste in mare, alberghi in terra. Ammogliarmi tanto per cambiare? Rimedio peggiore del male — consigliare il matrimonio a un annoiato è come ordinare un bagno a uno che si anneghi: d'altronde il matrimonio è una brutta cornice pel quadro della donna. La politica? col mio cervello d'artista e col mio cuore di aristocratico una ridicolaggine e una impossibilità... Vedi, Anselmo, che il problema è forse più difficile di quanto sospettavi; dubito assai che col tuo ingegno mi trovi una soluzione. Senti. Ieri sera sedendo allo scrittoio mi venne aperto sovrappensieri un cassetto, ove fra altre carte erano rimescolati biglietti e lettere amorose; li radunai, e sebbene non li conti a migliaia, come il famoso maresciallo di Richelieu, ti so dire ch'erano parecchi — le donne scrivono molto, ma in compenso scrivono male. Cominciai scorrendone alcuni prima indifferente, poi interessandomi, seguitando senza ordine, facendo spesso succedere all'invito di un primo appuntamento una lettera di congedo illimitato. Non so quanto durassi così, infine mi accorsi di aver freddo. Non ero più io che leggeva, ma un altro, un altro Giorgio vecchio, coi capelli bianchi, cogli occhi indeboliti; quelle lettere della mia giovinezza mi destavano un senso orribile: mi pareva che fosser trascorsi secoli da quel tempo e che il mondo, nel quale avevo vissuto, si fosse disfatto... Ero solo, con quelle lettere, pochi avanzi del mio naufragio. Le loro calde espressioni mi riuscivano mezzo inesplicabili, le voluttà ricordate come una cosa di cui dura nella memoria una debole eco, spentone nell'anima il senso. Fra l'altre mi capitò alle mani una mia, ironica, briosa che finì di sconvolgermi. Io aveva scritto quella lettera? quando? Io avevo riso, avevo vissuto?... Ebbi una scossa, mi destai col sudore del raccapriccio. Questa fantasticheria o sogno mi ha seriamente afflitto — è la mia vita reale guardata a traverso un vetro nero; le tinte sono più fosche, ma anche senza vetro il paesaggio sarebbe tristo. E la solitudine, rimedio di antica riputazione, inasprisce i miei mali — _Seul a un sinonime: mort_. Sinonimo fiacco, indegno di Victor Hugo, perchè la solitudine non è già nel cimitero o nella Tebaide, sibbene in un deserto di uomini, quando nella folla che vi circonda non sorge grido che vi scuota, non spicca fisonomia che vi commuova; quando gli edifizii che vi rovinano intorno non hanno più forza di farvi rivolgere il capo, quando la morte che vi ammazza dappresso non vi dà nè piacere nè dolore; quando in questo oceano umano le onde si accavallano senza sollevarvi o si appianano senza rivelarvi nulla, quando niente e nessuno vi tocca e vi si associa. E allora che la ragione sia presa da questa vertigine del vuoto, afferratela e gettatela nel cuore: poi ritornate fra un'ora a vedere se è tuttavia ragionevole. Le passioni l'afferreranno come maniaci e: spiegaci, ruggiranno, il perchè della nostra condanna: i desiderii moribondi di fame le si strascineranno ai piedi e tirandola per la veste: spiegaci, spiegaci, singhiozzeranno, il mistero della nostra condanna; le speranze deliranti di febbre le si accosteranno livide all'orecchio e: spiegaci, sibilleranno, il perchè della nostra condanna: spiegaci, spiegaci, — e se la ragione impaurita si proverà a mormorare una spiegazione: menzogna! la interromperanno. Abbiamo fame, trova tu modo di saziarci: tu, superba, hai il mondo delle idee e vi ti perdi e vi ti divinizzi; noi del mondo terreno siamo chiuse in un ergastolo, vogliamo godere, aprici dunque le porte, tu che sei la regina. Che cosa volete che risponda la povera ragione? Impazzirà, se non vi affrettate a liberarla. Come vedi, Anselmo, la mia è già impazzita, e se nella tua bontà di amico ne dubitassi, ti mando questa lettera come prova. _Fare well._ _PS._ Questa sera vado da Mimy. La sua è una bellezza assai rara, segreta, come si esprime De Mère. 12 agosto. L'oceano è in tale tempesta che le sponde tremano di fatica e di spavento. Le onde ruggono, si frangono, si addossano, si attorniano, si sormontano, salgono, salgono ancora, urlando e nell'urlo del trionfo ripiombano nell'abisso. Ritta sul lido una moltitudine contempla il feroce spettacolo coll'occhio sbarrato e il pensiero fuggiasco: il cielo è nuvoloso, ma il vento ha lacerato le cortine delle nubi e fra esse traluce profondamente sereno l'azzurro dello spazio. Un pallone e una barca lo solcano: sopra loro nè oggetti nè limiti, la vasta monotonia dell'infinito: al di sotto il mare. Come apparirà la tempesta allo sguardo dell'ardito areonauta? L'oceano è immobile con appena alcune rughe: ecco i cavalloni. Così l'anima. Talora l'uragano la squassa scombuiandola dal fondo: dolori, speranze, immagini, memorie tutto trabalza e si sfracella, il petto si apre quasi all'urto dei marosi; ma sul volto non appare che una ruga, così che la gente passandovi vicino la distingue come l'areonauta e tira via. Non la notasse almeno e non vi gettasse l'insulto della sua curiosa parola! Che cosa ho quest'oggi?! Non mi capireste, se pure mi spiegassi! La ruga che mi solca la fronte vi sembra piccola, perchè non sapete che è l'opera di centinaia di dolori, come un sentiero è l'opera di centinaia di orme... Ieri sera mi avviavo al casino di Mimy in questa triste disposizione di spirito. La sera non era mai stata più insopportabilmente bella. Le stelle ridevano nel cielo come tante candele accese in un tempio per persuadere alla gente l'esistenza di un Dio: ridevano qua e là i lumi per le case: rideva il sereno, ridevano le foglie del granturco pei campi, rideva qualche lucciola per le siepi. Tutto mi rideva in faccia; a mezza strada s'aggiunse il vento. Io ruggiva di collera, e la natura mi sghignazzava intorno come un'ubbriaca: mi posi quasi a correre. A pochi passi dal cancello mi percosse una musica di ballo; le finestre della sala erano aperte e ne sgorgava un gran lume. Una festa di vicini! Carlo aveva avuto la generosità di non invitarmi e io ci venivo... Quando entrai nella sala una dozzina di coppie ballavano un valzer di Strauss; mi convenne fermarmi sulla porta. A te pure, Anselmo, saranno accadute disgrazie di simili feste e vedrai, senza che mi affanni a dipingertela, la goffaggine di quegli uomini e di quelle donne. Ballavano così vertiginosamente che mi pareva ballassero con loro anche i mobili. Era un'illusione, ma avrebbero potuto essere vero senza far perdere al ballo il suo carattere. Si divertivano. Ecco ciò che non perdono a quella gente, di essere così ignobilmente beati, mentre io sono stato tanto infelice. Ranocchie, che stimano un lago la loro pozzanghera e il loro gracidìo una musica. Non vidi nè Carlo, nè Mimy, nè la marchesa di Monero. La festa era dunque, per la loro assenza, una festa come nella classica notte di Valburga? La musica cessò, stavo per cacciarmi in un angolo, quando molte persone mi furono addosso. — Come, tanto tardi? Sempre annoiato? Così triste! — Ma che cosa le manca dunque, signor conte? mi chiedeva la moglie di un mercante, la quale mi fa la corte da un pezzo, innamorata del mio titolo e della mia superbia. — Molte cose, signora. — Me ne dica qualcuna, e mi si appoggiava così al braccio, che dovetti offrirglielo. Ci allontanammo dal gruppo. — Sentiamo: che cosa le manca? — Molte cose; per esempio, la potenza di desiderare: adesso non desidero più nulla, nemmeno di essere il vostro amante. — E se lo desiderassi io invece? — Sareste ancor più disgraziata di me. Un rumore nella sala, e forse anche, queste risposte, mi liberarono il braccio prigioniero: ma dopo le donne vennero gli uomini. È inconcepibile quanto duri nei borghesi il prestigio della nobiltà, la mia è tutt'altro che storica, e come cangiandosi in invidia diventi in essi disgustoso l'odio selvaggio che ci portano con tanta ragione i miserabili. Mi corteggiano e mi dispettano, pronti ad umiliarmi domani se fossi povero e ad insuperbire per un complimento che loro rivolga. Nella sala erano una trentina di persone, quasi tutti vicini, che dal più al meno amici di Carlo mi conoscevano abbastanza, perchè fossero inevitabili saluti e discorsi. Se fossero stati tanto villani da non avvertirmi, li avrei in compenso battezzati gentiluomini. — Ah ci divertiamo stasera! Balla anche lei? Balli anche tu? una bella società. Poh! che aria: ma perchè così accigliato? si direbbe quasi che posi; mi interpellava uno dei più intimi. — Vedrai che ci divertiremo: guarda che belle signore. — Belle? — Belle! ripetè un marito della luna di miele, guardando in un angolo la propria metà. — Dite piano, signore: se vi sentissero, sarebbero capaci di credervi e le avreste turpemente ingannate. — Sei intrattabile, mio piccolo Byron! — Che ne sai tu di Byron? — Quanto gli altri che lo hanno letto. — E ne sanno come del polo, cui non sono mai stati? — Vieni che ti presento a quelle signore, entrava in mezzo un prudente. Cercavo inutilmente Mimy. Mi sentivo soffocare. Quella plebe mi studiava; nulla le sfuggiva dalla mia cravatta a' miei guanti, e si ammiccavano impercettibilmente fra loro come persone che, avendo finalmente misurato un uomo superiore, lo hanno impicciolito alla loro statura. Mi sono arreso alla presentazione, ma passando innanzi a una finestra ho piantato l'amico. La collera mi si era cresciuta colla gaiezza di quella gente. — Mimy! ho chiamato, vedendola passare davanti alla tenda. Dove eravate, che non vi ho veduta entrando? — Fuori, questa festa mi soffoca. — Scommetto che è stata un'idea di Carlo di invitare tutta questa gente? — Sì. — Per avere la marchesa. Oh! non vengono che a lui certe idee. Però la marchesa non c'è. Come ha rifiutato l'invito? — Semplicissimamente: ha detto che non verrebbe. — E non l'avete pregata? — A questa festa? non ne ho avuto il coraggio. Così chiacchierando ci eravamo appoggiati alla finestra: nella sala incominciava un altro valzer. — Mi sembrate ammalato: ella mi ha detto considerandomi. — È vero: però non supponevo che ve ne accorgereste. Ero venuto qui per sollevarmi, e càpito fra una canaglia che tripudia. Voi almeno non vi divertite: datemi la mano. Invece gliela prendevo, ma era così inanime che mi è mancato la forza di stringerla. Siamo rimasti alcuni minuti senza parlarci, nè guardarci. Il vento susurrava fra gli alberi, io non pensavo più a nulla; non ero più in collera: la sua mano nella mia, mi perdevo in una calma stravagante. — Te ne vai? e le davo del tu la prima volta dopo quella scena sciagurata. Allora scendiamo in giardino. — In giardino?! — Avresti paura? — E la festa...? — La festa ti soffoca, lo hai pur detto; quindi prendendola risolutamente pel braccio la trascinavo: traversammo a stento le coppie vorticose: la scala era deserta e mezzo buia. Ci avviammo verso il giardino illuminato dalla luna. — Se qualcuno s'affacciasse alla finestra potrebbe vederci. Vuoi fumare? le dissi; ma cercando l'astuccio delle sigarette, trovai invece la romanza. — No. — Leggere? — Che cosa? Le presentai la romanza facendole lume con un zolfanello. — Ti piace? — No. — Allora conservala: ti servirà nei giorni di cattivo umore: è bene avere qualcuno da disprezzare quando non si è contenti di sè medesimi. Così entrammo nel giardino. — Ma di grazia, che cosa facciamo qui? — Passeggiamo. Non vorrai già farmi credere che ti divertissi più in sala. La romanza non ti piace? nemmeno a me. Ti ricordi la scena dopo il pranzo della marchesa? — Giorgio... — Eh via! lasciamela ricordare, perchè sono io che vi faccio la parte peggiore. Se credi che l'abbia dimenticata, t'inganni: quando dico a una donna: vi amo! non mento e voglio essere amato. — Proprio!... Mi guardò sbalordita. — Ti stupisce. Sentiamo: che cosa hai da opporre al mio amore? Ti sono antipatico? non è vero. Valgo meno di Carlo? non è vero. Non hai bisogno di amare? non è vero. La tua onestà? non è vero: tu non sei onesta. — Oh! m'insultate? — No, mia bella, non esageriamo; voi non siete onesta e, anzi tutto, l'onestà non è una virtù. O amate realmente un uomo e il preferirlo a tutti è appunto la ragione e la sostanza del vostro amore; o non l'amate, come nel vostro caso con Carlo, e perchè l'essergli materialmente fedele sarebbe una virtù? E badate che, non amandolo, dovete detestarlo, perchè non voglio insultarvi, supponendo che possiate essere indifferente fra le braccia di un uomo. Se non avete un ideale verso il quale slanciarvi siete solamente una femmina, se lo avete e lo abbandonate per una minaccia umana o divina siete come la cortigiana: questa cede all'avarizia, voi alla paura; la medesima prostituzione, la menzogna nella voluttà, il piacere senza la passione. Volete essere virtuosa? siate forte: passate per dove le altre indietreggiano, salite più alto coi piedi che esse non veggano cogli occhi, abbiate il coraggio della vostra passione, e pel primo vi dirò: Mimy, siete virtuosa; ma finchè verrete a dirmi: fin qui non ho accarezzato che mio marito, vi risponderò che la mia Diana non ha mai leccato altri che Turco: perchè dovrei stimarvi di più? Ma Carlo, voi non l'avete mai amato, voi povera vittima! Voi non credete come le donne volgari a questa onestà, e vi amo per questo. Il vostro spirito è già un ribelle, il vostro cuore ha la febbre della passione e della grandezza... — Che cosa ne sapete? — Lo so: vedi, la vita la rassomiglio ad un sentiero fra burroni e frane: i forti lo passano a piedi, i deboli si fanno legare sul mulo della legge e chiamano virtù la loro paura, delitto il nostro coraggio, e sia! A loro l'inerzia e la sicurtà, a noi l'ebbrezza della libertà e del pericolo. Mi amerai: adesso sorridi. — È il meno che posso fare. — Meno sciocco vuoi dire. — Giorgio!... — Non cercare d'impormi o di fuggire, perchè parola da gentiluomo t'insegno e nasce uno scandalo. Ascoltami: siamo troppo affini per non amarci: ti comprendo come forse appena ti comprendi tu stessa, so le immagini che ti visitano la notte, i sogni che ti seducono nel giorno; entro ne' castelli che ti fabbrichi e li giro tutti, sono simili ai miei: tu idolatri la bellezza, il lusso, l'epicureismo divino del poeta; io posso darti tutto ciò. Ti amerò col genio che Shakespeare ha messo nei suoi drammi: ti costringerò ad amarmi almeno quella mezz'ora che ti starò presso, e sarà il mio trionfo. Ella fece un moto colle spalle. — Accetti la sfida? — Insolente! — Ora rimontiamo in sala: badiamo a Carlo. Ritornammo verso la porta. Mimy era pensierosa. — Guardate: la nostra guerra è già cominciata, il prossimo ha aperto il fuoco. Quelle due signore, che ci osservano dalla finestra, dicono a quest'ora che siete la mia amante. — Ma non lo sono. — Domani lo ripeteranno e, siccome Carlo è un uomo di merito, saranno facilmente credute. La vostra onestà non vi garantirebbe dalle calunnie: avreste il danno senza il vantaggio. Entrammo nell'andito deserto. — Un momento. Fin qui siam stati amici, d'ora innanzi o amanti o nemici: o vi trasfonderò la mia passione, o soccomberò nello sforzo — il genio non riesce sempre, perchè l'amore sarebbe più fortunato? Salutiamoci dunque; datemi la vostra mano che la baci amicamente. Non rispose. Quelle due signore ci attendevano sulla porta, ci squadrarono come due carabinieri. Mimy trasalì alla loro occhiata e mi lasciò bruscamente. — Bella sera, mi si rivolse la signora Agnese, quella mercantessa mia innamorata: bella come lei! e collo sguardo m'indicava Mimy già lontana. — Non ci siete, di più ancora: come voi. — Mentitore! — Lo so, ma perchè dirmelo in faccia? Carlo sopraggiungendo imbronciato troncò il nostro alterco. Mi confessò subito la sua idea della festa con tanto cordoglio, che non ebbi il coraggio di riderne. La festa durò ancora un paio d'ore crescendo di rumore, e se fosse stato possibile, calando di spirito, giacchè venuti a noia i balli, s'impresero i così detti giuochi di società, una costumanza che i naturalisti hanno ingiustamente dimenticata come prova che l'uomo è una scimmia irragionevole. Tutti vi concorsero scambiando motti e complimenti. I ritratti delle quattro stagioni appesi alle pareti si guardavano annoiati. Io mi annoiavo più delle quattro stagioni. Finalmente i più vecchi cominciarono a reclamare per il loro sonno: si pestò l'ultima polka, si rise, si parlò più fragorosamente e tra un mormorio di baci e di saluti si dispose la partenza. — Esce con noi, signor conte? mi domandava la signora Agnese. — Aspetto ancora. — Colla signora Mimy. — Pur troppo no. — Innamorato! — Da che lo indovinate? — Da tutto e da nulla... ho dell'esperienza io. — Lo credo. Ella si morse le labbra. — Sono dunque molto vecchia? — Bisognerebbe essere vostro marito o il vostro amante per saperlo. — Il mio amante: ma questi sono insulti, signor conte. — Non ne avete? perdono: credevo che sarei stato più insolente non supponendovene. — Vuole proprio schiacciare una povera donna. Io le tesi la mano, che ella afferrò con impeto molto seduttore. Eravamo rimasti in sala io, Carlo e Mimy egualmente indispettiti della festa. Non riuscivamo a parlarci. — Ma allora me ne vado: davvero che questa conversazione è peggiore della festa. — E vattene... ma a proposito: t'aspetto domani. — A pranzo, Mimy? — A pranzo. Mentre cercavo il cappello, Carlo usciva dalla sala. — Mimy... — Non vi accostate o scappo. — T'amo. — Non è vero. — Adesso te lo provo. Feci un passo, ma ella, sospettando sul serio, mi sfuggì per la porta chiudendosela dietro con impeto; vi rimasi contro col naso come uno sciocco. Però uscendo dal casino mi venne l'idea di andarmene dietro pel bosco, come la prima volta della scoperta; speravo che Mimy fosse alla finestra. V'era infatti. Wal light through yonder window breaks? It is the east, and Iuliet is the sun. Arise, fair sun. Le dissi a mezza voce avanzandomi sotto la finestra. — Ah! rispose impaurita. — Vorrei finire come Romeo se tu potessi essere Giulietta per me. — È un complimento o un sarcasmo? — Una dichiarazione. Senti, e arrampicandomi sulla inferriata della sottoposta finestra, me le accostai. Vorrei essere il sogno che verrà nel tuo letto... non chiudere per Dio! non vorrei essere nè più indiscreto, nè più pesante del sogno: vorrei solo farti sospirare per avvolgermi nel tuo respiro come nella esalazione di un fiore. Tu non lo credi, ma io ti amo, Mimy. Ella mi guardava. — Ti amo. — Commedia! — Che! gridai allungandomi: ella volle ritirarsi, ma vedendo che mettevo un piede sulla cimasa della ferriata, così che sollevandomi non avevo altro appoggio che il muro con gran pericolo di cadere, si fermò. Ero in una difficile positura: salito il primo piede, non mi veniva fatto di levare il secondo, poco giovandomi le mani: un momento fui per cadere, ella soffocò un grido. — Smetti: ma cadrai!... — Se hai paura, gettami una treccia. Ero montato. — Scherzi sempre. — No, ti amo davvero! Dammi la mano. — Buona notte. — Dammi la mano! insistei. Ella si ritraeva, io restava ritto contro il muro, un braccio levato in un'attitudine ridicola. Una vampa di sdegno m'irruppe nel cuore. — Ah!... e finsi di pericolare. Ella si precipitò al davanzale protendendo ambe le braccia; ma in quel punto perdetti davvero l'equilibrio e mi convenne spiccare un salto per non tombolare. Caddi così sciaguratamente che Mimy scoppiò a ridere. M'allontanai che intendevo sempre il suo riso. 20 agosto. Ho incontrato la marchesa per la strada di Casalecchio, sola su Bothaina. — Avete un buonissimo cavallo, mi ha detto considerandolo con occhio intelligente. — Non quanto Bothaina. — Le donne sono sempre più belle degli uomini: è un compenso dato loro dalla natura. — Agli uomini o alle donne? — Alle donne: sono tanto infelici a cagione degli uomini, e sorrideva, che hanno ben d'uopo di potersi tratto tratto raccogliere nel mesto orgoglio della propria bellezza e sognare. — Ci siete sempre così avversa! Ma allora... — Allora!... prorompeva. — Gli uomini vi avranno fatto soffrire. — È vero. — Avete amato? mi è fuggito sventatamente. — Amato? Chi? E voi, signor conte? Non ci siamo risposto. La strada faceva un gomito e appariva il ponte di Casalecchio. Non so, Anselmo, se nei tuoi brevi soggiorni a Bologna ti sia mai spinto fino a Casalecchio per vederne la chiusa; se non lo hai fatto, vieni che ne vale la pena. È uno stupendo paesaggio, che mi ha fatto sospirare cento volte il pennello di Corot per renderne la bellezza latente e melanconica. Il fiume la crea mostrandovisi appena, perchè svolta immediatamente al di sopra della chiusa e al di sotto del ponte; a destra è fiancheggiato da una collina, che venuta lungo la strada di Bologna fa angolo sul ponte spingendosi verso l'Appennino lontano ed azzurrognolo: a sinistra da un'alta pianura, della quale non si veggono i confini — e il fiume sembra avere egli aperto quel vano per il quale passa luminosamente magnifico. La prima collina coperta di boschetti cedui è piuttosto bassa e povera, ma, prolungandosi, si congiunge ad altre più poetiche di forme e di vegetazione, ed altre ancora più remote si allineano tinte di un aereo violetto, ed altre simili a nebbie fiottano in fondo sfumando i colori e le angolosità di tutta la catena. Nessuna altra, delle tante che formano l'Appennino, o per l'armonia delle tinte o per la trasparenza dell'aria o per l'incanto della prospettiva, ha una più meravigliosa leggerezza, che fa pensare ai quadri più belli del Ghirlandaio, il primo che abbia sentito questa musica degli orizzonti e sia riuscito a scriverla sulla tela. E lo sguardo volgendosi alla pianura dilaga nella verde indifferenza dei campi o abbassandosi entra nel fiume, che si accosta per una lunga curva alla chiusa e la cala. Non aspettarti che te lo descriva: nessun pittore lo potrebbe, perchè il bianco, tutta la luce della pittura, non può rendere il vibrante raggiare dell'acqua al sole, e questa volta la tela dovrebbe essere unicamente di raggi e di baleni... E se fallirebbe il pennello, immagina come riuscirebbe la penna! Immagina che guardando dal ponte, il fiume immoto non ondula, non riverbera, ma toccando il ciglio del primo gradino il suo vasto lenzuolo scivola spiegazzandosi, mentre per tutta la linea di quello prorompono migliaia di pennacchi sfolgoranti; sono i raggi del sole che rimbalzano spezzati e figurano come le batterie di una immensa ribalta; e l'acqua cala unita, trasparente, ondulosa, talora svolgendosi come una tela, talora rincrespandosi come una vesta, talora rigandosi di solchi indecisi, torcendosi in pieghe che si aprono prima che strette. Cola sempre uguale, infinitamente varia nella monotonia: la luce è sotto essa, in essa, sovr'essa: la luce è acqua, l'acqua è luce: cola coperta d'infiniti sorrisi, armoniosa d'infiniti suoni, vaga d'infinite apparenze, finchè sull'ultimo gradino rimbalza, si addensa, si arrotola quasi, e svolgendosi in una frangia bruna di colore e bianca di spuma, casca, mormora, si calma, si perde nell'altra del letto, e quando passa sotto il ponte non somiglia più a sè stessa, nè a quella che argentea, diafana, radiante si stende sulla magica china. D'ambo i lati sorgono gruppi di case; a destra un mulino difeso da un muraglione, donde irrompono due grossi getti d'acqua, che rugge di dolore sfuggendo fra i congegni delle macine: sopra il mulino si uguaglia uno stretto piano, dal quale s'erge il poggio di una villa bella, forse la più bella di Bologna; e al di sopra ancora, come un elmo bizzarro, il bizzarro tempio di San Luca. Andavamo di così gran trotto, che Allah stentava a pareggiare Bothaina guidata con rara maestria. — Bella! esclamò la marchesa scorgendo la cascata, e spinse Bothaina oltre il fosso, la siepe, su di un praticello che finiva alla ripa del fiume. La seguii saltando così male, che n'ebbi quasi stracciato un calzone. — Che direste di un abito tagliato in quel drappo? mi si rivolse. — Assai comodo per chi volesse vestirsi rimanendo nudo. — L'ideale deve essere così. E mi guardò con evidente disprezzo. Mi levai rispettosamente il cappello: — Signora marchesa, siete la prima donna che incontro nella vita e m'inchino: non credevo che ne esistessero. — È un bel complimento, quand'anche non sincero, giacchè voi siete un uomo. — E quest'uomo potrebbe essere amato? — Giacchè lo dite per voi, sarò sincera: no. — Li sdegnate dunque tutti? — E se così fosse! Vi pare strano? Eppure non veggo perchè ameremmo gli uomini più brutti e infinitamente più brutali di noi. Che direste voi, artista se, entrando in un ospedale di vaiuolosi, vedeste una madonna del Coreggio spiccarsi dalla sua tela per pendersi al braccio di un ributtante convalescente e trascinarlo fuori della folla? So bene che l'antichità si è compiaciuta negli amori dei Satiri colle Ninfe, delle deformità colle bellezze; ma uomini composero tali quadri, e dubito se fossero più insolenti verso sè medesimi dipingendosi con tanta verità, o verso di noi accusandoci di un gusto così cattivo. Povero Carlo! — Perdono, ma parmi trattiate singolarmente l'antichità. Per Pane amato da Pitide o da Teo, vi sono Cefalo ed Aurora, Endimione e Diana, due fra i gruppi più belli dell'arte umana; e se avete veduto a Roma quello di Apollo e di Dafne del Bernini, forse avrete supposto, come io, che Dafne avesse altre ragioni per fuggire che la bellezza di Apollo. Lady Morgan, una donna che non rinnegherete, sosteneva che aveva torto. — Statue! e le statue valgono più degli uomini e meno delle donne. Non ho mai incontrati uomini belli come il Meleagro, ma ho veduto molte donne più belle della Venere, sebbene diversamente. Due uomini, Alessi e Virgilio, Antinoo e Adriano, Stesileo e Temistocle sono orribili: componete le tre Grazie come meglio vi piace e saranno sempre divine. Non vi pare che l'ode di Saffo a Dorica valga tutti i versi maschili da quelli di Meleagro a quelli di Orazio. Che cosa ti sembra, Anselmo, di una donna che arrischia tale conversazione? Sono rimasto interdetto. Pronunciando queste ultime parole il suo occhio era di una serenità quasi insultante, mentre le sue labbra contratte dolorosamente parevano soffrire ancora di quanto avevano detto. Quale è dunque l'ideale di quest'anima forte? Forse profittando del mio silenzio la marchesa rivolse la briglia e saltò sulla strada. — Pensate alle mie parole? mi chiese dopo alcuni passi. — Ebbene, sì; non posso comprendere... — L'audacia della mia erudizione? — No, ma la ragione del vostro odio. Ho inteso molte donne sparlare di noi, ma nessuna colla vostra potenza, nè dal vostro punto di vista. Avete sofferto più di loro, diversamente da loro? Quale è dunque il vostro ideale? Accettate l'Apollo, se rifiutate lo scultore? — Come siete aggressivo, signor conte! dovrò farvi un discorso per rispondere a tutto; e per cominciare non ho detto di odiare gli uomini, ma che ci sono inferiori nella bellezza e nel sentimento. Che cosa è l'amore per voialtri? un episodio, e per noi tutto un poema. A quindici anni la desiderate questa donna, a venti l'amate (sono generosa, dico amate), a trenta non la ricordate più, mentre ella non ha che una risorsa, l'amore; una occupazione, l'amore; una passione, l'amore. Debole e delicata, rimane sola a divorare il proprio dolore, uccidendo gli stessi sogni che la fanno vivere, guardandosi tristamente invecchiare e morire. Voialtri, che passate la vita negli affari, non potete rispondere a un amore di donna, che le assorbe tutta la vita e in continuo sviluppo si è perfezionato attraverso i secoli come il vostro ingegno; siete indegni di godere le bellezze che non gustate; siete i brutti della voluttà e noi ne siamo le intelligenze. E se una donna osasse sentire in sè stessa tutto il dolore delle martiri, che il vostro amore ha fatto solamente nei tempi della nostra civiltà e che voi non sapreste neppure calcolare; se rifiutasse di amare gli uomini, credete che sarebbe pazza od ingiusta? — No, ma a questa donna superiore dimanderei: chi amerete? Gli uomini sono incapaci e indegni, vi rivolgereste mai a Dio? — Dio! non è che l'ombra dell'uomo, più lunga e più deforme? — Dunque! rompete l'Apollo, ma Venere rimane spaiata. — Può darsi. — Dunque? — Conte, siete molto curioso. Andiamo dalla signora Mimy a chiederle la mia risposta. — Andiamo. Abbiamo slanciati i cavalli. La polvere ci avvolgeva in una nuvola, mentre correvamo curvi sulla sella cogli occhi socchiusi e la bocca fremente, quasi invisibili sulla strada e quasi senza vederla. In quella polvere mi pareva di sentire come un profumo della sua persona: ero commosso. Dopo venti minuti di quella furia infilavamo il cancello della villa: Mimy nel prato si cullava sopra una poltrona americana; si alzò vivamente. La marchesa arrestò di botto la cavalla e saltò a terra, mentre io stentavo frenare Allah tutto bianco di spuma. — Scendi dunque, mi gridava Carlo dalla finestra malignamente. La marchesa aveva diggià infilato il braccio di Mimy. — Chi è più bello, io o il signor conte? — Puoi permettere che si discuta? interloquì Carlo sopraggiungendo. — Non domando un complimento e quindi non interrogo un uomo. Così, mia bella, avete riflettuto? — Non ce n'è bisogno, parmi. — Eccovi la mia risposta. Decisamente ero battuto: ella mi ha gettato un sorriso come un'elemosina. — Questa volta è toccato a Venere il fare da Paride e Paride ha perduto. — Vi risponderò come Antonio ad Augusto: è una sconfitta che non umilia. Carlo e Mimy ci guardavano interrogando. Ahimè! la marchesa ha ragione: è più bella di me, e l'amore è la musica della bellezza! 22 agosto 1871. Ho scritto a Mimy una lunga lettera; che cosa ne risulterà? Ero così commosso scrivendola che ella sarà più fredda del marmo e più imbecille di cinquanta borghesi moltiplicate l'una per l'altra, non commovendosi nel leggerla. Sono umile e delicato: però la voluttà freme sotto quelle frasi modeste, e sollevandone talora un lembo sorride e scompare. 2 settembre. È troppo: le permettevo di non rispondere, di non capire magari la mia lettera, ma partire senza avvisarmi, come se fossi un estraneo, è una brutalità. E Carlo, che mi deve tanti consigli sul suo amore, si porta via la moglie, quasi che io non le facessi la corte! Cosa faranno a Bologna? È partita per evitarmi o per pungermi? Per provarmi che mi disprezza, che non vuole più oltre sopportarmi? Comunque sia, badi questa donna che osa troppo se pretende davvero di lottare con me. Far soffrire è forse maggiore voluttà che far godere: badi questa donna, che in ogni poeta vi è una tigre, e guai se si desta... _PS._ Povero Allah! ecco ciò che si guadagna ad amarmi... Sono caduto a cento passi dal mio casino correndo sfrenatamente: avrei dovuto sfracellarmi, e invece solo Allah si è rotto una gamba. L'ho aiutato ad alzarsi... povero Allah: mi è venuto da piangere quando guardandomi col suo grande occhio ha capito il mio dolore e mi ha perdonato... Come avrebbe sorriso la marchesa! L'aveva incontrata forse dieci minuti prima, che correva verso Bologna. — Dove correte con tanto impeto? mi ha domandato trattenendo la cavalla. — Non lo so, e voi, marchesa? — Torno a Bologna. — Anche voi! Ritorno da villa Contarina: sono partiti tutti per Bologna; andate a raggiungerli? — Non mi prestereste la vostra intenzione? — Io! se galoppo dal lato opposto. — Volete scortarmi? — Siete troppo bella: mi esporrei a troppi pericoli. Mi sentivo addosso una smania feroce. Spronavo me stesso e il cavallo divorando la strada e la bizza. Già prima aveva interrotto questa lettera in un eccesso di furore per sellare da me stesso Allah. Bisognava che incontrassi la marchesa per diventare pazzo. Carlo ha ragione benchè avvocato: quella donna è un enigma, non arrossisce mai; il suo sogghigno fa sull'animo l'effetto di uno stridore di lima sugli orecchi. I suoi occhi hanno una luce fredda come il pallore del suo volto, sul quale si frangono osservazioni e desiderî. Quando penso che Carlo vuol sedurla, mi sembra di vedere un bull-dog affrontare una pantera. Sento nitrire Allah. Il mio amico morrà! Ancora un filo che si rompe. 8 settembre. Avevo scritto ad Agnese — ti ho raccontato come sono stato il suo amante? — di portarmi la sua persona, e mi ha mandato invece una lettera di uno stile anche peggiore. Immaginati, che si offende del mio capriccio, perchè s'invitano così le cortigiane e non le signore. Non comprendo la differenza: per me la virtù sta nella bellezza, e una cortigiana può essere bella di corpo e di anima quanto una gran signora. Del resto, se la voluttà è un vino singolare che invecchiando peggiora, per la forma del vaso Agnese rassomiglia fino all'equivoco ad una antica boraccia di Faenza e Mimy ad un giglio. Bere in un fiore, ecco la psicologia e la storia dell'amore! Voler bere in un fiore perchè fatto a calice e tutto umido di rugiada, quando la sete della felicità ci tormenta, bella e dolorosa follia! Certo le labbra del calice sorridono e quelle gocce, forse lagrime cadute dagli occhi d'oro delle stelle, parlano una infinità di cose nel loro linguaggio di iridi, ma la sete non può spegnersi con così poco. Ad un'altra coppa ci bisognerebbe sospenderci; all'anfora, dalla quale trabocca eternamente l'onda della vita, e sulla quale Dio riposa il gomito dal giorno della creazione! 8 settembre. Non è tornata. Se non fosse un errore di strategia, anderei a Bologna. Forse mi aspetta laggiù e ridendo del mio dispetto e ascoltando anticipatamente il canzoniere de' miei lamenti: si sarà ingannata: sto in campagna, e quando ritornerà, sarò freddo come ne' miei giorni migliori. Non conosci la donna, o tu che stimi Vincerne il cuore coi sospir, col pianto. Canta Aroldo il selvaggio e profondo libertino. Non piangete mai davanti ad una donna, se non volete che si faccia una collana delle vostre lagrime, e del vostro dolore un cappellino alla propria vanità. Che cosa farà a Bologna? Non vi ha amanti; Mimy è una vergine, che ha forse sognato quanto Messalina ha compito, ma serbandosi vergine. Quali chimere sognano dietro quella sua fronte unita ed opaca? Quali desideri hanno fatto il nido in quella testolina e colle ali sfolgoranti ne sollevano a quando a quando i capelli d'oro? Non lo so: non s'indovina il suono per vedere l'istrumento. Ho bisogno di tutta quella donna, del suo corpo e della sua anima: il suo corpo è uno splendido palazzo, ma la sua anima ne è la fata che deve offrirmi, per me solo, un festino degno di Balthasar: voglio un giorno e una notte con lei come il sole e la luna non ne hanno ancora illuminato. Intanto il palazzo è chiuso e la fata invisibile... Senti: Mimy è pazza del suo canerino: se lo imitassi nella mia corte, poichè la maschera dell'aquila sembra mediocremente gustata? Non saranno quindi che gorgheggi, quintessenze di pensierini, seduzioni delicate come le carezze del sole invernale all'alicanto; la mia passione dovrà svolazzarle intorno per comunicarle col tremito delle ali la sua atroce e dolorosa trepidazione, lambirle tutti i sensi ad ogni vampa di calore, tutti i pensieri ad ogni sussulto di poesia, tutto il cuore ad ogni ribrezzo di solitudine. — Che ne dici? mi faccio onesto. _PS._ Ti mando questo pensiero. «Baciare una mano è caro, una fronte è puro, una idea è sublime ed è bacio di uomo; baciare una bocca è voluttuoso, ma è bacio d'animale.» Che te ne pare per un principiante di onestà? Se non mi rispondi subito, dichiaro che di onestà non sei nemmeno principiante. 13 settembre. Esco in questo punto da Mimy, tornata sola. Carlo è rimasto a Bologna colla marchesa. — Non siete gelosa? le ho chiesto. — Perchè? — Badate: la bruttezza inspira amori più della bellezza: i romanzi di Hugo sono lì per provarlo. La marchesa, che è donna superiore, non s'innamorerà forse di Carlo, ma chi vi garantisce che non lo prenda come una rarità per compiere la collezione dei proprii amanti? — Che cosa ne sapete, ribatteva con calore di amica, se la marchesa abbia avuto degli amanti? Tutti eguali voialtri: perchè una povera donna in un momento di debolezza vi avrà invocato e ne sarà stata pagata come voi soli sapete pagare, tutte le donne hanno una collezione di amanti... Parola di spirito e sopratutto generosa! — Siete veramente bella quando vi stizzite. — Andate là che i vostri complimenti non m'illudono. — Chi tenta d'illudervi? però mi avete compreso a rovescio. Non sono di coloro che negano ad una donna il diritto di avere un amante, mentre poi vorrebbero diventarlo: ammetto anzi che possa ingannarsi più volte nella scelta: che ami non solo il bello ma il brutto, il grande ma l'ignobile, perchè entro un boccale di maiolica vi può essere un vino migliore che in una bottiglia di cristallo. Non disprezzo se non due sorta di donne: quelle che non sentono amore, o sentendolo non ne hanno il coraggio. — Disprezzate le martiri?! — V'ingannate ancora, Mimy: non è una martire colei che soffoca il proprio amore per non soffrirne i pericoli, piucchè non sia una buona madre colei che abbandona il bambino per nascondere la propria maternità. Quando si ama si osa. Che cosa importano le calunnie e le minacce? Lasciatela imperversare la tempesta, lasciate che il fulmine voli attorno al vostro palazzo come il leone di cui parla San Pietro; l'anima assopita nel proprio gabinetto di madreperla sopra una amaca d'argento non sentirà quei ruggiti, li sentisse tutto il mondo. Mi capite, Mimy? Sapete un nome per la donna che rinnega il proprio amore, e mentre il cuore le si allarga generosamente nel petto chiama la paura a soffocarla colle sue mani di spettro, o mentre l'anima apre le ali chiama ancora la paura a mozzicargliele coi suoi denti corrosi di scheletro? Se lo sapete ditemelo, perchè deve essere un nome tremendo. Così parlando me le era appressato e le avevo preso un capo della sciarpa: ad un suo gesto ne sciolsi il nodo. — Ve la pigliate col mio nastro adesso? Mi alzai con violenza e apersi la finestra: non una stella o una nuvola; un fosco color di piombo, un cielo tetro come la mia anima. — Perchè non mi avete risposto? Non mi dite che a certe lettere non si risponde: è una frase vecchia ed imbecille: quando un uomo vi offre la propria vita bisogna accettare o rifiutare: il silenzio non sarebbe che stupida superbia o brutale insensibilità, scegliete. — Non scelgo. — Dunque tutt'e due. — Insolente! e mi guardò con aria di sfida. Mi esaltai. — Mimy! esclamai afferrandola per un braccio. — Minacciate... — Sì. — Chiamo Giulietta. — È inutile: badate, Mimy: abusate singolarmente della vostra posizione di donna: badate, la vittima non è sempre paziente nè ben legata, e anche il carnefice può passare un tristo quarto d'ora. Oh! non sorridete... il sorriso è uno sprone di cui non ho bisogno per far perdere le staffe alla vostra virtù. Volete la guerra: tanto meglio... Quando ritorna Carlo? — Sarebbe il giorno della battaglia? — Sarò un romano antico: ebbene, sì. — Sabato. — A sabato. — E fino allora tregua.... — Delle visite volete dire. Non v'importunerò prima di sabato, ma sabato mi riceverete alla presenza di vostro marito: sono gentiluomo, non farò scene. — Addio, Mimy: le stesi la mano, ma ella, mettendovi la sua, mi mise pure negli occhi uno sguardo melanconico e meravigliato: gliela strinsi e uscii precipitosamente. Ti ho scritto una lettera o una scena? 15 settembre. Indovina come mi sono distratto. Due anni fa ti mostrai Namouna, la mia mendicante del Cairo — non ti ho ancora scritto, che si è innamorata di me e che non le bado? L'altra notte sono andato nella sua camera: dormiva colla testa penzoloni dai cuscini e col gattino favorito sul tappeto presso una sua lunga treccia mezzo disciolta. Il lume da notte rischiarava misteriosamente la camera. La ho destata. — Vieni con me. — Debbo vestirmi? — No: mettiti questo scialle invece della camicia. Poi sono tornato nel gabinetto azzurro, le ho fatto accendere tutte le candele e l'ho mandata per una bottiglia di Falerno. L'attendevo sdraiato sul divano in una posa eccessivamente sultanica. Ella rientrava poco dopo colla bottiglia stappata e un bicchiere, seminuda entro quello scialle nero, orlato di tenui ricami rossi... — Beviti quella bottiglia; ma siediti prima, qui. — Tutta? — Tutta. — Mi ubbriacherò: e si versava subito un bicchiere bevendolo d'un fiato. — Brava! un bacio per bicchiere. Namouna, mi vuoi bene? Invece di rispondere, ella si alzò. — Dove vai adesso? — A prendere uno di quei bicchieri. — Da rosolio! — Ci sta anche il vino. Scelse il calice più piccino e tornò ad accovacciarmisi ai piedi. Lo scialle vestivala tutta. Io la guardava pensando a una Orientale di Hugo, mentre ella non osava versarsi il Falerno, cogli occhi intenti nel mio volto come Turco il mio mastino. A poco a poco l'immobilità del suo sguardo mi attrasse, e considerai quella bella testa di tipo armeno abbruciata dal sole africano lievemente colorata da un inconscio desiderio, con ammirazione d'artista. Namouna è bella, ancora vergine nel corpo e nell'anima come nessuna ragazza della nostra vecchia Europa, poichè la raccolsi moribonda per una via del Cairo, che non conosceva nè Dio, nè vizi, nè virtù, e educandola non le ho insegnato il senso di queste parole. Veramente io non lo so, nè tu, molto maggiore filosofo, sapresti forse rispondere quando ella te lo chiedesse. Namouna ha quindici anni, una soavità di forme, che si fa ogni giorno più splendida: ma nella fisonomia non ha espressione di intelligenza; sarebbe una bestia sublime se non fosse una donna. Giocarellando colla sua treccia, mi sono accorto che l'acconciatura di quello scialle era molto graziosa, e le ho comandato di spogliarmi: a mano a mano che perdevo gli abiti, Namouna tremava, curva su di me quasi a sfiorarmi il petto col petto; anzi nel liberarmi il bottone della camicia perdette così l'equilibrio che mi appoggiò una mano sulla bocca per non cadere — avevamo uno scialle in due. — Dammelo: e tu infilati la mia vesta. Ella se la gettò invece sulle spalle legandosi con civetteria i cordoni ai fianchi. La pipa nel suo grembo, la testa appoggiata ad un cuscino io fumavo turcamente. — Bevi dunque, esclamai, e getta via la bottiglia, come dovrei fare io colla mia vita ancora più vuota. Mi prese in parola e vuotandone il resto di un fiato la scagliò così energicamente, che le sue gambe ne seguirono quasi l'impeto: e mi cascò sul petto. Cominciava ad essere ubbriaca. Le soffiai una boccata di fumo nei capelli. — M'esce il fumo dalla testa. — Che cosa ci resta allora? — Il fuoco. — Namouna, mi vuoi bene? — Io adoro... e a me chi mi vuol bene? Al Cairo morivo di fame e di caldo... qui è lo stesso. — Adorami dunque; vediamo che cosa sai fare. Mi fissò un momento colla faccia attonita, mise un lampo dagli occhi e si alzò barcollando. La vesta dalle spalle rovesciandosele capricciosamente sui fianchi, costretta dai cordoni finse il più bizzarro costume. Così andò in giro a tutte le poltrone, e pigliandone i cuscini me li adattava sotto il dosso in una enorme bica senza che lavorandomi intorno si accorgesse di essere seminuda; due volte la sua treccia mi sferzò il volto senza che pensassi ad afferrarla: poi ella uscì e tornò recando alcuni vasi cinesi dalla sua camera, che dispose intorno al divano, quasi intorno ad un altare o ad una aiuola della quale io fossi il fiore principale, e quando ebbe composta la sua scena, guardandola con soddisfazione d'infantile vanità, uscì ancora e rientrò con una ghirlanda di rose così bene imitate, che posandomela sul capo gliela strappai per odorarle. — Fiori di seta, affetti di donna! Ci guardammo. Ella era ubbriaca: io dubitavo di esserlo. Quella vergine mascherata da baccante e quella passione tuttavia bambinesca nella violenza mi facevano sullo spirito l'effetto della spuma dello sciampagna sul palato, mentre l'odore delle candele e dei vasi mi avvolgeva e Namouna si disponeva ad adorarmi come un Dio. Infatti mi accomodò la ghirlanda sulla testa, distese una piega dello scialle e s'inginocchiò. Non fumavo più: la pipa si era spenta quasi per non tradire la mia parte di divinità. Tacevo; ella parlava in silenzio cogli occhi supplicandomi senza sapere forse di che cosa: le sue pupille sorridevano languenti ed ingenue, mentre la sua bocca tremante in un ansia di confetto e insieme di bacio non poteva più muoversi. Il suo linguaggio si accentuava in un palpito, si smorzava in un sospiro, svaniva in un pallore: aveva tutta l'eloquenza delle parole e il fascino del silenzio. Come lo comprendevo!... Al di sopra della giustizia vi è l'equità, al di sopra della forza la bellezza, al di sopra della bellezza la voluttà, al di sopra della voluttà la gloria, al di sopra della gloria l'amore, al di sopra dell'amare l'essere amato: lasciarsi amare, ecco il divino dei piaceri, che i grandi bugiardi inventori dei paradisi hanno scordato. Mi lasciavo adorare: l'orgoglio, come una serpe ai primi raggi del sole, mi cresceva dentro al petto per cento lubriche spire: un calore mi saliva per tutte le vene, mi sentivo la corona sul capo, mi vedevo una donna ai piedi; non era il mio sogno? Se le foglie delle rose si fossero convertite in foglie di alloro, se Namouna si fosse mutata in una regina, quel gabinetto moderno in una sala antica, quel divano di palissandro in un divano di corallo, quello scialle di Milano in una clamide greca, il mio corpo secco e peloso in quello bianco e levigato di una statua... il sogno si compiva per sempre! Nullameno, una donna mi adorava ginocchioni, e potevo così sfogare su lei il senso doloroso di questa manchevolezza. Ad un tratto questo senso mi si acuì, una rigidezza indefinibile mi stirò le membra e fissai la fanciulla con uno sguardo così duro che non lo sostenne: si velò gli occhi colle palpebre, e lasciandosi andare come una Maddalena sulla gamba che mi penzolava dal divano, se la strinse convulsivamente contro la fronte infiammata. A proposito, il gabinetto non era eccessivamente caldo. Avrei voluto calpestarla, ma non osai chiederglielo: posare il piede sulla bocca fremente di una vergine, ecco quello che tu filosofo non potrai mai capire, nè io più disgraziato ottenere! Poi sollevò il capo e sospendendosi colle treccie la mia gamba al collo, me la mangiava dai baci. — Namouna, qui. Se ti amassi, che cosa mi daresti? — Sono povera io. — Sei donna... Vuoi amarmi, povera ubbriaca, vuoi? — Sì. — Da quando mi ami? — Sempre. — Molto? — Così! e apriva le braccia. — Allora alzati e vattene. Mi guardò trasognata. — Debbo ripeterlo? La poveretta si alzò veramente ubbriaca barcollando. La lunga vesta le strisciava dietro sul tappeto sotto la magnifica nudità del suo torso. Era affranta: la grazia del suo passo scomposto mi rendeva più acre il piacere della ripulsa e la lascivia degli sguardi coi quali lambivo la sua nudità verginale. Alla porta ella rivolse la testa con atto disperato e scoppiò in singhiozzi. — Namouna, prima di andartene spegni le candele e porta via i fiori. Era l'ultima sferzata, non la sostenne. Domani dovrò ricordarmi di comperarle un abito per questa sua prima disobbedienza. Forse nel domare la carne vi è più epicureismo che mortificazione, giacchè la violenza nella castità genera quasi sempre un misticismo più voluttuoso di tutti i libertinaggi. Le ballerine di Sibari inaffiavano le rose dei loro vasi col Falerno; le monache inaffiano quelle della loro anima colle lagrime, e le ottengono di un odore più acuto e delicato. — Se le pareti delle celle avessero ritenute le parole sfuggite al petto dei santi nelle loro estasi, quanti inni leggeremmo adesso più belli dei più belli di Hugo, e come dovremmo impallidire di vergogna, noi che ci vantiamo di saper vivere davanti all'orgie sentimentali dei grandi, che la Chiesa ha giustamente alzati sugli altari! Da Casalecchio. Domani è sabato. Si dice che Alessandro dormisse alla vigilia di Arbella, Condè a quella di Rocroy, ed è caro crederlo per la grandezza del carattere umano: però ne dubito. Io non dormirò questa notte. — Addio, Anselmo: ci parleremo dopo Filippi, e possa tu ripetere nella tua malinconia di onesto uomo: virtù, non sei che un nome vano! Sulla porta di un cimitero di giustiziati sta questa iscrizione: _Deus vitam, lex necem, pietas sepulcrum._ Sulla porta dell'anima di Mimy voglio scrivere: Da Dio l'essere, dalla legge il sepolcro, dall'amore la vita. 20 settembre. «Ci parleremo dopo Filippi» ti avevo scritto: adesso vuoi una lettera o una scena? Ti scriverò da amante, da artista o da uomo di spirito, poichè fino ad un certo punto posso pretendere a tutti questi nomi? È la prima volta che scrivendoti mi trema la mano. Perchè? Pur troppo abbiamo in noi sentimenti che non ci sappiamo spiegare come quelle maschere che in un ballo scompaiono tra la folla dopo susurratoci un incomprensibile discorso: invano vorremmo indovinare chi sotto di esse si celi: ci sono note ed ignote; epperò fuggenti non possiamo seguirle, nè perdute ritrovarle. Si era vissuto trent'anni e questi sentimenti non avevano traversato la nostra coscienza, si vivrà altri trent'anni e non la traverseranno forse più... Incomprensibili ore di vita, che il tempo sembra aver rubato ad un'altra e che passano nella nostra, come un uccello dell'equatore per una contrada nebbiosa d'Inghilterra: inestimabili diamanti travolti nei ciottoli di un ruscello montanaro! Nello _Ecclesiaste_ è scritto che ogni cosa ha la sua ora, la nascita e la morte, la gioia ed il dolore; ma il grande di quei proverbi immortali saprebbe dirmi: che cosa occupi questa mia ora? V'è l'ora del dubbio anelante, della lotta convulsa, della trepida vittoria, del languore crepuscolare — poi il languore si dissipa... oh ditemi dunque il nome di questa ultima ora! Ma è ora che ti conti sul serio qualcosa. Vieni, Anselmo, ritorniamo pei sentieri di questa notte. Veramente ne sono uscito solo da troppo poco, perchè ripassarvi in due cercando dove mi arrestai fremendo ad ascoltare il silenzio, o bevvi tra l'ombra un raggio di luna, sia dolce della malinconia religiosa del passato; ma ho premesso di condurti meco e dovesse la tua onesta compagnia profanare quei nascosti sentieri, vieni, li rifaremo. Ti dirò tutto, ma se nel mio racconto ti appaiano vani o contraddizioni, tu filosofo non te ne offendere: sarà forse una circostanza che il cuore commosso tenta nascondere allo sguardo freddo della ragione; una immagine, che arrivata questa notte dalle regioni della poesia si è gettata il mantello sul capo e si è stancamente assopita; sarà un sentimento, che nel delirio della voluttà perdette la parola, o un pensiero che ricredutosi nega di mostrarsi e si appiatta dietro i neonati gelsomini... Non potrò, non vorrò forse dirlo, e tu credine ciò che meglio ti piace, ma non ti lagnare. Vedesti mai le capre inerpicarsi pei greppi a divorare le buccie degli sterpi incarogniti dal vento? Notasti con quanta destrezza profittano delle asperità del terreno montando e arrestandosi indifferenti ed insieme convulse? Così adesso le mie idee si sospendono alle roccie della memoria e del linguaggio per brucare una parola: come le capre sono bianche e nere, giovani e vecchie; alcune belano un saluto al mattino, altre paiono non vedere, non sentire la festa del giorno. A questo punto un magnifico insetto, pallidamente verde, mi si posa sulla carta: lo conosco di vista; è uno di quei grandi signori che hanno per palazzo una rosa. La sua persona è tanto gracile che sembra camminare con fatica sulla carta levigata; eppure le mie labbra, non ha guari, erravano su carni più morbide delle rose e egualmente profumate! Sabato mattina Namouna m'entrò in camera, che ero tuttavia a letto, recando una lettera di Carlo — ti aspetto a pranzo. — Io risposi: non vengo: a stasera. Mi alzai, presi un bagno, e, fattomi bello con più cura e minor successo della natura nel farmi brutto, mi chiusi nello studio. Avevo lo spirito coraggioso, lessi, mi posi davanti al mio quadro. Ho dipinto per due ore — è una donna che medita — tu più pessimista di me non gridare: al paradosso! Volevo esprimere il pensiero della sua meditazione e vi sono quasi riuscito, poi una piega dell'abito mi ha costretto a gettare furiosamente il pennello. Era l'ora del pranzo. Mi sono fatto servire da Namouna. L'ingenua ammirazione delle sue occhiate avrebbe potuto pagarmi di tutti gli immani studi di toeletta, ma lo spirito mi si veniva facendo sempre più grave, talchè finii molto più a bere che a mangiare. Non giovò: come l'ombra si allunga invincibilmente al cadere del sole, la malinconia mi si stendeva sull'anima. Sellai io stesso Lina. È tutta bianca come il seno di una monaca, ha una testina più intelligente della mia e due occhi, che molte signore si augurerebbero; poi sono salito pei più deserti sentieri fino a San Luca. Il sole era curvo sull'Appennino quando mi arrestavo sulla spianata dinanzi al tempio. Mi sovvennero i bei versi del Carducci: Sol di settembre, tu nel mezzo stai, Come l'uom che i migliori anni finì E guarda triste innanzi. Triste il sole di settembre: triste l'ora, che perduta l'ardente poesia del giorno non ha ancora quella immaginosa del vespero, triste come il volto di donna che fu divinamente bella e perdendo la bellezza della gioventù non prese ancora quella della vecchiaia! Come la criniera e le redini sul collo di Lina, mi ondeggiavano i pensieri nella mente. Andavo verso il casino di Mimy, quasi indifferente, e sentivo troppo questa indifferenza per crederci. Il sole calava raccogliendo mano mano i suoi raggi e l'ombra saliva per le falde dei colli: io e Lina inoltravamo a testa bassa. Avevano lasciato Giulietta ad aspettarmi. Carlo era serio fino alla tetraggine: la sua pelle dal colore dell'avorio ingiallito era passata all'altro dell'oliva acerba, mentre i suoi capelli ammutinati trionfalmente sotto il cilindro sembravano un manipolo di spighe sotto uno staio; Mimy ne rideva dondolandosi al suo braccio come un uccello sopra una fronda. — Che c'è di nuovo a Bologna? gli ho chiesto ammiccando. — È scappata la contessa Rina. — Con chi! — Coll'ultimo amante. — Brava! ecco una donna che ha almeno la virtù dello scandalo: andrei quasi a Bologna per vedere l'aria trionfante di tutte quelle borghesi e quelle devote, le quali non troveranno mai un peccatore, che le faccia scappare. — Così tu approvi. — No, per due grandi ragioni: prima l'amante è brutto. — Più del marito. — Zitto! un marito è fuori della legge del bello: e Bologna è un paese anche più brutto. La Rina rimetterà difficilmente il piede nei saloni, perchè la Rina è bella e tutte le signore, che umiliava colla bellezza, la respingeranno come si respingeva Mirabeau dal ministero strillando immoralità! Rina tratta la galanteria da gran signora, che non teme disapprovazione; e ciò è troppo forte, perchè i deboli non la condannino per non condannare sè stessi. Mimy mi ringraziò con un'occhiata. — Me lo aspettavo che approvassi! Sei di una immoralità rivoltante. Una donna, prorompeva sdegnosamente, per una sordida sete di scandalo fugge coll'amante, infama il marito, disonora la vecchiaia de' suoi genitori, rovina due famiglie... e tu applaudi! Non poteva contentarsi dell'amante senza lo scandalo? — Ecco la grande distinzione: hai troppo ingegno per non riconoscere al fatto la legittimità della natura, ma la franchezza della forma ti ripugna, mentre in essa sarebbe la redenzione del fatto, se fosse colpevole. E che ne sai tu avvocato, di questa sordida sete di scandalo, che spinse la Rina a rovinarsi invece di godersi quietamente e palesemente l'amante come le sue oneste amiche? Lo sai se non soffriva nella casa maritale? Quali passioni violente si agitavano nel suo corpicino delicato? Se prima del triste passo non abbia pesato tutte le tue ragioni ed altre ancora e nullameno si sia decisa? Rispettiamo un po' più lo spirito delle donne e non lanciamo una sentenza di morte contro un mistero. Vuoi che ti dica perchè sei tanto arrabbiato contro la contessa? — Perchè? — Perchè a Bologna hai fatto fiasco colla marchesa: gli susurrai all'orecchio. Egli mi scagliò una occhiata velenosa dandomi nel gomito. — Che faresti nel caso del marito? insistei guardando Mimy. — Mi vendicherei. — Battendoti? — Meglio: non sono gentiluomo io: battendo. — Cioè assassinando. — Mio Dio! che discorsi! interloquì Mimy visibilmente in pena. — Hai ragione; per quanto generoso, il duello questa volta è ridicolo: l'amante può trionfare del marito come della moglie. Quando un amico vi uccide bisogna ucciderlo: dente per dente, occhio per occhio — afferrarlo per la schiena e piantargli un pugnale nel cuore. È la sola soddisfazione che rende possibile ancora il matrimonio. Dumas ha torto: il grido della giustizia non è _tue-la_, ma _tue-le_; la donna è innocente e corruttibile, noi corrotti e corruttori. A queste parole pronunciate con certa esaltazione Carlo sorrise: gli accarezzavano l'intimo corruccio e mi approvava col cuore se non colla testa. Quindi si alzò dicendomi con accento secco: — Vieni. Ci chiudemmo a chiave nel suo studio. — Sono geloso, ruggì appena sicuro di non essere inteso. Quella donna è una infame civetta. — La marchesa di Monero? — Sì. — Impazzisci: te lo avevo predetto. Non sei di forza a lottare con quella donna: e poi non ti ama. — Chi te lo dice? — Allora ti ama e sei geloso di te stesso: per un avvocato ragioni passabilmente. — Lasciamo gli scherzi, Giorgio: soffro come un dannato. Adesso si lascia corteggiare dal marchese Del Pino, quel biondino antipatico. — Assurdo! Del Pino è un bel giovine, infinitamente più bello di te. — Sia pure, ma ella è una infame civetta senza cuore. Pare quasi che odii gli uomini e voglia innamorarli per godersi le loro torture. — Potrebbe essere: allora guai a te! — Che cosa mi consigli? — Niente. — Non vi sono rimedii a certe malattie, e quei dubbiissimi non li seguiresti. Ella è forte, sii forte. Maria Stuarda amò Bothwell perchè la violò, il mio cocchiere si è lasciato bastonare da una donna e ne è stato amato: sono due sistemi che hanno fatto le loro prove: puoi provare. Carlo era così profondamente irritato che la mia contraddizione lo spingeva nell'abisso, ma esaltandosi per la marchesa, io pensavo che dimenticherebbe Mimy. Però il nostro colloquio non fu così breve; egli ritornava sempre sulla propria gelosia e sulla leggerezza della marchesa, rompendo in lamentazioni quasi eloquenti. Finalmente mi liberai e tornammo nel prato; Mimy vi era ancora nella stessa attitudine. — Stai a cena con noi? mi chiese Carlo. — Per questa sera ne ho avuto abbastanza di te; e poi guarda: tua moglie non m'invita. — Ve ne andate? ella rispondeva con cert'aria di sfida. — E mi dispiace di lasciarvi in cattiva compagnia; Carlo è idrofobo. — Ho perduto una causa importantissima: darei dieci anni di vita per vendicarmi di qualcuno. — Dunque addio. Uscii dal cancello, ma invece di avviarmi a casa feci il giro del piccolo bosco, fermandomi al cancello aperto quella sera fatale. Era chiuso a catenaccio, colle sbarre vestite di spini: lo tentai inutilmente col piede. Nullameno avevo a passare. Con una pazienza da martire e valendomi del temperino, che ruppi ad un legaccio di ferro, scostai uno ad uno gli spini dalle sbarre tanto da cacciarvi la mano, poi il piede, ma gli spini, stretti da frequenti nodi, appena respinti tornavo a baciare le sbarre baciandomi invece le mani, che mi sanguinavano — però vi feci qualche vano e giovandomene con destrezza inforcai il cancello: davvero che avrei preferito il puledro più ombroso! Se Mimy mi avesse visto in quella posizione ero perduto! Gli spini mi si avviticchiavano alle gambe; posavo sulla punta dei piedi tentando invano di levarne uno senza perdere l'equilibrio: ad ogni momento mille trafitture col pericolo di lacerar i calzoni: pensavo anche ai calzoni. Mi cimentai, levai un piede, traballai, stetti quasi per cadere, mi stracciai le mani; fu un momento di angoscia, cadendo potevo far rumore, e sebbene il bosco fosse deserto... ma non cascare era difficile... lo era troppo, perchè caddi con un ramo di spini nel collo. Mi fermai a respirare; il sangue mi usciva da molte lacerazioni, sentivo di avere delle spine nelle mani: ci penserà Mimy! Questa risposta mi consolò. Camminavo cautamente fra gli alberi, trepidando più di paura che di amore: se fossi scoperto! Studiavo l'ombra e il silenzio, le fisonomie degli alberi; giunsi al mio ippocastano: ristetti. La finestra del salottino di Mimy era aperta e sotto essa l'inferriata, un'altra volta salita, nereggiava nella tenebra. — E sia! Mi accostai al muro, afferrai una sbarra e in due slanci fui sulla cimasa, ma colle braccia non arrivavo al davanzale della finestra; allora un'idea m'illuminò, mi sciolsi di cintura la sciarpa romana: la gettai e per fortuna si arrestò al ferruccio, che fissa, chiudendola, il riccio dell'imposta. Tirai e resistè; dunque su a rischio che la sciarpa sfugga... uno sforzo, uno sbalzo e cascai nel gabinetto. Qui ti lascio. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Ero dunque al buio nel salottino di Mimy: respirai di soddisfazione, poi fremetti. Se Giulietta fosse entrata in quel punto e travedendomi avesse gridato dallo spavento... Questa idea mi fece raccapricciare, poi mi rassicurai; il dado era tratto: _væ victis_! e movendomi con circospezione cercai di riconoscere il luogo, perchè volevo penetrare nella camera di Mimy. Camminavo tentoni col cuore così tumultuante che ne udivo i palpiti: mi fermavo a mezzo i passi: un silenzio e un'ombra di sepolcro mi avvolgevano. Lo scricchiolio elegante delle scarpe mi dava orribili punture, mi sembrava di camminare come i commedianti nelle scene notturne, quando si abbassano i lumi della ribalta, e la ridicolezza dei loro passi e dei loro atti mi colpì così vivamente, che non potei tenermi dal ridere. Afferrai brancicando una poltrona, quella di Mimy: non so perchè respirassi con più libertà adagiandomivi; arrovesciai il capo sulla spalliera ed incrociai le gambe come se fossi nel mio gabinetto. Rimasi così qualche tempo dimenticandomi Mimy nel sognarla: poi quel bollore di sensi si abbassò e il sogno svanì nelle tenebre. Alzandomi inciampai in uno sgabello, che ebbe la gentilezza di non rovesciarsi: proseguii, giunsi all'uscio, era chiuso. Girai la smaniglia: era chiuso a chiave e sapevo la serratura a scrocco. Presi a voltarla lentamente: ogni percossa del congegno martellavami le tempia: apersi, rinchiusi colla smaniglia: ero nella sua camera. Non ebbi più paura. Buio assoluto, tutto chiuso: accesi uno zolfanello. Ebbene, Anselmo, nulla al mondo mi aveva ancora dato la sensazione di quella luce in quella camera dalle pareti in lilla, colle tende bianche e l'aria verginale. Stupii, mi parve strano di essere lì dentro, io un uomo in quella cameretta linda ed innocente! Corsi allo specchio, presso il letto, nascosto da un padiglione di veli: lo stupore mi rendeva più brutto. — Osceno! Il fiammifero era ancora a mezzo: alzai una cortina del letto. Faust ha ragione: la mano trema scoprendo il letto dell'amata. Si potrà guardare indifferentemente la scena più lubrica, nuda la donna più bella, forse la vostra donna, ma il suo letto intatto, bianco, colle trine agli origlieri e ai lenzuoli, tutto bianco, appena odoroso; il letto nel quale ripara la propria nudità, ove si accarezza sospirando o ridendo, ove avrà passate tante ore di solitaria voluttà, godute tante estasi mai confessate, durati tanti spasimi inconfessabili... il suo letto vi commuove, vi confonde. Non ti dirò la sua poesia, tutto fasciato di candidi veli, con una coperta di merletti leggieri: non si vedeva nè legno, nè ferro: molti cuscini alla testiera, la Sacra famiglia di Muller pendente dalla parete colla sua Madonna inginocchiata, la più bella, la più divina e insieme la più umana di quante Madonne io conosca; e ai piedi un'altra gualdrappa bianca, mi esprimerò così nella mia ignoranza dei lavori femminili, pure a merletti gonfi. Il fiammifero si spense scottandomi le dita. Se avessi sorpresa a dormire Mimy... ma il lettino era vuoto, era freddo. Decisi di sdraiarmivi sopra, e spolverati accuratamente gli stivali in quel buio mi vi allungai, affondando la testa nei cuscini. Chiusi gli occhi. Il letto a molle cedeva troppo sotto il mio peso troppo grave: da tutti i drappi si sprigionava un odore sottile, le trine mi entravano nei capelli, mi pareva che il cortinaggio si chinasse per riconoscermi, l'ombra mi accarezzava... Ero ubbriaco. Aspettai: voleva aspettare Mimy. Il pensiero le correva dietro, poi divagava come accade sempre nelle situazioni troppo violente e prolungate; le idee più strane, le immagini più bizzarre mi passavano pel capo distraendomi tanto da tormi la coscienza della mia posizione: poi la riacquistavo, e il sangue mi ribolliva improvviso al cuore e alle tempia. Aspettando mi feci malinconico. — Povera Mimy! Che cosa mi aveva fatto per trattarla a quel modo, entrarle in camera, entrarle nel letto come un ladro, e chi sa quale spavento proverebbe scoprendomi? Povera donna!... Una statuetta di opale, un raggio di luna gettato da un genio fantastico in una forma femminile: giovane, fragile, chi sa quali fantasmi accarezza nel pensiero, quali passioni nel cuore, ed io infinitamente più brutto vengo ad assalirla, sfondo la siepe del suo giardino e ne calpesto i fiori... Che cosa mi ha fatto perchè io sia giustificato e la mia ombra abbia diritto di offuscare il suo raggio, perchè la mia bruttezza offenda di un bacio osceno la sua beltà; perchè il mio cuore prostituito insucidi il suo cuore poetico, e il mio spirito scettico inaridisca il suo spirito credente? Povera donna! mi diceva con tristezza: ecco il vostro destino; siete bella, confidente, e un bel giorno un uomo vi si accosta inavvertito, vi investe, vi possiede, — piangete, palpitate, v'inebbriate un momento di un senso misterioso, divino; poi l'uomo si leva lento, ributtante, e voi? macchiata, decaduta per sempre dal vostro cielo, inconsolabile. Guai a chi sorge, a chi brilla! Povera Mimy... Il pensiero del dolore, che le avrei dato, m'inteneriva; il mio amore le sarebbe passato sul cuore come un bracco inzaccherato sopra un cuscino di seta bianca... Povera Mimy, povero e tristo Giorgio! Anche questa malinconia venne meno. Ero sempre sdraiato sul letto, Mimy tardava: m'impazientivo. Che cosa faceva dunque? dov'era? una idea mi traversò lo spirito infangandomelo; che Carlo voglia rifarsi con lei della marchesa? Il dispetto è così stravagante! non mi ci volli fermare, e mi volsi al muro quasi per addormentarmi. Stavo così da poco quando udii muoversi la smaniglia dell'uscio: mi voltai convulsamente: Mimy entrava col candeliere in una mano e la mandola nell'altra. Finalmente! Posò candeliere e mandola sul tavolino e sedette. La vedevo benissimo fra le tende sforacchiate dai ricami; si era già slacciato il nastro della cintura, scomposto sul capo il mazzo delle treccie; sedeva pensierosa nella sua posa abituale. Sospirò: io stentavo a non tradirmi con qualche movimento rumoroso; poi scosse la testa e seguitò a spogliarsi. Finì di sbottonare la veste, di slacciarsi il busto che gettò sopra una sedia: la camicia allentandosi mi rubò i contorni del corpicino delicato; sciolse le altre treccie, che caddero pesantemente sulla veste, e rimase un altro momento meditabonda — a che pensava? a me? Volevo quasi crederlo, ma v'era troppa languidezza nel suo atteggiamento, e allora m'avrebbe adorato! La ragione negava alla mia vanità questa divina compiacenza. Quindi alzandosi andò a sedersi dietro il canterano, così che le vedevo solo un piedino, mentre mutava gli stivalini nelle pantofole; un piedino di fanciulla, grazioso come il complimento di una fanciulla e che avrebbe capito nel cavo della mia mano. Furono pochi secondi: mosse al letto. Non ti dirò nulla: era amore, rammarico, orgoglio? non so se il cuore mi battesse: non so nulla. Si avanzava in camicia, sciolti i capelli, bianca, bionda, indifferente... Si fermò allo specchio: mi volgeva le spalle e la vedevo nella lastra: se avessi spinto un braccio dalle tende l'afferravo. Mi venne questa idea. Ella si considerava melanconicamente, almeno mi parve. Si lisciò i capelli, si guardò i denti e sorrise come per provare la grazia del sorriso: stette sospesa mirandosi, si salutò, nota questo verbo esattissimo... e si rivolse. Questa volta ero calmo: ancora due secondi, due passi e la bomba scoppiava: guai se fosse scoppiato un grido: due secondi, due secoli, due eternità... In faccia alla catastrofe avevo riacquistato il mio sangue freddo: il libertino dominava l'artista, lo scettico il poeta. Ella si accostò: la sua bianca figura si mesceva al bianco del cortinaggio: tutto era bianco: alzò un braccio, toccò una cortina — un movimento e tutto è fatto, o meglio tutto comincia. — Ah! gridò soffocatamente indietreggiando, mentre io mi spingevo dal letto perchè mi riconoscesse. — Un momento! esclamò supplichevole cercando di nascondermisi, e la sua voce era tanto commossa, il suo gesto così eloquente che ubbidii: ritrassi il capo abbassando gli occhi, e quando li rialzai ella si era diggià infilato l'abito. — Uscite, mi disse tremando. — È impossibile. — Allora esco io. — Impossibile ancora. — Lo vedremo, e si moveva. Afferrai la mandola e traendone un forte accordo mi sedetti. Si voltò meravigliata. — Che cosa faccio? suono, vi risparmio l'incomodo di suonare il campanello, perchè canterò e sveglierò forse Carlo, che accorrerà, non v'impazientite! abbastanza presto per fare una scena. Chi sa che questo non dissipi il suo cattivo umore: io in camera vostra, il letto disfatto, voi quasi in camicia... se non si contenta ha il gusto difficile: e sarà colpa vostra, glielo avrete affinato. Mimy si era fermata. — Oh! ma è impossibile! riprese dopo una pausa convulsa. — Lo penso anch'io. — Giorgio, uscite per carità: ma donde siete entrato? — Dalla finestra. — È impossibile! — Avete torto nuovamente: ho scavalcato il cancello del bosco — guardate come mi sono guastato le mani — anzi vi ho ancora alcuni spini che, più calma, spero mi estrarrete fra poco. Mi sono arrampicato sull'inferriata, poi gettando questa sciarpa, sul ferruccio del davanzale ho dato la scalata: vi confesso, non senza pena. Adesso vi ho spiegato tutto. Ella tremava come una canna al vento: impallidiva ed arrossiva; voleva guardarmi e se ne vergognava, indicibilmente più bella in quel disordine di vesti e di vita. Ci fu un istante di silenzio. — Sedete, le dissi: abbiamo da parlare a lungo. — No: non importa! e fece un passo verso l'uscio. — «Bella figlia dell'amore, — » cominciai sull'aria del _Rigoletto_. — Zitto! mi accennava impaurita colla mano. Allora mi alzai e pigliando il largo per non spaventarla andai alla porta, ne trassi la chiave, chiusi e gliela presentai. — Siete libera: dunque sediamo ed ascoltatemi. Vi sorprendo o meglio mi sorprendete nella vostra camera e vi agitate: avete ragione, lo avevo preveduto, ma avete troppo spirito per esagerare questo convulso. — È una indegnità. — Non esageriamo, vi ripeto. Ho giurato d'amarvi e mantengo la parola. Se mi odiate: ebbene volete uscire? io mi metto a cantare e Carlo arriva: conoscete i suoi principii cavallereschi. Voi sarete salva e noi ci batteremo forse qui: mi farò ammazzare o lo ammazzerò, più probabile il primo che il secondo. Non lo dico per intenerirvi, perchè preferisco ancora la vostra indifferenza sprezzante a un amore di compassione. Potete forse rimproverarmi di scegliere ineducatamente il terreno e di esporvi nel caso di una scena alle atroci calunnie del pubblico, ma vi giuro sul mio onore, e allora, Anselmo, pensavo a te, che la vostra innocenza sarà provata — del resto non pretendo di essere inappuntabile: però l'uomo, che giuoca la vita, merita qualche scusa se nella commozione dimentichi le esigenze della etichetta. Ella taceva cogli occhi bassi. — Se vi ho offesa, seguitai, ne sono pentito e triste, Mimy; ma sono innamorato: voi, una statua tagliata nel ghiaccio polare, voi non sapete l'infinito di ragioni che sta in questa parola. Vi sorprendo come un assassino — e sia, per voi sono pronto a diventarlo. Mimy: sentitemi bene: sono qui, e non ne uscirò e non ne uscirete, per questa notte, se non provocando una scena. Però siete libera: vi lascio la mia vita fra le mani — scegliete: un deposito o un giocattolo: vi ripeto, siete libera fino al dispotismo, fino alla tirannia. — Giorgio, Giorgio! mormorava giungendo le mani: siete pazzo. — Me lo avete detto altre volte, mia bella, e oramai ne sono persuaso. Sarò pazzo, sarò tutto quello che vorrete, ma voi siete... — Ascoltatemi, m'interruppi a un suo movimento nervoso. Siete bella, ma alla vostra perfezione manca una corona, l'amore. Lasciate che io povero poeta, che non potrò mai cingerne alla mia, la cinga alla vostra fronte: sarete contenta. Lasciate che vi ami, perchè ne sono degno, lo dico con orgoglio, per quanto possiate stimare voi stessa. Avete ceduto a Carlo, perchè dovreste resistermi? Vi comporrò una ghirlanda colle rose, che ancora mi fioriscono nell'anima, le poche che il dolore ha salvato colle sue rugiade di sangue dal torrido sole della vita. La vita passa — tu credi forse che un giorno senza amore sia un giorno passato? t'inganni, questo giorno ti riviverà funestamente all'anima, come dura la cicatrice nel corpo quando la piaga è guarita — oh! mia bella, quando non sarai più fanciulla e sarai ancora bella sentirai che cosa sia un giorno passato senza amore. Le tue guance sono pallide, la tua fronte opaca, il tuo cuore melanconico; vuoi che le guance si colorino, che la fronte splenda, che il cuore sorrida — sali la nave del mio amore, la poesia soffierà come il vento nelle vele, e salpiamo per l'infinito... Parlavo mano mano più commosso; l'entusiasmo m'infiammava. Trasfigurato alla mia coscienza, m'inebbriavo di me e di lei, alla quale dovevo questa trasformazione momentanea. Caddi in ginocchio. — Oh, Mimy, come t'amo! — Proprio? — Sì, risposi cogli occhi ardenti. — Allora uscite, Giorgio: andatevene, non abusate di una povera donna. Lasciatemi, ve ne prego, e tentava di staccarmi le mani, che l'avevano afferrata. Se mi amaste davvero non mi trattereste così. Due grosse lagrime le spuntarono dagli occhi cilestri. — Non piangere, per tutti i santi delle tue orazioni! Non mi perdonerei mai di averti costato una lagrima. Ma dunque mi odii molto!... Che cosa ti ho fatto per esserti più odioso di Carlo, che ti comprò per assassinarti? Fidati al mio amore: ti amerò con tutta la mia potenza di uomo, il mio entusiasmo di artista. Non mi ami? un pochino! Mi premevo le sue mani al petto appressandole il volto al seno tumultuante. Ella mi guardava sempre più pallida ed agitata, e le lagrime le rigavano argenteamente le gote. Anselmo, la bellezza che piange! Stavo in ginocchioni col petto nei suoi ginocchi; l'odoroso tepore del suo corpo passando nel mio e raddoppiandosi formava intorno a noi un'ardente atmosfera. Febbricitante, inconscio mi ubbriacavo colla sua angoscia, assaporavo i suoi fremiti, libavo i suoi brividi — povera e stupenda fanciulla! Il suo dolore m'inspirava una indefinibile voluttà d'inasprirlo, di svegliarle la voluttà; le sue mani umide ed inanimi mi comunicavano una indomabile irrequietezza di vita; l'agitazione del suo seno mi agitava come il mare agita una barca abbandonata sul lido... mentre l'onnipotente lusinga del silenzio dava all'aurora della tempesta tutto il suo incanto. Improvvisamente la strinsi, forzando le sue braccia a cingermi il collo. — Ah! — Tardi. — No: Giorgio, rispettami: non mi vuoi bene!... Un singhiozzo mi arrestò: la guardai, sembrava vicina a svenire, scolorita, come senza respiro: infatti mi mancò fra le braccia. La sollevai come una bambina adagiandola sul letto. — Mimy, mormoravo coprendole di baci gli occhi socchiusi: guardami, andrò via: non ti posso vedere così; e pure dicendo queste parole le mie mani spietate le smentivano. Il sangue mi si accendeva; i baci si moltiplicavano più lunghi ed ardenti. Un fatale prestigio spirava da quel corpo quasi morto, da quelle labbra bianche, da quelle palpebre abbassate, mentre le stracciavo l'ultimo velo, tenendole gli occhi alla faccia: inebbriante e dolorosa profanazione! feroce e spirituale brutalità! Mimy era bella come una statua, santa come un cadavere, delicata come un angelo: la bianca ombria del cortinaggio dava alla sua nudità un pallore anche più spento, una sacra nebulosità; la voluttà sembrava essersi celata nel suo corpo come una bella donna entro un fitto velo scoprendosi senza mostrarsi — io provavo mille sensazioni insopportabili, palpitavo di mille sentimenti micidiali: ebbro, pazzo salivo e scendevo vertiginosamente per tutta la scala dell'essere, dal bruto all'ideale; tremavo, fremevo: quella bellezza e quella nudità mi parlavano, mi rispondevano, lampeggiavano confuse, onnipotenti, incomprensibili. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · L'istromento dovrebbe spezzarsi quando non può accompagnare il canto troppo alto della passione, o la penna che ci piantiamo nel cuore per narrarne i sentimenti, cangiarsi in pugnale e restarvi quando non si può più scrivere nemmeno col sangue! Dovrei fermarmi qui e non posso. Un irresistibile bisogno mi urge di dirti quello che non riuscirò a dirti, di darti la formula impossibile della mia voluttà: bisogno lascivo e doloroso, al quale si oppongono del pari invano la logica della ragione e la logica del cuore. La mia vita per un inno, tutta la mia vita d'imbecille per un'ora di poeta! L'entusiasmo che mi fermenta nell'anima scoppii e l'uccida, ma l'anima morendo trovi il suo grido, il suo verbo... No: l'incendio morrà soffocato: la tempesta non avrà un urlo. Atroce impotenza! Dovunque il dolore, sempre il dolore: come un insetto velenoso sul fiore del piacere, come una stuonatura nella sinfonia della voluttà, come uno spettro al banchetto dell'amore: sempre il dolore, ad ogni passo che si muta, ad ogni pensiero che nasce, ad ogni pensiero che muore: la nostra vita non può obliarlo: ne è il principio e forse anche l'immortalità, come cantava ieri un grande poeta. Dio! se Mimy fosse morta in quel punto l'avrei amata egualmente! Alla fine sentii mancarmi il respiro, e feci un movimento che la scosse. — Mimy! esclamai attaccandomele alle labbra, ed ella mi appoggiò le mani sul capo per sollevarsi. Ci guardammo: il mio sguardo la vinse e i suoi occhi cilestri si nascosero dietro le palpebre. L'abbracciai ed ella non repugnava, non consentiva, piangendo senza singhiozzi: era mia e mi sfuggiva! Questa contraddizione mi esaltò: nel delirio più ancora della angoscia che della passione l'infiammai cogli sguardi, l'arsi coi baci, e a poco a poco la calda atmosfera delle mie parole e del mio respiro parve penetrarla; sentii fremere le sue mani nelle mie e le sue labbra tremarmi sotto le labbra, mentre durava a piangere silenziosamente guatandomi a volta a volta con una sublime attonitaggine. Le sue lagrime erano il vino del nostro banchetto e mi ubbriacarono follemente... ci amammo in un'estasi atrocemente divina, in un tumulto di baci e di singhiozzi, di moine e di ripulse, di esclamazioni e di gemiti profondi soffocati, nervosi: negli occhi le scintillavano lagrime e baleni, mi baciava fuggendomi e sentivo una sorda agonia di parole incomprensibili, di tronchi singulti — un amplesso ineffabile, senza nome, forse come quello di Adamo e di Eva la prima volta dopo la cacciata dal paradiso, o dell'angelo della voluttà e del dolore la prima volta, che esuli dal cielo, s'incontrarono sulla terra. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Adesso quell'ora è passata: quanto conforto e quanta amarezza in questa parola! Conforto di aver vissuto, amarezza di sopravvivere alla propria vita. È passata, Anselmo, come tutte le altre ore noiose, come sul letto di tanti infermi, sul sepolcro di tanti morti! Il pensiero si rivolge, quasi un pellegrino, a guardare la sua traccia nel passato e distingue appena nel paesaggio una vetta illuminata dal sole. Là discese quell'ora nel suo transito fatale... Avanti, pellegrino: hai avuto il tuo raggio di sole, il tuo pellegrinaggio non fu vano e puoi perderti senza lamenti nel buio della maremma. Se Dio esistesse, egli medesimo nella sua onnipotenza, non potrebbe farti risalire quella vetta — la tua ora di vita è trascorsa: avanti, pellegrino, nel buio della maremma! Addio, Anselmo, la tristezza mi si addensa nello spirito, e invece di un inno sto per chiedere al genio del poeta un'elegia. Quale miserabile creatura l'uomo! Certo la nostra vita fu un errore e nel mito del peccato originale si nasconde un'idea profondamente vera — se non si espia si soffre, se il peccato non fu della creatura fu del creatore. Sempre infelici appena ci raccogliamo in noi stessi! «Ti diverti: dunque soffri.» Pascal, hai ragione. Ma il tuo Dio ha torto di averci trattato così. _PS._ Ci penso ora: e se Mimy fosse entrata con Giulietta?! Adesso sono orgoglioso della mia sventatezza. La vita è più bella attraverso il prisma di una lagrima, dicono; e la voluttà? Mimy piangeva col volto talora sorridente sotto quel velo di dolore. Vedesti mai sorridere un fiore nell'acqua al raggio della luna? Pare che i colori destandosi sussultino, ma a quel raggio morto che l'acqua scuote appena perchè appaia più morto, il loro sorriso diviene incerto, s'abbruna quasi: una trepidazione lo fa a quando a quando trasalire come un vivente ai baci di un cadavere. Ella era così! Oh mia pallida e dolorosa fanciulla, mi coglierò tutti i fiori e tutte le gemme dell'anima per fartene un serto, ti offrirò come un incenso i sentimenti più delicati e magnanimi del mio cuore: e tu mi amerai, o dolorosa, come la viola ama l'erba e la gazzella ama il prato. 29 settembre 1871. Sono otto giorni che non ti scrivo — il mio romanzo sarebbe finito? Certo se fosse una opera d'arte bisognerebbe interromperlo a questo punto, poichè seguire due amanti fuori della loro vita d'amore per vederli decadere e sparire, sia ben triste: ma il mio romanzo è vero e adesso diviene più vivo e discusso. Ho fatto una scorreria in una bella provincia che ora debbo conquistarla; debbo alzarmi un palazzo dove ho piantato la tenda. Impadronirsi di una donna non è possederla, giacchè per possederla bisogna averla penetrata dal senso al sentimento, dalla fantasia alla ragione. Come viaggiatori per una strada, gli amanti si appaiano, camminano cinquanta passi colle braccia intrecciate, e a una svolta si separano; e se chiedeste all'una chi era l'altro: non so, risponderebbe, mi pare che si chiamasse Giorgio! Mimy è la mia amante... e poi? Lagrime e baci mi si inaridirono sulle guance, ma la sete da essi accesa mi riarde più atroce. Se debbo sempre precipitare dalla torre, con qual cuore salirla? Se ogni volta che monto la barca, la prima ondata deve trascinarmi impetuosamente dal lido e la seconda più impetuosamente rigettarmivi, non sarebbe meglio star seduti sulla sabbia affogando nella contemplazione del mare illimitato il desiderio di correrlo? Talora mi assale quasi un rimorso. E se Mimy fosse come tutte le mie altre amanti, così che dopo averla costretta al sorriso della passione dovessi piegare tristamente il capo per nasconderle quel mio eterno sogghigno... ed ella, poveretta, lo vedesse! Se avessi aperta con dolorosa violenza la sua conchiglia per lasciarne cadere la perla? Se avessi sforzato il sarcofago della sua anima per gettarvi dentro una beffa?... Povera donna infelice! era ben meglio che non ci fossimo incontrati. Spesso baciandole la bionda testina mi assale un fremito di compassione e di rispetto: così fanciulla e così ostinatamente infelice mi sembra una predestinata, di quelle, checchè ne pensi la pettegola ragione, le quali portano il segno e il presentimento della sventura che le ucciderà — una testa, cui non manca se non la benda del sagrificio sui capelli e il lampo della pietà negli occhi, per essere quella di una santa! 5 ottobre 1871. Preparati a strapazzarmi, grave amico. Siamo ai tempi di Giulietta e Romeo. Ho portato a Mimy un bastone di ulivo forte quanto una spranga di ferro; a notte tarda gitto un grido di civetta, ella pone il bastone attraverso la finestra, mi butta una corda di seta: io monto; in tre secondi ho scavalcato il davanzale, cavato il bastone, chiuso l'imposta, abbracciata e baciata Mimy secondo il sistema di Hayez. L'altra sera arrivai con un fagotto sotto il braccio. — Che cosa è? mi chiese colla sua curiosità di fanciulla. — Un tuo vestito, e le mostrai un costume di paggetto in casimiro nero a filetti neri; la mantellina a doppio bavero formava l'involto, gli stivali erano fatti sulla forma di una scarpetta che le avevo rubata, il caschettino era senza penna. Mimy cascò da moltissime nubi, ascoltando il mio progetto di uscire soli alla campagna fuggendo dalla finestra, ella così mascherata per non destare sospetti; ma le ripugnava ancora più d'indossare quel costume maschile che di avventurarsi fuori di casa. Fu una graziosa rivelazione di pudore — consentire agli sguardi di tutti gli oggetti le proprie forme use al mistero delle vesti o agli studiati tradimenti dei corsetti era troppo! Una donna si mostrerà semivestita, seminuda, nuda, piucchè nuda, ma solo a certi momenti e a patto di commovere: invece infilare un paio di calzoni, nascondere il seno in un corpetto, non essere più donna, non camminare più con quella grazia, non fare più quei gesti, non atteggiarsi più in quelle pose, mostrarsi come senza sesso... Ebbi una lunga lotta che si concluse con questo trattato: Mimy vestirebbe il costume purchè non assistessi alla sua prova. — No! esclamai fortemente. — Zitto! Giulietta potrebbe udire. — No! Giorgio, si raccomandava, incrociando le braccia sul petto: lasciami, mi vesto da me. Ma io badava ad aprirle la veste per fare più presto. — Ti do un bacio. — Preferisco di infilarti i calzoni. Ehi! la camicia è troppa lunga. Aspetta. Caddi in ginocchio e traendomi di tasca il temperino a forbice cominciai a tagliarla come si dipingono le saette. Ridevo: ella voleva indispettirsi e suo malgrado soffiò; ambedue demmo in un riso pazzo, soffocato, così che perdendo l'equilibrio rovesciammo abbracciati per terra. Quando ci rialzammo, ella mi lasciò seguitare l'amputazione, ma i calzoni troppo stretti, malgrado tutte le mie misure di precauzione ordinandoli al sarto, presentavano difficoltà, che mi facevano scoppiare dalle risa. Pochi piaceri al mondo valgono quello di abbigliare da uomo una donna bella e pudica. Finalmente fu vestita. Apersi la finestra: la luna sonnolenta erasi tirata sulla testa il lenzuolo di un nuvolone. Incoraggiai Mimy e, disposta la corda, scavalcai risolutamente il davanzale: ella mi seguì, ma spingendo gli occhi nel buio ebbe paura e si ritrasse; dovetti quindi cingerle con un braccio la vita, attirandola così violentemente che mi cadde sul collo: vi si aggrappò. Con quel dolce peso mi calai abbastanza bene lungo la corda per un ginnastico par mio. La notte era calma. Legammo il capo della corda all'inferriata. Camminavamo in silenzio: il paggetto mi dava di braccio. Eppure era una imprudenza la mia! Se Carlo fosse salito allora nella camera di Mimy... Povera donna, come si cimenta per un mio capriccio! Un impeto di tenerezza m'irruppe così furiosamente nel cuore che stringendo improvvisamente Mimy con ambo le braccia mi posi a correre a correre, finchè caddi sfinito sul margine di un fosso. Allora parlammo. Mimy ha più ingegno di Carlo e più cuore della marchesa di Monero — ti basti questo per giudicarla. Non è facile a parlare, ma se commovendosi alla poesia di una parola vi acconsenta, la sua conversazione ha tutta la voluttà di un amplesso. — Di tutti i misteri dell'amore il più tenebroso non pare anche a te la sua nascita? — Non nasce: allora morrebbe. Un amore che può dire: nacqui il tal giorno, mente come una donna che dicesse: sono diventata poetessa nella tale settimana. L'amore si sviluppa nell'anima come la bellezza nel corpo; ma quando si fu veramente belli, si è belli anche vecchi. Ho sempre amato, fino da bambinella, le farfalle, i fiori... ho amato una stella, della quale non ho mai saputo il nome. Mi ricordo di averla guardata lunghe notti dalla finestra e di essermi coricata triste, se un qualche nuvolone me la nascondeva e la brillante amica mancava al convegno — La mia stella! E neppure essa mi amava! Sogni, lusinghe... una parola che si anela di pronunciare e che si trema di udire, che spesso non si comprende dicendola, che non è mai compresa se la dite... ecco l'amore. E il paggetto mi appoggiò languidamente il capo sulla spalla: gli passai una mano sugli occhi per accarezzarlo e sentii che piangeva silenziosamente. 12 ottobre. Ecco la prima lettera di Mimy: le avevo scritto imponendole di rispondermi. Te la mando; giudicala, io ne sono desolato. Rispondervi? Una volta mi paragonaste a una gardenia: che cosa potrebbe mai rispondervi una gardenia? Essa non ha altra parola che il suo profumo: io non ho altro profumo che la mia malinconia; respiratela, non l'interrogate. Perdono! Forse non ci avete pensato, ma chiedere a una povera donna come me di scrivervi è stata da parte vostra una grande crudeltà. E che cosa potrebbe ella mai dire a voi, che avete tanto spirito, se non avete poi abbastanza cuore per capire il suo silenzio? Lasciatemi nella mia taciturna tristezza, non rapite l'ombra a coloro che non ebbero il sole; non siate più cattivo del vento che scuote le querce sulla cima dei monti e non disturba la ginestra nel fondo del burrone. Ora che siete il mio amante, e ve ne sarete vantato con voi stesso più di una volta, dovreste usare più dolcezza — la violenza sarà forse una virtù con quelli che resistono, ma non con quelli che dovettero cedere... Rispettate i caduti voi che avete vinto, lasciate tacere voi, artista, coloro che non possono parlare. Non volevo rimproverarvene, ma poichè debbo rispondervi, mi vi costringete. Nella vostra lettera mi rinfacciate amaramente di non invitarvi a scalare di notte la mia finestra — la frase è velata, però il pensiero traspare. Vi siete dunque dimenticato che scrivevate ad una donna, la quale sebbene caduta ha ancora un avanzo di dignità, e che anche l'adulterio ha il suo pudore?... Non lo avrei mai creduto! Ho letto il vostro Heine: oh! egli è un grande! rileggete l'ultima strofa del suo Negriero; i vostri ordini per l'interesse de' miei piaceri rassomigliano molto agli ordini del suo capitano Van Koek. Mi firmo MIMY. PARTE TERZA CAPITOLO PRIMO E per rendersi ben orribili questi provinciali non parlano che della corruzione delle grandi città. STENDHAL. Che cosa è una città di provincia? Ecco un problema non meno difficile dell'altro: che cosa è una donna? e che aspetta ancora da un grand'uomo la propria soluzione; ma l'autore incredibilmente modesto di questo romanzo lo ha qui posto invano per non essere oggi in tanta folla di grandi scambiato per tale. Come il vento sfoglia la rosa e si sforza inutilmente di aprire la pigna, gli spiriti del filosofo e del poeta si sono affaticati intorno alla donna, poco più fortunati del vento: seppero assai cose meravigliose e più assai ne ignorarono, seppero i mari ed i cieli, svelarono la creatura e il creatore, scrutarono la vita e la morte, ma quando il pensiero stanco di tante sconfitte e di tante vittorie volle riposarsi sopra una fronte femminile, come un insetto si riposa dal volo fra i petali di un fiore — il fiore era odoroso ma chiuso, offriva il riposo non l'ospitalità. Indarno il pensiero incalzato dal sole tentò colle fini zampe di schiudere la tenue corolla — i delicati tessuti resisterono a tutti gli sforzi, mentre l'olezzo che li eccitava gli rammolliva pure l'energia: il fiore rimase chiuso, l'insetto sulla sua cima, e così dura tuttora, ed è probabile che duri per un pezzo. Nel fondo del vaso di Pandora rimase la speranza, e fu bene, giacchè i mali involatisene sarebbero in breve cessati per mancanza di uomini; sulla fronte della donna sta il mistero, ed è meglio, altrimenti il nostro pensiero nell'ora della stanchezza non saprebbe ove raccogliere il volo: così la provvidenza è davvero piena di buon senso e occorre tutta la sfacciataggine del genio per osare di negarlo. La donna è un problema, che ogni giorno si ritenta; e una città di provincia, mi disse un amico passabilmente spiritoso, è una donna borghese. Rabbrividii: il paragone poteva essere oscuro per chi non intendesse la parola borghese, ma lo trovai spaventoso di esattezza. In amendue la medesima disgustosa difettosità, una piccolezza di forma rattrapita dalla rachitide, una vita inanime, una maschera d'impertinente vanità sopra un'anima schizzinosamente imbecille. Un illustre scrittore si è provato ad indicare spicciolatamente i caratteri della donna onesta non virtuosa, e malgrado l'acume profondo e lo spirito vivace vi è appena riuscito: ma sarebbe infinitamente più difficile dire che cosa sia una donna borghese. Nessuna fantasia, per quanto atrocemente buffona, da Aristofane il padre ad Heine il figlio, avrebbe creato simile tipo diventato il trionfale aborto della nostra civiltà, il capolavoro del nostro buon senso cristiano e della nostra saggezza economica, del filosofismo liberale e delle rivoluzioni medioevali e francesi. Fuori di Europa, e l'America è europea di spirito, la donna è o un bruto o una poesia; in Europa invece è una prosa e, se invece di Europa avessi detto Italia, aggiungerei, una prosa di pedante moderno imitata sopra una mediocrità trecentista. A questo corpo spesso bello tempi cattivi comunicarono uno spirito peggiore, una composizione d'inconscie pieghevolezze e di assennate abbiezioni, di fetide velenosità e d'insofferenti inettitudini. Quando una donna è abbastanza ricca per essere oziosa e colta per non essere più brutale; quando la sua grazia arriva a contraffare l'eleganza e il suo pensiero a camuffarsi da idea; quando la sua mente parla di ideali e il suo cuore di sentimenti, come un sordo di musica o un giornalista di arte; quando si estasia con paradisiaca facilità in contemplazioni morali spesso colorate di tinte romantiche, o nega senza comprenderle tutte le aristocrazie d'intelletto e di cuore, o ammettendole le dileggia; quando insudicia colla bava del suo buon senso tutte le bellezze della poesia; quando i suoi vizi e le sue virtù rassomigliano a vizi e a virtù come la carogna di un leone a un leone; quando la sua anima vibra sotto le dita dell'amore come una corda da bucato ai colpi di uno dei pali che la sostengono; quando il suo intelletto è generoso quanto la bilancia di un mercante... questa donna è una borghese. Se Dante l'avesse conosciuta, certo se ne sarebbe servito contro i dannati del suo inferno; se il padre Kircher, che nella propria credulità scientifica trovava ieri 6561 prove della esistenza di Dio l'avesse sospettata avrebbe potuto da essa cavarne un'altra e la più irresistibile della sapienza divina, nell'aver dato alla società moderna, la più incredula, la donna borghese, affinchè l'uomo si staccasse noiato dalla terra e pensasse al cielo. La donna si divide in tre classi: popolana, bellezza bruta; borghese, deformità sociale; aristocratica, bellezza artistica; ma queste tre classi sono confuse nell'altre, proletari, borghesi e signori. E come della donna è così delle città: vi è il villaggio, il capoluogo, mi si perdoni l'orribile parola moderna in favore della sua facile intelligenza, e la capitale — nel primo una vivacità auroreale, nel secondo un fermento paludoso, nella terza una attività di creazione: gli uomini del villaggio sono semplici, quelli del capoluogo pedanti, quelli della capitale intelligenti: abbandoniamo, direbbe Kant, la tesi e la sintesi per studiare l'antitesi — una città di provincia, per esempio come Bologna. Guai se la donna borghese sia ricca, poichè la ricchezza è allora il sole che batte sullo stagno e ne centuplica la bruttezza e i pericoli! Guai se una città provinciale vanti un passato qualche volta storico, una ricchezza di possidenti, una coltura di università; se la sua aristocrazia voglia vivere di una vita artistica o elegante, se il suo popolo si consideri un gran popolo e il suo municipio un governo mondiale! Allora per chi vi abiti, e non vi appartenga, non rimangono che due vie, ridere o fuggire; o meglio una sola, ridere e poi fuggire. In una città di provincia tutto è, non piccolo, ma meschino: i palazzi e chi li abita, ciò che vi si dice e ciò che vi si fa: i caffè ove si annoiano sempre le stesse persone, i giardini pubblici che si annoiano sempre senza pubblico e più la domenica quando ne hanno troppo: le calessi dei ricchi sempre addietro della moda, gli abiti degli uomini oltre la moda, quelli delle donne al disotto della moda — tutto è meschino, la borsa ove si stringono i contratti e i saloni ove s'intrecciano gli amori: là una borghesia che ritorna plebe, qua una borghesia che scimmieggia l'aristocrazia: i circoli ove una partita a domino è un fatto della più alta importanza, i club dove si manipolano i regni e le repubbliche colla più sublime indifferenza. E ogni città di provincia ha il suo centro elegante, un portico o una strada, ove nelle ore più eleganti gli eleganti di ambo i sessi convengono per ammirarsi a vicenda o lasciarsi bonariamente ammirare dalla gente brutta; vi è il barbiere dei giovanotti e la sartrice delle donne, che si ricambiano un fuoco non interrotto di storielle, di aneddoti sempre gli stessi come i _fatti diversi_ nei giornali — là un cavallo, qua una acconciatura; un marito ingannato abilmente, una ragazza che anche più abilmente si è lasciata ingannare forniscono conversazioni più lunghe e noiose di un discorso accademico: si enumerano i debiti e le fortune delle persone più in voga e per esserlo basta volerlo, perchè mai l'aforisma stoltamente vantato — volere è potere — trova più splendida conferma. Basta perder qualche centinaio di lire al gioco per sentirsi guardare come un grande epicureo, o indossare un abito nuovo non avendolo magari pagato e fare un giro nel centro elegante per impararne subito il prezzo. La borghesia di una città di provincia è la maggiormente borghese di tutte, e sarebbe il quadro più grottesco e più bello per chi sapesse farlo, ma l'autore vi rinuncia — basti che gli uomini sentano come parlano e le donne come si abbigliano: date una mano di bianco alle rovine di un castello feudale o mettete un gibus sulla testa del primo carrattiere, cui vi imbattete, e avrete un'idea della borghesia di provincia. I Greci inventarono la città nel senso morale e politico; noi maggiori di loro abbiamo la borghesia: e così ci andiamo perfezionando e i posteri non tradiranno, speriamo, nè le nostre speranze, nè le nostre tradizioni. Ogni grande città di provincia ha i suoi circoli, politico, elegante, artistico, dotto, che si rassomigliano tutti nella importanza come i gobbi nella schiena: e ogni circolo ha i suoi grandi, una razza che nessun naturalista ha ancora anatomizzata e che non cresce se non in provincia, come i pomidoro non spuntano che sul concime — persone quasi tutte che rifulsero al ginnasio, si appannarono al liceo, fecero alcune lustre all'università e finalmente abbagliarono, oratori e segretari di ogni comitato, che si radunava a sciogliere davvero le grandi questioni sociali. Fuori delle sacre mura della città nessuno li conosce, ma che importa? I cittadini, che lo sanno, raddoppiano la loro intelligente ammirazione, ed eglino per riconoscenza la stima di sè stessi: se non compierono grandi cose, nacquero disgraziatamente in un teatro troppo piccolo; se non scrissero grandi opere e poche ne lessero, i grandi negozi rubarono loro il tempo, però prima di morire si assicureranno la immortalità; infatti, se uno di loro muoia, ecco subito un altro di loro a dichiarare sul feretro con una seguenza di frasi rimbombanti e vuote quanto un tamburo: che il morto non è morto, perchè tali uomini non muoiono. I grandi uomini di provincia, che hanno tanto divertito Balzac, egli veramente un grande nato in provincia, se del partito così detto progressista si riconoscono alla insipida audacia dei discorsi, se del partito conservatore alla melensa serietà dei sentimenti; superbi di sè medesimi che stimano e del paese che disprezzano, si combattono con maggiore accanimento degli Orazii e Curiazii della antica leggenda e s'incensano col rispetto dei preti cantando la messa. E ai Marat e ai Metternich del consiglio comunale fanno riscontro i grandi artisti e i grandi eleganti: poeti che hanno costruito sull'Italia più canzoni che il suo governo non abbia commesso errori, o lanciarono poemetti, i quali cadendo sul selciato della critica fecero meno rumore della neve, o scrissero una novella che i lettori provinciali guardarono inebbriati per sè, cosicchè niuno dopo di essi conobbe; critici che dicono male di tutto ciò che non intendono, quindi di tutto, specialmente se presente, forse nella idea che alcuno per reazione dica bene di loro; filosofi, che ebbero l'immenso merito, e questa volta sul serio, di non alzare sistemi e si limitano ad annoiare coloro, che già si annoiano nei club e nelle conversazioni: pittori divenuti caricaturisti senza accorgersene; scultori generalmente da chiese, che scolpiscono brutti santi, forse per insegnarci che la virtù sola guadagna il paradiso o qualche brutta Venere per toglierci l'amore della bellezza, che si dice, lo faccia perdere. Ma gli eleganti sono ancora in maggior numero e tutti uguali malgrado le differenze di fortuna, anzi i più ricchi peggiori. Alla capitale si è eleganti, in provincia si fa l'elegante, distinzione suprema che tutti i satrapi della moda mi ammetteranno, e nella quale sta il segreto dell'amabile magnificenza dei saloni di Roma e della opulenza sgrammaticata dei saloni, per esempio, di Bologna. Là l'eleganza è una originalità e un'abitudine, qui una imitazione e uno sforzo: una signora di Roma è sempre elegante sebbene le sue vesti non lo gridino mai, una signora di Bologna non lo è mai benchè la sua acconciatura lo strilli sempre: quella odorerà come un mazzo di fiori, questa come una bottega da profumiere; la prima farà della ricchezza una graziosa cornice a un quadro spesso mediocre, la seconda una chiassosa insegna a una osteria spesso infrequentata: l'una sarà divinamente incantevole nella propria leggerezza come le fantasime che si formano in cielo coi vapori, l'altra faticosamente leggera come la polvere che il vento alza sulla strada. Per una signora della capitale un abito è una novità, per una signora di provincia è un avvenimento commentato spesso non senza frutto e spesso consegnato nelle mani della tradizione. A Roma una festa, nella quale si spende la rendita di un milionario provinciale e convengono centinaia di bellezze e di grandezze, è una guarnizione di brillanti lavorata da un grande orefice: a Bologna una festa, che costa meno di una scatola di sigari avanesi e ove brillano fra pochi nobili di data così vecchia, che il loro nome non brilla piucchè nel passato, i deputati di giovani botteghe e di più giovani ed apocrife fortune, per l'artistico dell'aspetto rassomiglia a una di quelle guarnizioni di reliquari di cuori d'argento e di coralli, che attirano l'attenzione dei devoti e degli increduli sul petto delle madonne miracolose. Una signora della capitale sarà insipida se parla, una signora della provincia lo è anche se tace; e come a questa non trovate mai un abito da mattina, a quella lo spirito grettamente famigliare, che nella signora tradisce la massaia: a Roma tutte le signore hanno la carrozza, a Bologna la maggior parte vanta il comodo dei portici, che le rende assolutamente inutili per chi non può assolutamente averle: ma una signora senza carrozza è come un re senza trono, oggetto mezzo di compassione e mezzo di scherno: è peggio che senza amanti, peggio che senza spirito — è una contraddizione più dolorosa delle contraddizioni economiche studiate da Proudhon, delle antitesi critiche rivelate da Ferrari. E per finire questo sublime parallelo, oggi sono alla moda, di due sublimità: una signora della capitale sta ad una signora di provincia come una gran signora ad una borghese, un artista ad un artigiano, un attore ad una scimmia, una donna ad una femmina, un uomo ad un prete. Domandate a quella, la gran signora, quanto si può chiedere ad una donna, la sostanza dei profumi, l'amabilità del nulla, la poesia del vuoto e l'avrete: non chiedete nulla alla seconda, la borghese, perchè avvicinandola avrete tutto, il lezzo della materia, la prosa del silenzio, la vacuità del deserto; guardate la prima come un bel ricamo di seta, di oro falso, di perle finte; la seconda come il suo rovescio di nodi e di bioccoli: amate l'una e fuggite l'altra, ecco il consiglio di tale, che si stima buon consigliere, poichè non siede in nessun consiglio comunale. Ma gli uomini sono peggiori delle donne perchè l'uomo, generalmente meno bello, è sempre più inestetico della donna. Nullameno il loro vestito, per quanto affettato, è più vicino alla moda; un taglio più audace, colori più vivi, stoffe più appariscenti, una maggiore quantità di abiti e una massima alternanza nell'indossarli, ecco i caratteri esteriori dell'elegante di provincia; e se vi aggiungete una pettinatura impossibile, un portamento estremamente pago di sè stesso, un enorme spaccio di profumi e di francese, una insulsaggine di ballerino con una vanità di grand'uomo, avrete un ritratto abbastanza somigliante e mal fatto. Mentre i giovani serii, speranze provinciali della patria, rifanno nei giornali della provincia gli articoli dei maggiori giornali delle capitali, e commettono discorsi nelle più ritrose circostanze, superbi di capitanare una confraternita di cuochi o di barbieri, gente che vuol camminare dietro loro sulla grande via del progresso seminata di grandi monumenti e di grandi morti; questi trovano la filosofia di un corpetto liscio o a stola, le affinità elettive dei colori, la rettorica di una cravatta, la ragione della moda e quindi della loro esistenza; entrambi meschini: i primi contraffazione dell'arte, i secondi della scienza: gli uni soffiano sulla loro vita, mozzicone di sigaro, nella superba speranza che se ne sviluppi un incendio visibile a tutto il mondo: gli altri si lasciano vivere, ma non si lascerebbero abbigliare da altro senno che il loro, felici quando morranno di aver molto vestito: in coloro l'anima inacetisce, in costoro imputridisce, epperò si rassomigliano. Talora pure s'incontrano alle feste di beneficenza, nuovo e più sanguinoso insulto lanciato alla miseria ed alla pazienza dei lavoratori, nelle quali i giovani gravi rappresentano la muffa, gli eleganti le frondi, le eleganti i fiori della pianta borghesia — e i primi fanno ridere, i secondi ridono, le terze sorridono ad entrambi, mentre quelli sono ancora meno spiritosi di questi, che parlano come le altre sono vestite. Mettete assieme uno o due presidenti di una qualunque associazione inspirata a grandi principii, come una Lega per la istruzione del popolo o una società ippica o carnevalesca, un segretario di venti comitati che furono e di più ancora che saranno, una dama delle solite collette per le inondazioni, una patronessa di opere pie, come una casa di educazione per le povere donne che pericolarono un po' troppo e vogliono ricominciare la loro santa missione di armonia e di amore: ascoltateli discutere un invito o una protesta a nome della morale e, se vi resistete, gettate in mezzo ad essi una grande idea o una abbietta insinuazione contro un grande uomo o una donna superiore, e vi prometto uno spettacolo assai più bello delle loro serate filodrammatiche e filarmoniche coi dilettanti. In una grande città gli scandali, in una mezzana i pettegolezzi: tutto è pettegolo nel capoluogo, perfino quelli che tacciono, perchè non possono a meno di ascoltare: ognuno vive dei fatti altrui, spia le altrui disgrazie, le novera, ne fa un poema; tutti conoscono quelle di tutti e ne godono, sviluppando così il divino principio della fratellanza. Entrate in un villaggio, e non si parla che di caccia o di pesca; in una capitale, e una corrente di idee vi solleva; entrate in un capoluogo, e non si fanno che pettegolezzi; ogni cosa vi si impicciolisce, perfino la politica, che diviene lotta di ministri piuttosto che di idee e di nazioni. Invano le case chiudono porte e finestre contro tutti gli sguardi, che le penetrano egualmente e più invano i provinciali lo sanno, giacchè non possono guardarsi l'uno dall'altro: si conosce il ricolto dei vostri campi, delle vostre scappate e più ancora di quelle di vostra moglie se ne fa: si ha la topografia del vostro appartamento, l'inventario dei vostri debiti e dei vostri progetti; la vostra rovina, se siete dissestato, è calcolata infallibilmente ad ogni ora; se la vostra fortuna invece è in rialzo potete studiarne la scala sulla faccia dei vostri concittadini, come si guarda il termometro per sapere i gradi del calore; la cacciata di un impiegato preoccupa quanto la caduta di una dinastia, il matrimonio di un conte piucchè la scoperta di una seconda America. Una indefinibile astiosità regna in tutte le relazioni, giacchè quegli uomini senza concetti e senza orizzonti pare si litighino una meta stessa tanto studiano d'incepparsi. Le grandi idee passano sulle città come le nubi, e forse uno appena fra tutti, astronomo solitario e deriso, le avvertirà. Che se il vapore ha stretto con una catena di ferro tutte le città in una sola, come cantano i poeti nei giornali, rasenta nullameno invano la città di provincia; vi deposita la merce, non lo spirito della civiltà, o se qualche poco ve ne lascia, è una fondiglia che evaporerà in un fermento mal odoroso. Veramente sarebbe difficile dire di che cosa viva una città di provincia spesso senza industria nè commercio nè università; possidenti oziosi per elezione, operai troppo spesso oziosi per necessità, merciai che si nutrono dei bisogni di questi e dei prodotti di altri paesi: in nessuno nemmeno il dubbio che la vita debba essere una marcia ascensionale, che fuori della città si viva e si cammini davvero; ma se odono la musica della marcia, si mettono spiritosamente alla finestra, attendendo qualcuno cui accodarsi; mentre poi, se passa, non se ne avveggono. La città di provincia ha pure la sua morale, diversa che nel villaggio e nella capitale. In questi, poichè gli estremi si toccano, uno dei pochi proverbi non sbagliati, evvi una rilassatezza ingenua o una tolleranza filosofica per i peccati della carne, che lascia alle peccatrici godersi in pace la vita, e se non aumenta, non scema loro le simpatie del pubblico: le vergini vi sono più rare che altrove, ma i matrimoni non meno frequenti per questo; invece nelle città di provincia guai alla donna che non sa farsi perdonare l'amante a forza di ipocrisie! Tutti si rivoltano disgustati alla immoralità: persone coll'anima così fangosa da convincere della sua materialità il più esaltato spiritualista, si velano come Timante la fronte all'osceno spettacolo e maledicono: poi coll'istinto olfattivamente feroce della iena fiutano le peste degli amanti, li seguono in istrada, in casa: li guardano in tutte le pose, contano i baci, le carezze, le ire, le paci e vanno al caffè per farne la somma, che trovano sempre modo di mostrare al padre o al marito. Nè per essere ipocrita quanto un gesuita, nessuna donna speri salvarsi, giacchè l'oziosità provinciale sempre sollecitata dal pungolo della maldicenza, e costretta ad esercitarsi su piccole cose, crea quotidianamente capolavori giapponesi di cattiveria e di pazienza. Il sentimento dell'onore, ha detto Montesquieu giustamente, è proprio delle monarchie e quindi delle grandi città: in provincia nessun carattere veramente aristocratico; nè alterezza, nè fragilità: o arroganza o abbiezione: molte ingiurie e pochi duelli — la ricchezza unica causa di stima, perciò molti ricchi e nessun signore: l'amore, nè galanteria nè passione: l'ambizione, una invidia malevola: il lusso una pomposità: la virtù un galantomismo passivo o uno studio cristiano: mai uno slancio o un baleno: tutto deforme, meschino, meno la terra e il sole che durano a sorridersi, forse per dimenticare di sostenere e d'illuminare tali disgustosi formicai. Ma la moralità provinciale scoppia specialmente in teatro ogni qualvolta si rappresenti una commedia francese: i padri temono per le figlie il fascino di quello spirito, che nè essi, nè elleno intendono se non colle orecchie: quelle scene potenti di vita sollevano di casto orrore il cuore delle mogli, che non seppero avere o conservare gli amanti, e Mio Dio! esclamano: le parigine... che immoralità! trasportare sulla scena donne come Margherita, Bianca, Fernanda, queste vergogne del nostro sesso, vergogna! E la platea, intelligente quanto le signore, fischia quasi sempre e un uragano di insolenti recriminazioni investe quei tipi di passione e di dolore. Immoralità l'amore che ama il sole invece delle tenebre, che sorvola all'interesse, che accetta il sacrificio: immoralità ogni grandezza, ogni sincerità, ogni audacia! Le lumache che sbavano anatema alle rondini perchè invece di strisciare per terra strisciano pel cielo; le civette che stridono anatema alle aquile, perchè si posano sulle rupi vergini di orme plebee invece di appollaiarsi sui camini delle case: le mule che ragliano anatema alle zebre, perchè preferiscono i pericoli del deserto alle sante voluttà della greppia e della soma! Anatema all'artista, che non è borghese e non mutila i suoi tipi e le sue verità nella forma della borghesia e non tratta amori noiosamente ignobili come Goldoni, insipidamente immacolati come Marenco, predicatoriamente falsi come Ferrari — anatema a colui che lo approva fra la disapprovazione di tutti gli onesti, anatema agli scrittori francesi che hanno tutto quanto manca agli italiani, incominciando dal pubblico. Quindi in provincia Aleardi è un genio e Carducci solamente un ubbriacone: povero il poeta di quelle donne e gli siano lievi quegli applausi onestamente imbecilli! Quante belle educande uscite di convento coll'anima calda d'entusiasmo e di grandezza hanno dovuto assiderarsi, imbruttirsi nell'umido freddo di una città di provincia! Quanti studenti ritornati dall'Università colla testa tumultuante di idee si putrefecero come vino generoso in una padulosa cantina! Quanti depressi fra quei piccoli, quanti deformati fra quei deformi! Nè un grand'uomo, nè una gran signora, nè una grande idea possono vivere in provincia: o un villaggio o una capitale; i fiori crescono al sole o nelle serre, non in cucina. Negli ospedali anche gli infermieri, generalmente così robusti, diventano gialli quanto i malati a cagione dell'aria impura; ma in provincia l'aria è anche più infetta dalle esalazioni di tante passioni limacciose, di tanti cuori incarogniti, di tanti cervelli evaporati, di tante rivalità velenose, di tante putride vanità, di tanti cadaveri insepolti. Ecco la città di provincia: però queste pagine anzichè pretendere di esserne il quadro, sono appena un fondo scuro, sul quale l'autore muoverà i suoi burattini, che gli altri chiamano per ironia o per vanità i loro personaggi. CAPITOLO II Ohimè! neppure il mio specchio mi riconosce più! _Scene della Boemia._ — MURGER. «Al fiore che muore sul mattino la rugiada; all'anima, che muore sul mattino, l'arsura divorante del meriggio! «Il mio cuore era come una vallata alpina, bella di rupi e di abeti; adesso è un campo deserto, pel quale il cacciatore erra tormentando con feroce ingordigia i pochi virgulti e le messi malaticcie. Perchè l'uragano non avvalla dalle cime azzurrine della montagna a sperdervi questo ultimo aspetto di vita? «Oggi pure ho pianto. «==La palma, dice un proverbio arabo, deve avere il piede nell'acqua e la testa nel sole==così la palma fiorisce: anch'io ho i piedi nel pantano e il fuoco nella testa, ma invece avvizzisco: non ho più odori pel vento, non ho più rugiade, non ho più un uccello che mi addormenti col suo canto... non ho più nulla, perchè ho un amante! «Dove andarono i miei sogni di fanciulla, i miei dolori di sposa? Una volta ero una vergine dall'anima ancora più candida del corpo, dalle innocenti fantasie, dagli affetti ingenui e delicati: suor Maria era il vento che scherzava col mio bottone di rosa; era l'angelo custode che mi ratteneva un istante sulla soglia del mondo col fascino del suo sguardo... E io l'amai, prima senza sapere il perchè, dopo non volendolo sapere: era bella, era buona! «Sola nella mia celletta, la notte pensavo a lei ravvolgendomi nel suo amore, come in una coperta bianca senza ricami e senza frangia — le nostre non erano che carezze, cicalecci sommessi e prolungati: la sua mano che mi errava sul petto, la mia che se le insinuava fra le bende a scherzare coi capelli, uno sguardo che si spegneva in un sorriso, un sospiro che finiva in un soffio scherzoso... e lì abbracciate sopra una sedia, io sulle sue ginocchia, colla fronte calma appoggiata al suo seno tumultuante, un braccio intorno alla sua cintura; lì abbracciate finchè non mi addormentassi... Che cosa sarà adesso di suor Maria? Forse la santa infelice mi ama tuttavia e pensa alla sua infedele Mimetta! Dio mi ha giustamente punita di avervi obliato, suor Maria! Non sono più la vostra bella ed immacolata Mimy: se i miei capelli sono ancora biondi, la mia fronte ha un pallore più spento, le mie labbra sono impallidite più della mia fronte e il sorriso le ha abbandonate, come un'amica fastosa abbandona l'amica caduta nella a povertà. «Gettatemi addosso una coperta di fango, voi che mi avete uccisa, e lasciatemi dimenticare nel sonno della morte i dolori della vita... «Perchè vivere ancora quando non si crede più a sè stessi? Non credo più a me medesima, non sono più degna di amare: il matrimonio mi aveva macchiato il corpo, l'adulterio mi ha infangata l'anima. Dopo la brutalità di Carlo, la frenesia di Giorgio! Se le sue labbra fossero di fuoco e mi imprimessero sulle guance lo stigma di una tanaglia sarei meno repugnante ai suoi baci; ma sentire che fremo, che palpito malgrado il ribrezzo dell'anima, che le mie labbra si tendono per rendere il bacio... è un martirio troppo crudele. Mi dibatto come un naufrago nell'onda di quella impura voluttà e mi vi annego: prostituta! Perchè egli, così stravagante, non pensò mai a gettarmi uno scudo nel grembiale? eppure me lo sono guadagnato! Se quella notte fatale avessi pensato di cadere tanto basso, avrei chiamato Carlo arrischiando piuttosto di morire. La vita è più spaventosa della morte in certi casi. Oh! ella mi amava, ne sono certa: ella una donna più grande di tanti grandi che hanno monumenti per le piazze, si compiaceva in me povera fanciulla (come mi chiamerebbe adesso?) e voleva forse educarmi per sollevarmi fino a lei... «Povera e ingrata Mimy, hai preferito l'ostricone alla perla, un cardo a una rosa! «Mi è impossibile pensare a lei: penso meglio a suor Maria.» E appoggiando i gomiti sul tavolo stette col viso nelle palme: piangeva sommessamente, difficilmente, quasi avesse già esaurito il tesoro delle lagrime. Poi risollevò il capo e, senza tergersi gli occhi imperlati come una viola dalla rugiada, rilesse un foglio. A. MIMY. Hier couché à tes pieds je reposais la tête sur le doux coussin de tes genoux, et savourant ton beau sein mes yeux se baignaient de volupté et de douleur. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Les tresses blondes des cheveux se tenaient immobiles sur ton cou, et l'envie me rongeait le cœur. J'aurait payé leur place avec des jours de jeunesse pour enfouir mes regardes dans les bouffes de ton collet, blanc comme ta peau et aussi parfumé. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Mimy, tu es belle, mais les statues des tombeaux sont aussi belles et sans cœur: ta froideur me glace la vie dans le veines, et ma pauvre ame se meurt dans l'atroce delice de tes baisers sans amour. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Mimy, tu es belle, mais la jeunesse galoppe et la poussiere de la route retombe blanche sur ses cheveux: aimons jeunes et vivons d'amour comme la fleur de soleil et l'abeille des fleurs. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · — Galoppi, galoppi, mormorò con accento di profonda tristezza: quando sarò vecchia avrò cessato di amare e di soffrire. E seguitò leggendo. «Ieri notte mi parve di incontrare il raggio di quella stella, che amai bambina. Oh! la brillante amica aveva ancora il suo fulgido sorriso, ma la povera Mimy non potrebbe più ricambiarglielo. Bella nel suo azzurro, fra il suo popolo di stelle, eternamente, immutabilmente bella, il suo pallido viso, mi pareva proprio che avesse un viso, mi cercava con affetto di amica: i suoi capelli di una luce pallidamente bionda tremavano come agitati dal vento... Oh! la mia stella, non guardarmi neppur tu, perchè tu pure non mi riconosceresti... «Ciò che potrei dirti adesso è troppo diverso da quanto altre volte ti dissi nelle mie notti verginali, la tua luce è troppo pura per i pensieri che mi affaticano la mente; il tuo sorriso non può riposarsi sulla fronte di un'adultera. Solo quando sarò morta e il mio corpo ridiverrà puro divenendo cadavere, quando chiusa nella cassa di abete non potrò più rivederti... allora ripensa alla fanciulla, che un giorno ti amava e vieni a visitare la sua tomba — non sentirò più la pietà del tuo raggio, non importa! vieni egualmente, riposati sul mio sasso e compiangimi. «Dio, perdonami l'audacia del lamento, ma fu errore farmi nascere donna! Perchè creare un giglio e riempirne il calice di profumi e di rugiade per satollarne il grifo dei porci? Perchè macchiare di tinte così belle il dosso della mosca e darle un'anima così allegra per perderla poi nella rete del ragno? «Povera la mia bellezza, il solo amore che mi consolava! Talora vorrei quasi avvolgermi le treccie al collo e strangolarmi... rendermi almeno orribile, schiacciandomi il viso, e invece il dolore, spietato come un uomo, mi fa più bella. Se domani mi levassi brutta come Carlo, la marchesa proverebbe un fiero dolore, ma si consolerebbe perchè nulla più della bruttezza toglie la poesia al dolore e non si può essere più fedele a un mostro che ad un cadavere; si consolerebbe con un'altra fanciulla più bella, e nel fondo della mia miseria potrei confortarmi della sua felicità. Invece se apprenderà che l'ho tradita per Giorgio, posponendo lei bella come deve esserlo Dio per contentare i propri angeli, ad un uomo il quale malgrado ogni orgoglio le si confessa inferiore: che la ho tradita dopo essermele tacitamente promessa... nella giusta amarezza del suo amore dovrà maledirmi... e le avrò aperto nel cuore una piaga insanabile.» Si arrestò pensierosa: sulla fronte contratta le passò una nuvola bruna. Era sola nel suo gabinetto, vestita di un'ampia vesta azzurra, coi cordoni pendenti sui fianchi, senza nè orlature, nè ricami: così la pallidezza del suo viso e il biondo de' suoi capelli parevano più vivi. Sembrava molto più bella ed afflitta che al tempo della villeggiatura. Entrò Giulietta annunciando la marchesa di Monero. — Non è possibile! — Ma oggi è giorno di ricevimento! rispose la cameriera meravigliata di quella meraviglia e del rossore, che le aveva colorate improvvisamente le smorte guance. È necessario sapere che a Bologna ogni famiglia borghese e anche qualcuna che non lo è, consacra un giorno della settimana al ricevimento, magnifica parola che odora di corte; e quindi la padrona si veste colla massima eleganza, accende la stufa nell'inverno, socchiude le imposte nell'estate e aspetta seduta nella sua poltrona coll'indolenza di un dio indiano gli omaggi e le dissertazioni degli avventori sull'ultima neve, sul caldo insopportabile, sul prezzo di un abito alla moda comprato da una signora o sopra un voto del consiglio comunale circa le scuole o la nettezza pubblica, se la signora si occupi di alta politica. — La marchesa! ripetè Mimy levandosi; ma in quella la marchesa presentavasi sulla soglia dietro Giulietta, che si ritirò per lasciarla passare. Si mossero incontro; Mimy sempre arrossendo s'imbarazzava sino a dimenticare i più volgari convenevoli; ma la marchesa parve non avvertire quel disordine e, sedendosi sul divano, obbligò Mimy a seguirla. — Vi ricordate l'ultima volta che sono venuta? le chiese colla sua voce più limpida. — Un mese oggi. — Avete un'eccellente memoria; e la guardava fisa, ma il suo sguardo, nel quale un fino osservatore avrebbe distinto una certa durezza mal definibile, s'intenerì a quel pallore tanto spento e allo sguardo di quegli occhi cerulei, ai quali un tenue cerchio turchino accresceva il fascino melanconico. — Forse che sareste ammalata o lo foste? — No. — Eppure vi trovo deperita. — Può darsi, mormorò lentamente. — Che cosa pensereste, riprese la marchesa, se fossi venuta a dirvi che parto? — Quando?! — Forse a giorni. — Partite... — Vi pare strano? — Oh! a me... Impallidì ancora più e le cadde la testa sul petto, senza moto. — E va bene, disse poi sordamente, alzandosi quasi per dissimulare l'emozione. Le tese la mano. — Mi salutate! Avete dunque fretta che parta? A queste parole piuttosto scherzose che ironiche Mimy accennò di svenire: una nube le passò sulla fronte, socchiuse gli occhi e sarebbe caduta se la marchesa non la reggeva per la mano: però fu un lampo: con uno sforzo violento si rimise e liberandosi la mano: — Io sarò forse deperita, ma voi, signora marchesa, siete diventata cattiva. La marchesa fe' un gesto di trionfo, che l'altra non vide essendosi rivolta alla finestra per nascondere una lagrima. Un impaccio stravagante pesava sul loro dialogo, come fossero ognuna malcontenta dell'altra o temessero di passar oltre scendendo alle confidenze: parlavano ad intervalli e a stento: ogni parola era una allusione, un baleno che sfuggiva ad una nuvola carica di elettrico. La conversazione si riappiccò, o meglio la marchesa cominciò a parlare colla solita disinvoltura, ma i discorsi le venivano suo malgrado malinconici: sorrideva e non finiva il sorriso, e dopo qualche minuto ancora di sforzi le parole si fecero più rare e più scure. — Non ritornerete mai più, le rispose Mimy a una domanda sul vicino carnevale. — E se ciò fosse, credete che molte persone mi faranno la medesima domanda o la ripeteranno quando sarò partita? Bologna è una città ben brutta, sebbene il signor Thiers dica che è ben costruita, e le sue donne sono degne della città: vi ha certo qualche eccezione, la principessa di San Marciano, la marchesina Del Pino, ma Bologna è una città che si può lasciare senza rammarico, quando nessuno in essa vi ricordi. — Nessuno: ne siete sicura? — Mio Dio, no: certo si parlerà un pezzo di me, de' miei equipaggi, della mia mora: si pretenderà di conoscere la mia vita, s'inventeranno forse romanzi sul mio conto, poi un altro scandalo, perchè qui io sono uno scandalo, verrà a rubarmi l'attenzione degli oziosi: sarò una ricordanza che si richiama per un paragone, per un frizzo... poi non sarò più nulla. Mimy si strinse la fronte. — Avete ragione, e accentuava singolarmente le sillabe: è una follia pretendere di fare sopra un'anima, per quanto grande, tale impressione che solo la morte la cancelli... eppure è una ingiustizia! Che siamo passeggiere sulla terra, poco importa; il mondo non è abbastanza bello per inspirare il desiderio della immortalità, ma che le passioni siano in noi passeggiere, che nella vita non possiamo attaccarci solidamente a un amore, a una speranza...; ma allora spiegatemelo voi, — insisteva con una esaltazione crescente, — voi, signora marchesa, che siete una donna superiore, perchè il cuore crede alle passioni che sente e adora quelle che desta, se queste morranno assai prima di quelle? — Non so. Poi si levò lentamente andando al tavolo sul quale era rimasto il manoscritto, lo prese senza che l'altra assorta se ne avvedesse: e leggendo ove prima le caddero gli occhi, pronunciò ad alta voce: «Se un angelo venisse in una delle mie notti insonni a dirmi: Vuoi tu amare sulla terra, e il tuo amore lo vuoi felice o infelice? Credo che esiterei lungo tempo prima di rispondere, e forse non mi deciderei nè per l'uno, nè per l'altro: vorrei che il mio amore fosse molto la felicità della persona amata e quasi altrettanto la mia infelicità, perchè nessuna passione deve essere più voluttuosa di soffrire e sentirsi morire inebbriando l'amante.» — È vostro questo pensiero? è pur delicato! e proseguì: «Vorrei morire di questa passione, morire giovane, morire lentamente, ma sopratutto morire bella, perchè l'amore dell'amante non si affievolisse colla mia vita e consolasse il mio tramonto primaverile col voluttuoso tepore del suo meriggio — vorrei morire innamorata per non sopravvivere al mio amore e per farmi del suo il lenzuolo da riposarvi mollemente tutta l'eternità. Moribonda, sorriderei fissandomi nel suo volto, come un fiore s'incanta nel sole che lo ha ucciso a forza di baci. Bianca sopra un letto tutto bianco, un po' scarna, i capelli un po' in disordine, la mano secca e nervosa serrata nella sua: morire un vespero senza nessun altro nella camera, nè rumori al di fuori, nè raggi di sole che insultassero colla pompa del loro splendore alla calma di quel silenzio e di quella ombria: morire per avere troppo amato, per aver fatto troppo godere, per avere troppo goduto, non trovando modo di espanderla la voluttà del vostro cuore: morire per seppellire seco tutti i tesori di bellezza e di passione, per assaporare nella stanca impotenza del senso la voluttà della morte dallo strazio dissimulato dell'amante....» Durante la lettura Mimy aveva più volte mutato di aspetto: il pallore più spento, il rossore più vivo le si erano avvicendati fuggevolmente sul viso; più d'una volta aveva dovuto mettersi una mano sul cuore per frenarne i battiti troppo violenti ed impedire alla vita di smarrirsi: anelante, esterrefatta seguiva cogli occhi gli occhi della marchesa, tremando sempre che all'incontro di una parola si rivolgessero verso di lei e l'interrogassero. Avrebbe sofferto non so cosa per distruggere quel manoscritto, incauto confidente de' suoi dolori, ma la commozione troppo violenta non le lasciava forza di strapparlo di mano alla marchesa, nè tampoco di chiederglielo. In quell'ansia Mimy perdeva la ragione, e ciò era tanto più spaventoso, che nella faccia pareva calma, attonita nella marchesa. Questa si rivolse, e abbassando il manoscritto con atto di scoraggiamento: — E dire, mormorò, chè un uomo avrà inspirato tanta poesia e tanta passione ad un cuore di donna! — Un uomo! ripetè scattando dal divano e accostandosele con passo quasi di belva senza perdere di vista il manoscritto. — Mi sarei ingannata, o sarei troppo indiscreta chiedendovi il suo nome? Deve essere un uomo molto bello, perchè questa morte vagheggiata tenendolo per mano non somigli ridicolmente a una morte volgare con un marito o un prete al capezzale. Vorrei essere la vostra migliore amica per sapere il suo nome. — Il signor conte De-Vinci, rispose Giulietta affacciandosi dopo aver bussato inutilmente alla porta. Le due donne si scambiarono un'occhiata luminosa: la marchesa di rimprovero, Mimy di disperazione. — Non sono in casa per nessuno: mi pare che ve ne avevo avvisata. E mentiva ingenuamente: quel giorno era di ricevimento. — Scusi, signora, si scusò impaurita all'insolita maniera la fanciulla, ma il signor conte è arrivato col signor Carlo, e mi hanno ordinato di annunziarli. Mimy abbassò il capo. CAPITOLO III Josè, repondit-elle, tu me demandes l'impossible: je ne t'aime plus, tu m'aimes encore... Je pourrais bien encore te faire quelque mensonge, mais je ne veux pas m'en donner la peine. _Carmen._ — MERIMÉE. — Il mio giornale! esclamò udendo rumore nell'anticamera. — Il vostro giornale... ripetè la marchesa, fissandola con occhio scrutatore. — Datemelo, datemelo! insisteva torcendosi le mani con aria di sì pietosa desolazione, che lo ottenne; ma quasi troppo tardi, che potè appena insinuarlo nel cassetto, mentre Carlo e Giorgio scostavano il cortinaggio della porta. Si avanzarono sorridenti, Giorgio verso Mimy e Carlo verso la marchesa. — V'ingannate, questa gli rispose ad un complimento susurratole a bassa voce: ero venuta dalla signora Mimy, e la guardò che rimaneva seria al saluto allegro e leggermente trionfale di Giorgio. Vi fu d'ambo le parti uno scambio di insipidezze, e finalmente Elisa si levò. — Mi lasciate? le disse Mimy, accostandosele cogli occhi sbarrati. — Sì: debbo provare una romanza giuntami stamane da Parigi: ritorno a casa; d'altronde, sono stanca. — Di me? — Oh! non sono vostro marito, nè un avvocato io per stancarmi di una persona così bella quando la possedessi. E così parlando si riadattava il cappellino elegantissimo con una orlatura di martora su velluto nero. — Mi permettete di accompagnarvi? le chiese Carlo intanto che Mimy andava a prenderle il manicotto da una poltroncina: ve ne prego, aggiungeva sommessamente. — Quando la signora Mimy lo permetta, e la fissò; ma la povera fanciulla non sostenne l'occhiata e abbassò gli occhi accarezzando il manicotto. Carlo e la marchesa si mossero. — Ringraziatemi, le disse questa sorridendole un ultimo addio: non vi lascio sola. Mimy rimase colla tenda in mano e seguitò a guardare per la porta, che l'altra era già scomparsa. Allora Giorgio, rimasto estraneo a questa scena così indifferente d'aspetto e viva d'interesse, le si avvicinò sulle punte dei piedi e abbracciandola strettamente per la cintura: — Sola! ripetè, come l'eco dell'ultima parola della marchesa, della quale s'intese la carrozza rotolare sordamente sulla strada nevosa. Ella lo guardò senza rispondere. Giorgio e Mimy erano dunque due amanti, poichè si avevano l'uno e l'altra, e il mondo che incredibilmente vecchio è da lungo tempo positivo, li avrebbe, conoscendoli, giudicati per tali — li conosceva e così li giudicava: amanti non importa se di anima o solamente di corpo. Ma in fatto Mimy non amava Giorgio, almeno come credeva che avrebbe amato amando: ed egli invece l'amava meglio che non lo pensasse e dicesse malgrado l'esaltazione di certe lettere ad Anselmo, che sentivano la smania di autore. Quella donna era troppo delicata per abbandonarsi con voluttà all'uragano di un amore maschile: la quercia si rialza con sibilo beffardo sotto il soffio dell'aquilone, mentre la rosa invece vi si sfoglia: la cavalla di razza s'inpenna superba sotto lo sprone del cavaliere, ma l'agnella si accascierebbe se il pastore volesse montarla: Giorgio in questo caso era il pastore. Ella soffriva ancora più di questo secondo amore di Giorgio, che del primo amore con Carlo. Giorgio, essa lo ammetteva, era bello per un uomo: ingegno di filosofo, cuore di poeta, eleganza di artista, una scioperataggine di epicureo, una vita tempestosa sibbene vuota di avvenimenti: una agitazione febbrile in tutte le azioni, una superiorità aristocratica su tutte le persone, una disperazione latente che si scopriva tratto tratto in uno slancio lirico: tutte queste qualità e questi difetti lo rendevano un amante ideale e quasi da romanzo, molto più che a Bologna era il re della moda e tutte le signore dell'alta società si disputavano la sua corte o almeno un suo elogio — era bello nell'anima e anche nel corpo, nonostante la mediocre purezza delle sue forme vaghe di quella inesprimibile eleganza, che l'arte non ha saputo ancora rendere ed è la più irresistibile di tutte le seduzioni: era bello e non lo amava: anzi si dibatteva nel suo amore senza la forza di liberarsene. Quella passione egualmente sfrenata nella voluttà che eccelsa nel sentimento la commoveva a suo dispetto: il vento la investiva sollevandola in alto in alto, ma appena quietava, ella ridiscendeva in sè medesima e la coscienza la rimordeva di essere lo zimbello e il carnefice di una passione non contraccambiata, dopo di aver tradito un uomo per un altro uomo. Allora la bella infelice scoppiava in pianto, o aprendo il giornale, di cui già leggemmo qualche pagina, cedeva al prestigio del suo eterno pensiero di amore, e scriveva. Nè a Giorgio, poeta e uomo di spirito, era sfuggita quella inquieta preoccupazione. — Mimy, le disse un giorno, che la sorprese in lagrime, Carlo ti rende infelice: vuoi abbandonarlo? Andremo in Svizzera, starai sempre meco. Senonchè Mimy per risposta si era sforzata a rattenere le lagrime e non si era più mostrata piangendo. Ma Giorgio non si appagò; stranamente infelice egli medesimo, ovunque sospettasse un dolore nascosto lo perseguiva forse per una misteriosa affinità, forse per l'egoismo di non essere solo a patire: e questa volta la lusinga era tanto maggiore che, per servirci di una sua espressione, quel dolore era un velo, dietro il quale si celava la parte migliore di Mimy. Quindi le era sempre intorno per indovinarla, ma ella se ne accorgeva, si schermiva, e come donna vinceva. Tutto era vano; generalmente Mimy finiva col sorridere mestamente al suo armeggio, e quando lo vedeva stanco, gli stringeva la mano per compenso e si lasciava baciare. Una volta egli toccò della marchesa, dicendole che ne era innamorata: Mimy vi convenne troppo facilmente, ed egli non vi pensò altro. In questa guisa durava da qualche tempo; il carnevale era vicino. La marchesa veniva raramente da Mimy; Giorgio quasi ogni giorno e più di una volta; Carlo non si accorgeva di nulla come marito e come innamorato di Elisa, che lo teneva al guinzaglio come un orso, facendolo ballare con un complimento o un epigramma. Ma già cominciava a susurrarsi di questa simpatia dei due cugini, e poichè Mimy era molto bella e Giorgio il re della moda, signore ed eleganti vi si interessavano mordendo così, che con tutto il suo spirito egli stentava non poco a fronteggiare quell'armata di calunnie e di pettegolezzi. Ella non usciva più dal suo appartamento. Lo aveva tutto rinnovato con gusto abbastanza artistico per la modica somma e una città come Bologna: le pareti erano in mussoline persiane, le tende in lana, i mobili di acajou e in seta, gli intagli non dorati; aveva un gabinetto color di rosa, soffice, femminilmente soave, e una camera da letto di un azzurro cupo e severo — ecco tutto: passava spesso le intere giornate nella camera da letto seduta sopra una lunga poltrona ricamando, leggendo o meditando. Ogni giorno si faceva più pallida e più bella: molle della persona come una Ondina, dimagrando insensibilmente perdeva in mollezza e guadagnava in sentimento: e poichè l'istinto del bello e della civetteria è inestinguibile nella donna, aveva cangiata pettinatura accomodandosi i capelli lisci sulla fronte come le madonne e lasciandone cadere sulla spalla un riccio mal inanellato o una treccia incompiuta. In quella camera riceveva Giorgio. Aveva fermamente rifiutato i convegni in un'altra casina, come sogliono usare gli amanti, perchè mettere all'amore l'orario e il domicilio, le sarebbe parsa l'ultima degradazione. — Perchè non tieni qualche vaso di fiori? li ami tanto e ti somigliano tanto! le aveva dimandato un giorno, che ella era più triste. — Forse per vederli appassire con me? — Sei troppa afflitta: non mi ami più. — Avete pur detto che amo i fiori, e lo guarda con un sorriso, di cui lo scherzo nascondeva male l'ironia. — Non mi ami, aveva ripetuto, ed era uscito. Quel giorno invece Giorgio era più allegro e innamorato del solito: la teneva abbracciata sul divano e, coprendola di carezze palpitanti, si fermava di quando in quando a guardarla come un artista: ma ella inquieta non gli badava, anzi, ritraendosi troppo bruscamente ad un suo atto, gli fe' battere la testa sul dosso del divano. — Mimy! esclamò stupito. Poi, lasciandosi scivolare, le si accovacciò a' piedi. — Vediamo se hai cuore di respingermi; ti converrà farlo col piede, e prendendogliene uno nel pugno, le trasse la pantofola di velluto cremisi cogli orli di seta rossa e se la mise al di sopra della spalla sul cuore. Non mi vuoi bene? non importa: ti amo per me e per te, e se il tuo cuore è più piccolo del tuo piede, il tuo piede è così bello che mi compenserà del tuo cuore. Cattiva! te lo leggo negli occhi — adesso, se non mi odii, mi disprezzi: vuoi provare una voluttà veramente femminile? calpestami. Sei abbastanza bella, così pettinata, per sembrare una madonna: io farò da dragone. Calpestami: ti giuro che non proverò minore voluttà di te: anche l'abbiezione, sai, ha la sua ebbrezza... — Ma, Giorgio! mormorava cercando di ritrarre il piede. — No. — Sii ragionevole. — O il piede o tutto. — Il piede dunque, e le sfuggì un gesto di dispetto. Giorgio si levò sulle ginocchia. — Ma è proprio vero che non mi ami? Mimy rivolse lo sguardo. Giorgio si era fatto cupo, Mimy grave: le sedette a fianco, e con sforzo visibile per parlare cominciò lentamente: — Non mi avete dunque mai amato... è dunque vero? Qualche volta ne ho dubitato, ma era un dubbio troppo atroce per potermivi fermare. Siate almeno generosa... ditemi qual è il vostro ideale e vi prometto di raggiungerlo. Ma queste parole sono stupide: voi, che non mi amate, ne ignorate voi stessa il perchè. Lo so che sono brutto, senza gloria, che non posso offrire nessuna corona alla vostra vanità — che siete troppo bella per me... Mi amate! esclamò improvvisamente; non è vero che mi amate? E prendendole le mani la forzava a rispondere. — Giorgio.... — Io voglio essere amato: lo esigo. Badate: mi attaccherò al vostro amore come un naufrago: vi farò affondare meco se non mi amate. — Questa la credete una minaccia? Giorgio indietreggiò: lo sguardo di Mimy aveva una strana limpidezza. — Spieghiamoci, disse dopo una pausa. Non mi amate? — È vero. — Che! e si cacciò le mani nei capelli spingendole il volto sotto il volto. Mimy resistette. Allora si levò e mosse qualche passo su e giù per la stanza tutto sconvolto. La donna lo seguiva cogli occhi nè spaventata, nè intenerita da quella esaltazione vicina alla follia. Poi egli si calmò, almeno in apparenza, ed arrestandosele innanzi: — Tutto sarà finito? — Tutto. — Impossibile! — Questa volta vi sfido. — E se mostrassi le vostre lettere a Carlo? è un'infamia, ma ne sarò capace per conservarvi: mi siete indispensabile più della vita, più dell'onore. — Le ho firmate appositamente. — Non mi sferzate: sarò capace di tutto se mi abbandonate. — Minacciate?... riprese Mimy pigliando forza dalla resistenza. Tanto meglio! mostrategliele quelle lettere, proseguiva con voce sibilante, e aspettate a mostrargliele in un giorno di cattivo umore: egli non avrà il coraggio di uccidermi, nè voi quello del suicidio, quando non sarete più il mio amante. — E chi lo sarà in vece mia? — Nessuno. — Non amate? — Amo. — Chi? il suo nome? parola di gentiluomo giuro di rispettare il segreto. — Amo una donna, e scoppiò a ridere nervosamente, abbandonandosi sul divano col viso nelle palme. A questa scappata, che suppose una beffa, così il riso l'accompagnava, Giorgio fe' un atto di disperazione. — Non insultate, Mimy; perchè mi uccidete. — Senza farvi morire. Voi parlate sempre di morire e siccome avete ingegno ne parlate bene, ma avete più senno e non ne fate nulla. Andate là che non mi avete mai amata e non soffrirete molto: vi lamentate troppo per essere infelice: il dolore è muto. Mimy era sfinita da questa scena, la più violenta della sua vita, e si accasciò sopra sè stessa. Era meravigliata della propria energia. — Ah! non vi amo, ruggì Giorgio: datemi un bacio. — No. — Datemelo... ebbene, aspettate: corse alla stufa, ne apri lo sportello, vi mise dentro la mano guantata, e afferrando un carbone acceso se lo pose sull'altra palma: poi ritornando a lei, spaventata da quella nuova pazzia: — Il bacio! esclamò pallido di passione e forse anche di spasimo: vi prometto di lasciarmi spegnere questo carbone sulla mano: e il guanto riarso lasciava già scoperta la pelle. Mimy si levò per farglielo gittare, ma egli cingendola col braccio libero ed allontanando l'altro le impresse un bacio sulla bocca, lungo, disperato; le carni fumavano senza che vi badasse, e Mimy commossa da quella prova di amore s'imbiancava in volto, socchiudendo gli occhi. — Mi amerai? — No. — Lo voglio, — No. — Guarda: e riafferrando il carbone, che ardeva tuttora sul tappeto: guarda, ripetè, e se lo insinuò nel corpetto: adesso vienimi sul petto e schiacciamelo nelle carni: ti lascerò quando sarà spento: e accompagnando le parole col fatto le gittò improvvisamente le braccia alla cintura e strappando robustamente la rovesciò sul tappeto. — Cavati quel carbone. — No: se non cedi. — Giorgio! — T'amo. — Giorgio! Senonchè il dolore fu più forte della volontà, e pigliando il carbone al di sopra del corpetto dovette soffocarlo, mentre Mimy anelante, vinta, cessava di resistere. Dieci minuti dopo ella gli prestava il fazzoletto di battista finamente ricamato per fasciare una piaga nerastra al costato sinistro e apriva le finestre, perchè esalasse il puzzo di bruciato. Giorgio pareva un cadavere. — Addio, le disse tendendole la mano in un abbattimento mortale. — Addio... Egli uscì tenendosi una mano sulla ferita: ella rimase in mezzo al gabinetto. — Partirà, mormorò cacciandosi le mani nei capelli; poi abbassando la voce quasi per non udirla essa medesima: — Vile! un altro spergiuro. CAPITOLO IV Perchè le vedove sono più belle delle fanciulle? Si è detto: l'amor vi passò: Michelet corregge: l'amore vi è rimasto — ne l'uno, nè l'altro. La superiorità della vedova sulla fanciulla è la stessa che del libertino sul collegiale, giacchè l'ingenuità per quanto vezzosa non vale lo spirito: e la vedova conosce sè medesima e il mondo: è dotta nella galanteria, artista nella voluttà. Passando per tutti gli stadii della vita, la sua personalità si fece perfetta e adesso lusinga maggiormente l'orgoglio della conquista. Una fanciulla si prenderà forse per sorpresa, una vedova bisogna pigliarla di assalto: onde se la battaglia è per l'uomo una necessità e una passione, val meglio conquistare nella vedova una città opulenta, che nella vergine un villaggio alpestre e primitivo. _La Donna_, Opere inedite. OTTONE DI BANZOLE. Dappertutto l'amore è sempre l'amore: voce o eco, fiore o fronda, fiamma o bracia, voluttà di sensi o voluttà di fantasia, passione di testa o passione di cuore; dappertutto l'amore è sempre amore. Se la vita è un sentiero, vi batte come ombra o come sole; e seduti o in cammino, distratti o attenti, l'amore ci avviluppa e ci penetra — le sue vampe saranno più o meno ardenti, la sua frescura più o meno viva, ma finchè la nostra fronte può alzarsi verso il cielo non le evita, e nullameno quelle non hanno fecondità, nè queste ristoro. I suoi raggi accendono la febbre e offuscano gli occhi; le sue ombre addormentano la ragione e intirizziscono la volontà: e l'amore diffuso intorno a noi come l'aria e la noia, è necessario quanto l'una a mantenere la vita, quanto l'altra ad irritarla. Nulla al mondo, dacchè la intelligenza vi apparve e la parola vi suonò, è stato più lodato dell'amore; la fantasia che prima lo adorava nel senso lo prestò alle adorazioni della ragione; questa più matura lo respinse e allora l'altra fattasi arte lo reimpose e vinse. E dovunque l'amore, sempre l'amore — ieri come oggi, oggi come domani. Statua di cristallo, che il sole fa luccicare, poichè luccica pare più preziosa che di marmo, ma col tramonto del sole perde ogni seduzione: eterna antinomia dell'amore, che non esiste se non stimandosi divino e non è più nulla se cessi di essere voluttuoso! Togliete l'amore all'anima, e le spegnete ogni luce; abbandonate l'anima all'amore, e la sua vita invece di essere un cammino di conquista sulla terra, diviene una gita inutile entro una gondola sulla corrente di un fiume — giovani, amate coll'entusiasmo confidente del mattino; maturi, col torrido ardore del meriggio: vecchi, colla tremula mestizia del vespero... e poi? Le braccia che strinsero trepidanti lo stupendo fantasma si stringeranno vuote al petto: avrete amato invano, invano goduto, invano sofferto, e sedendovi sul margine della fossa che vi aspetta, mormorerete un'altra parola egualmente vuota ed incomprensibile dell'amore — nulla! Povero ed immutabile destino... Ebbene, non importa — amate, amate tutto ciò che brilla, che sorride, che canta: amate l'idea che s'invola, il fiore che odora, il vino che freme, la donna che mente: amate il sole che vi matura per la tomba, amate la natura che vi si ringiovanisce dintorno mentre invecchiate, amate la bellezza che vi inebbria e non vi soddisfa, amate la vita che vi fugge, amate la morte che vi cerca. Ah! amate, perchè l'amore è oblio, e quando la tempesta imperversa e la nave scricchiola prossima a scompaginarsi, piucchè una tavola cui rattenersi, sarebbe il sonno un dono inestimabile. Forse l'amore non sarà che illusione, ma l'orizzonte esso pure non è bello se non perchè una illusione — e l'illusione si deve contemplare, non studiare! Non per nulla il poeta ci disse: che Dio ci vegliava dietro le cortine del cielo: tutto che seduce è mistero, tutto che veramente sublime è invisibile... — Perchè l'inno che incominciò col singulto della beffa finisce adesso coi fremiti dell'entusiasmo? poeta, poeta, la tua lira è più incostante della donna, e invece di tormentarla colle dita convulse ti converrebbe assai meglio farne un guanciale alla testa pazza e dormire... La carrozza della marchesa era tappezzata di seta azzurra; la sua atmosfera e il suo colore contrastavano così voluttuosamente col bianco e col freddo della neve che l'avvocato assorto nel piacere di essere vicino a quella donna non pensava quasi più. E siccome la neve consigliava al passo le cavalle meklemburghesi, la lentezza del procedere sembrava aumentare il significato di quel silenzio: la marchesa stava rannicchiata in un angolo con una mano nel manicotto e coll'altra sguantata accarezzandone il pelo. — Ma signor Carlo, esclamò, m'impazientite! Egli si scosse dalla sua posa volgare. — Non sapete che tacere; forse per un avvocato sarà un merito singolare, ma con una donna è noioso. Carlo la guardò negli occhi per meglio comprendere, ma la luce fosforescente di quelle pupille nella penombra lo abbagliò. — È vero: vicino a voi, signora marchesa, mi riesce più facile tacere che parlare. — Forse tacendo mi sentireste meglio? — Forse... La marchesa si rizzò allora indolentemente sul busto ed appressandogli il volto al volto lo fissò con intraducibile espressione. Carlo fremette ed ella socchiudendo gli occhi, quasi le sfuggissero le parole: — Forse! avreste dunque altrettanto cuore che ingegno? — Ah! e voleva prenderle una mano, ma la marchesa erasi precipitata allo sportello chiamando col dito un giovane signore, mentre coll'altra mano tirava il cordone della livrea al cocchiere. All'avvocato sfuggì una smorfia di dispetto. — Signor marchese, ella diceva al giovanotto, cui aveva già dato la mano senza pensare a ritirarla: a quando la nostra trottata? — A quando vorrete, ma con questo tempo... — Riuscirà più bella: romperemo la neve; l'avete pur rotta a piedi per venire fin qui: e osservò la sua traccia. Il giovane sorrise colla grazia di una donna e, voltandosi egli pure, le accostò maggiormente il viso e le susurrò basso basso, che Carlo non potè intenderlo. — Mi romperei anche la testa per voi. — Avreste torto, è troppo bella. Indi: — A domani mattina! — L'ora? — Sulle dieci. — Verrò al vostro palazzo. — No: ci troveremo fuori di porta Castiglione. Il giovane le strinse la mano visibilmente lieto e si allontanò. La marchesa si rigettò nel fondo della carrozza e il cocchiere spinse le vigorose cavalle a un trotto serrato. Passarono sulla fronte del Pavaglione, dal quale molti eleganti, che si annoiavano elegantemente in quell'ora, salutarono con altrettanta affettazione che premura; quindi voltarono pel Mercato di Mezzo, una specie di vicolo, e sfiancando dalle due torri infilarono via San Vitale fino al palazzo Fantuzzi: un palazzo, che non ha se non la facciata e barocca. Pochi saprebbero dire a quale scuola appartenga la sua architettura, piccola e pesante: le finestre vi sono quasi maggiori delle porte; sopra le finestre spiccano rilevati varii elefanti grandi come un maiale colla solita torre sulla schiena; il muro è scannellato, a quadroni come le colonne, e un cornicione quasi leggiero e molti scudi qua e là non effigiati coronano il tetto. Salirono lo scalone signorile nell'ampiezza e pieno di statue di gesso; quindi la marchesa fe' accompagnare l'avvocato da una cameriera nella gran sala, dicendogli che tarderebbe poco a raggiungerlo. Egli traversò due anticamere arredate con gusto molto antico e si fermò nella sala, vasto stanzone del seicento ammobiliato con un lusso e una severità, che il nostro secolo non conosce più. Il soffitto ad intagli ancora vivamente dorati e seminati di rosoni s'apriva nel mezzo a nicchia per accogliere una donna dorata, che sosteneva con braccio forse troppo esile per sì enorme fatica un grosso lampadario di Murano; molti mobili di quercia intagliati s'appoggiavano alle pareti o sorgevano nel mezzo: mobili che avevano sfidato trionfalmente più di un secolo e più di una moda — e trionfavano ancora, massime un divano, che sembrava guardare compassionevolmente due piccole poltrone moderne di velluto: sui vasti tavoli si alzavano più vasti e limpidissimi specchi riflettendo vasi e statue di bronzo, ma fra tutti quei ricchi oggetti il più stupendo era un orologio di ottone a torre fra molte copie in marmi rari delle rovine del foro romano. Molti ritratti più preziosi nella cornice che nella tela pendevano dalle pareti, e un gran camino di marmo nero si apriva di contro alla porta, fra due finestre colle tende di damasco rosso e una gran sedia da un lato più simile a un trono che a una cattedra. Il salone ricco severo doveva diventare quasi fosco quando le tende abbassate vi rabbuiavano la luce già scarsa. Carlo, che vi era stato molte volte, non si guardò nemmeno attorno: attese sfogliando un album. Sentì entrare la marchesa e le mosse incontro. — Non andrete a quel convegno? le domandò con ansia. — Quale? — Col marchese Del Pino. — Ci andrò: una magnifica passeggiata sulla neve ancora vergine delle vostre colline. Poi Del Pino ha spirito e, permettetemi, ciò a Bologna è abbastanza raro perchè possa interessare. — E se vi supplicassi di non andarci? — Voi!... L'avvocato trasalì. — Vi offro un altro spettacolo; domani ho una bella causa all'Assise, un mistero; una donna che adorava suo marito e che lo ha ucciso. L'accusata è giovane, quasi ancor bella: è un gran carattere, perchè ha ricusato di narrare la più piccola circostanza, e alle mie rimostranze, che il silenzio poteva perderla, si è stretta nelle spalle. Io difendo la sua testa: venite a sentirmi. — Sperate di vincere? — Sì, se venite. — Fanciullo! — Venite e vi giuro di essere eloquente. Quella donna è vittima di una grande passione; non vi è più delitto dove entra la passione. Io svilupperò questa tesi, e i giurati, che sono uomini e non giudici, mi daranno forse ragione. E si fermò quasi per afferrare i capi da svolgere nella difesa. Se venite, forse le salverete la vita. — Potrebbe essere un triste regalo. — Del Pino, mormorò Carlo con uno scoraggiamento, nel quale sentivasi tuttavia molto orgoglio, avrà dunque più spirito che io non abbia ingegno! La marchesa non rispose e si accomodò un riccio sulla fronte. Chiusa nell'abito di velluto nero, la sua persona forse un po' pingue, un difetto che avrebbe rapito di ammirazione Tiziano e Rubens, aveva in quella attitudine una sveltezza assolutamente nuova, che la ringiovaniva senza farle perdere i pregi della maturità: un collo stupendo, il seno gonfio, la forma di un braccio che si disegnava, un piccolo piede che spuntava dalla veste, e due mani così morbide e nervose, che promettevano carezze insopportabili nella voluttà — e dal volto una espressione di saffica poesia, che le pioveva sul corpo avvolgendolo come in una luce... Era impossibile guardarla, esserle vicino, toccare colle pupille l'opaco pallore di quelle carni, sfiorare il turgore di quel seno, contemplare quella faccia così nobile e così cortigiana e non amarla subito, irresistibilmente... Forse un osservatore abbastanza vecchio per mantenersi calmo avrebbe sorpreso qualche civetteria nella posa e qualche studio nella espressione, ma erano egualmente irresistibili e bisognava sentirle anche non credendovi. Carlo invece credeva. Le prese audacemente una mano: — Non lo amate, no? — Amate! ripetè quasi svegliandosi da un sogno. Chi parla di amore? siete voi! — Sì: non lo amate? — Amate! quale strana domanda! forse che nel mondo si vive e si muore di amore? Si coglie un fiore, si odora, si gitta — ecco tutto, e voi parlate di amore... — Non lo amate? insisteva. — E voi? gli rispose con un sorriso, nel quale lo scherzo non vinceva la spossatezza voluttuosa. Si fermarono. — Io vi amo, soggiunse timidamente. — Lo so. — Non mi crederete? — Mai. La sua voce vibrò possente pronunciando questa parola, ma gli occhi non l'imitarono. — Sapete perchè sono venuta dalla signora Mimy? per dirle che parto a giorni e che tornerò ad abbracciarla prima di lasciarci per sempre. — Partite... — Ebbene: suggeritemi dunque un altro partito invece di meravigliarvene; che cosa debbo fare a Bologna? Del Pino mi ha detto: andate a Parigi, e voi? voi, lo interruppe, mi dite per antitesi: restate. Che cosa farò a Bologna, ove non vi è che un salone, quello della principessa di San Marciano, la quale partirà probabilmente ella pure per Roma? Qui sono uno scandalo: la mia bellezza, oramai me ne avete persuasa, il mio lusso, la mia mora, tutto scandalizza... poi mi annoio. Quando l'anima è vuota, bisogna distrarla: occorrono divertimenti, quando non si hanno più passioni. — Però Del Pino vi piace. — È bello. — Potreste amarlo? tornò ad insistere con voce tremula per l'emozione. — Non lo credo. — Non ci andrete dunque domattina? — Vi ho già detto che andrò. — Sola! — Sola. — E se si dicesse che siete la sua amante? — Ciò potrebbe accadere; Del Pino è molto bello. L'avvocato fe' un gesto violento. — Non vi capisco, ruggì soffocatamente stringendosi la fronte nelle mani come per impedire alla propria ragione di rovesciarsi. Quella donna gli dava le vertigini. Chi amava dunque questa bella che coglieva un uomo come un fiore? Mal dotto nello studio del cuore, l'avvocato si chinava su quell'anima come sopra una voragine dal fondo della quale saliva misto ad un fracasso di torrente un acre profumo di fiori. Quella donna partirebbe dunque per sempre! Il mistero dileguerebbe misteriosamente... E Del Pino l'avrebbe forse posseduta: che importa se innamorata o fredda, quando la possedesse? Questo pensiero era anche più terribile dell'altro. — Perchè non mi amate? le domandò colla ingenuità delle grandi passioni. — Ma perchè voi medesimo non mi amate, sebbene crediate sinceramente il contrario. Volete che vi riveli a voi stesso? Vi servirà di consolazione nei primi giorni della mia assenza; dopo non ne avrete più bisogno. Oh! non protestate, non interrompete: l'eloquenza a domani. Voi credete di amarmi perchè non avete mai amato, perchè nato con uno spirito pratico e positivo, con minore fantasia di un aritmetico, avete sempre vissuto di studio e di sensi: perchè la vostra vita fino ad oggi era come il corso di un gran fiume per una grande pianura, calmo e maestoso... e io sono venuta a turbarlo. Io sono tutto quello che voi non siete: sono pallida, sono aristocratica, sono splendida: ho più cuore che voi non abbiate ingegno, più ingegno che non abbiate mai supposto in una testa femminile. Voi mi amate perchè vi siete detto: con questa donna la sazietà è impossibile — amore di uomo, amore di egoista. Siate sincero: nei vostri sogni, nei vostri progetti sulla marchesa di Monero avete mai pensato a ciò, che potreste offrirle in cambio di ciò che ella vi darebbe. Carlo era attonito. — Ho dunque ragione, ella proseguì melodiando la voce: credete adesso che io possa amarvi conoscendovi? La vostra passione è una illusione, che vi ho prodotto; forse conoscendomi meglio chi sa se non si dissiperebbe... Siete già un uomo illustre, fra un anno potete essere un grand'uomo: il Parlamento vi aspetta. La donna, che fosse vostra amante, avrebbe cento ragioni d'insuperbire: conterebbe i vostri trionfi, si farebbe della vostra gloria una toeletta più splendida delle più splendide, che arrivano da Parigi... Sperate: siete ancora giovane; le donne amano ancora gli uomini. — No: poichè non mi amate. — Siete sicuro se io sia una donna come tutte le altre? Se la vostra qualità di marito non sia un ostacolo, e non ricusi di amarvi per non deporre i miei baci sui baci di un'altra donna. — Sareste gelosa di Mimy?... Non mi ha mai amato. La marchesa raggiò. — E voi siete in grado di dire altrettanto? — Io... e si sconcertava sotto il suo sguardo. È impossibile, ella seguitò rammollendosi della persona, che l'abbiate compresa, ma la gracile delicatezza di quella donna deve avervi commosso a qualche ora; l'avrete amata: l'amereste ancora? Questa domanda indiscreta era mossa con una curiosità così aristocratica, che l'avvocato arrossiva come un fanciullo. — Non arrossite ancora, perchè v'inseguirò più avanti nel vostro segreto: dal giorno che mi amaste mi avete mai tradita? Non vi provate a mentire: vi leggerei la verità negli occhi e nella voce. Egli fe' un gesto meravigliato e la marchesa, coprendosi il volto come dalla gioia, lasciò sfuggirsi: — Mai?! Carlo respirò. — Partite, gli disse alzandosi tuttavia turbata: così che illudendosi come tutti gli innamorati, egli suppose che lo scacciasse pel timore di cedergli. — Promettetemi di non andare con Del Pino, e me ne vado. — Sono dunque bloccata, che mi si dettino le condizioni? Andate, andate: il vostro amore ha avuto oggi un bel giorno; siate una volta poeta, contentatevene; vorreste chiedere il meriggio al mattino? — Perchè no? Partirete da Bologna? — Chi sa. — Prima d'amarmi?... — Chi sa. Si levarono. — Come siete bella! mormorò quasi pallido quanto lei, ma di un brutto pallore. Ella gli tese la mano, che afferrò con impeto: si mossero verso la porta. Tacevano. Egli le sbirciava il seno agitato dalla tempesta. Passando dinanzi ad uno specchio vi si guardarono insieme e sorrisero di questa muta e significativa intelligenza da innamorati: la marchesa arrossì leggermente come sorpresa. Si strinsero la mano. — Ci andrete? — Sì. — Vi aspetto egualmente all'Assise: la seduta comincerà alle undici. — Superbo! — Sia: voglio costringervi ad applaudirmi; sarò meno brutto allora, aggiunse con malinconia. E, saettandole un ultimo sguardo, fuggì. — Zisa! chiamò la marchesa aprendo un usciuolo invisibile nella tappezzeria. Comparve la mora. — Fa preparare il bagno: quest'oggi è festa. La schiava le cadde davanti in ginocchio. — Dì? sono bella? — Troppo... — Oh! voglio essere amata: voglio ubbriacarmi d'amore. Tu pure sei bella... vuoi amarmi? La voce le si affievolì, mentre ella cadeva sopra una sedia. Pareva sfinita, gli occhi le nuotavano in un umidore iridato, le labbra sempre rosse sembravano asperse di rugiada. La schiava le si trascinò ai piedi come un cane ed abbracciandole le ginocchia colle pupille fiammanti come due carbonchi: — Io... io... sola! susurrò. La marchesa volle chinarsi a baciare quella fronte più nera della sedia di quercia, ma Zisa l'afferrò a mezzo la vita e sollevandola con singolare robustezza fuggì per l'usciolo della sala. CAPITOLO V Se la lagrima della innocenza moribonda sulla gota della vergine esalta meglio del vino più generoso, il sudore che la febbre del peccato trae sulla fronte della adultera esalta ancora più di quella lagrima. _L'Amore,_ Opere inedite — OTTONE DI BANZOLE. L'avvocato era uscito ebbro di quella prima speranza e di quel primo insulto alla sua gelosia. Sino allora aveva sperato e taciuto come tutti gli innamorati: la marchesa era bella, grande, forse anche facile: pensava a lei tutto il giorno, ma ogni qualvolta l'incontrava tutto lo spirito gli svaniva a un tratto. Quel giorno invece aveva osato ripetere la semplice ed eterna dichiarazione: vi amo; s'era mostrato geloso e la gelosia era passata senza contrasti: aveva quindi riconquistato la propria superiorità di uomo, e con quell'invito alle Assisie forse anche decisa la vittoria. Quella causa bella e grave aveva l'interesse di un romanzo e si prestava a tutte le dichiarazioni filosofiche e sentimentali; una causa fatta a posta per sedurre una donna, poichè una donna n'era l'eroina e l'amore la ragione: egli contava di brillarvi insolitamente, di vincere sè stesso, e qualunque ne fosse l'esito, strappasse o no quella testa al carnefice, tutti i cuori sarebbero dalla sua parte. L'accusata era una di quelle romantiche figure, che paiono nate solamente per tessere un dramma e perirvi. Domani era dunque il giorno più importante della sua vita, ma poichè la vittoria dipendeva dall'ingegno e dalla dottrina, era superbo di battersi con tali armi: così venti anni di solitudine studiosa, rimpianti nelle ore di malinconia, passati quasi fuori del mondo in un ambiente luminoso ma freddo, produrrebbero un giorno di vera apoteosi; alla luce della gloria si mescerebbe il calore della passione, mentre le porte di quel mondo epicureo, che aveva sempre condannato senza conoscerlo nemmeno nelle irruenze giovanili, si aprirebbero d'improvviso scoprendo la marchesa sulla soglia. Esisteva dunque un'altra vita, un altro amore, un altro vizio diversi da quelli che aveva fino allora creduti? Corse diffilato a casa per lavorare sino al domani, ma come si allontanava dal palazzo Fantuzzi l'esaltazione sensuale gli si mutava in una febbre di gelosia. Quell'ostinato appuntamento col marchese Del Pino era un nuvolone, che gli copriva il sole delle ultime parole e degli ultimi sorrisi della marchesa. Carlo raccapricciava al pensiero di essere amato e tradito nel medesimo giorno. Come la marchesa gli aveva detto con tanta audacia, egli era un uomo vergine e sensuale, di molto ingegno e di poco cuore. Impetuoso di carattere e di istinti, aveva domato collo studio e colle cure della professione la forza leonina della propria natura, arrivando a quarant'anni per una vita vuota di affetti e di avvenimenti, uniforme di luce e di calore. Delle donne fino dal primo palpito virile non aveva amato che il sesso col trasporto del bevitore pel vino, dimenticandolo appena assaporato: purchè la forma fosse appariscente, poco importa se corretta, il contrario di Giorgio; molta carne, molta salute, molta lascivia — le qualità del vino: la polpa, l'odore, la spuma, — ecco la donna. Il cuore non era mai stato invitato ai banchetti rumorosi di quelle voluttà, la fantasia non aveva mai offerto per essi le sue sale meravigliose; solo il senso v'interveniva, potente, ubbriacone, spensierato; poi si addormentava, e la mente, vecchia e severa quanto una badessa, ripigliava la matassa difficile dei processi. Così a vent'anni, così a trenta, così ancora a quaranta. Non aveva mai letto una donna o un romanzo; d'altronde non li avrebbe capiti: aveva inteso parlare d'amore come dell'Africa senza invogliarsene, o lo aveva studiato sugli innamorati delle Assisie come un caso di medicina legale. Le sue passioni erano lavorare, guadagnare, bere: quella la più carezzata, questa la più intensa, l'ultima la sola che dovesse frenare, e la frenava; forte quanto un Ercole, brutto come un Fauno, felice al pari del borghese, che dopo cinque lustri di drogheria arriva a comprarsi una villa o a sedere in un consiglio comunale — intelligente come pochi avvocati, ma nulla più di un avvocato. Però con tale tempra d'ingegno da simulare all'occasione molto sentimento nell'esame di una passione con osservazioni fini o distinzioni profonde; ma simile ai grandi casuisti del Rinascimento, che ci hanno lasciato i più stupendi e i più aridi trattati di psicologia, la comprendeva solamente colla testa. Viveva borghesemente, se non che tratto tratto, forse per fisica influenza, si faceva tristo e pensava che la sua felicità non era poi gran cosa: mediocri le ricchezze, mediocre la fama, mediocri i piaceri: che era solo ed invecchierebbe con un domani eguale all'ieri; ma questi insulti di malinconia erano poco più efficaci degli schiaffi del vento sul granito: l'avvocato ripigliava il sopravvento sull'uomo alle prime migliaia di lire da guadagnare o al primo onore provinciale da cogliere. Finalmente incontrò la marchesa, conobbe la donna e quel giorno si perdette. La filosofica uniformità della sua vita gli parve una monotonia insopportabile, la sua magnifica posizione borghese una miserabilità di fronte all'alterezza di quella donna aristocratica. Quindi apprese di non essere stato fino allora che un servitore del pubblico, mentre gli scandali della marchesa sempre al di sopra degli applausi e dei fischi, gli davano le prime vertigini della grandezza: e forte si appassionò di quella forza, s'innamorò di quella bellezza, fu preso da quella eleganza ed amò. Alla prima coscienza dell'amore temè di sè stesso, tanto si conobbe trasfigurato; poi temè della marchesa sentendosele inferiore: ma l'orgoglio arse sull'altare dell'amore, la gelosia soffiò e l'avvocato bruciò tutto come il mistico roveto di Mosè. L'azalea fa prima il fiore poi le foglie: egli fu prima adultero che amante e marito. Infatti, i due coniugi non avevano famiglia. Carlo viveva nel suo studio, Mimy nel suo appartamento; amabili e rispettosi come due stranieri accomunatisi per qualche giorno; però in pubblico egli faceva le viste di marito e parlava acremente dell'adulterio, giurando seco stesso di punirlo se la moglie v'incappasse, meno ancora per sentimento di marito che di conservatore. Carlo era a Bologna un capo di questo partito. Si chiuse dunque nello studio, ma aveva appena slegato il fascicolo del processo e disposti alcuni libri, che la smania lo vinse e dovette levarsi e camminare. La passeggiata della marchesa lo angosciava. Uso a considerare la donna nelle solite categorie di vergine, di sposa o di madre, l'anomalia della marchesa lo sconcertava — quella castità di cuore quasi straniera a ogni capriccio della carne, quell'alta concezione dell'amore, quella facile inconsideratezza e insieme quella inaccessibile superiorità gli passavano davanti al pensiero come figure di lanterna magica agli occhi di un fanciullo. Come cedere ad un uomo senza amarlo e confessarlo poi ad un altro, che vi ama ed è profondamente geloso? Chi era costei che passava sul fango senza macchiarsi la veste? Quali seduzioni usarle? Da qual parte insidiarle lo spirito o i sensi? Quella donna era capace di una grande passione e forse come Diogene la cercava colla lanterna dello scandalo. Carlo vaneggiava: povero falco innamorato di un'aquila, si smarriva nel cielo guardando lei che saliva sempre sublime, e guardando la roccia sulla quale la superba gli era passata dappresso volando. — Del Pino! Del Pino! mormorava a denti stretti camminando su e giù per lo studio, e quel nome lo irritava come una frustata: si dirupava sul bel giovane biondo, lo frantumava, lo pestava, passava, ripassava su lui, tremendo, rabbioso... ed ecco ancora Del Pino ed Elisa, bianchi come la neve, che salivano un poggio tenendosi per mano colla distrazione degli innamorati: il vento sollevava le criniere dei cavalli e i ricci sulla fronte di lei; il vento era gelido e non lo sentivano... Come erano belli! come si sorridevano! Non volle vedere, negò a sè stesso la verità di quell'appuntamento, li raggiunse anch'egli a cavallo, sebbene non ne avesse in tutta la sua vita inforcato un solo, e rovesciando furiosamente il bel giovine ne prese il posto: ma Elisa ve lo intirizziva con quel suo sguardo fiso, metallico... No, non ci andrà, verrà all'Assisie: venga a sentirmi in questo processo d'amore, poi mi paragoni con lui e scelga il più bello: accetto. Così parlando si rimetteva allo scrittoio tutto infervorato, ma se ne toglieva ancora: andava, veniva, bestemmiava, sorrideva; sogni e sentimenti gli si urtavano nella testa e nel cuore, si struggeva di miseria e di beatitudine, più della prima che della seconda. Invano forte di una lunga abitudine volle ostinarsi a studiare; il pensiero più indocile di un ragazzo divagava quinci e quindi: più invano volle credere quella passeggiata un appuntamento amoroso o un puro capriccio — la febbre gelosa gli impediva ambe le spiegazioni e il dolore del disinganno non gli era in quel punto meno necessario dell'entusiasmo della confidenza. Finalmente Giulietta venne ad avvisarlo pel pranzo: oramai annottava. Mimy era già nel tinello estremamente abbattuta nell'aspetto: sedettero e si disposero a mangiare; non ne poterono nulla. Mimy si arrovesciò sulla sedia. — Non mangi? — Non ho fame. — Nemmeno io. Marito e moglie innamorati della stessa persona, entrambi senza appetito! Carlo si sentiva scoppiare. — Dunque la marchesa parte? Mimy alzò vivamente la testa. — Ti dispiacerà, non è vero? È tanto tua amica! Perdio! bisogna convenirne, è una gran donna; non ne ho mai incontrate di simili... Ma è un capriccio incomprensibile, prendere in affitto un palazzo per un anno, farvi mille spese e abbandonarlo dopo due mesi. Capisco che è una gran signora... E l'altra di domattina? Fuori di Castiglione col marchese Del Pino, loro due soli a rompere la neve coi cavalli — Ti stupisce? Non lo sapevi? è cosa da insensati. E si vuotava il bicchiere: Mimy aveva sbarrati gli occhi. — Loro due soli; confessa che di peggiori non se ne può inventare. A proposito: domani va la mia causa all'Assisie. Vuoi venirci, Mimy? L'accusata è molto simpatica e ti piacerà: avevo anche invitata la marchesa, ma pare che quella gita le stia molto a cuore, e non verrà. Dovresti andare a trovarla e condurla teco: ti prometto uno spettacolo bello. Carlo, felice di questa idea, si fece superlativamente amabile: giovarsi della moglie per impedire all'amante un tradimento, era uno stratagemma degno di un uomo avvezzo da lungo tempo alle Assisie! Senonchè Mimy, già afflitta della scena precedente, cedette a questo nuovo colpo. Comprendeva benissimo l'intenzione del marito, ma pur soffrendone nella delicatezza del suo cuore innamorato non volle secondarla. Elisa amerebbe il pallido marchesino: non era ella stata l'amante di Giorgio! Certo nelle più dolorose malinconie non aveva mai sospettato la possibilità di un simile strazio; caduta disperatamente nel fango, poteva levare lo sguardo alla immagine puramente radiosa della sua amata... adesso il fango rimbalzava su quella immagine. Non importa — ti sei cacciata nel pantano? vi muori e teco vi affoghino tutti gli ideali che ti sorridevano: nessun dolore deve esser risparmiato a colei che mentì al proprio amore, nessuna condanna è troppo severa per l'adultera donna... Mimy taceva; Carlo l'incalzava. Giulietta li sorprese portando l'arrosto. — Va fuori: non abbiamo fame, egli le si rivolse brutalmente, e appena uscita la fanciulla avvilita da quell'ordine, appressò la sedia a Mimy per prenderle la mano. Ella lo guardò fiso negli occhi: Carlo le abbandonò la mano. — Verrai domani alle Assisie? — Sapete pure che certe scene mi fanno male. — Sai, farò una bella difesa. — Vi credo. — Vieni colla marchesa se temi di annoiarti: vi saranno tante signore. — La marchesa! — Saresti gelosa? ribattè sorridendo goffamente. Mimy soffocava: volle alzarsi. — Fermati. — Tu le vuoi bene, soggiunse con lieve rossore: impediscile questa passeggiata, che la renderà lo zimbello della maldicenza. In provincia certe cose non sono permesse. Ho ragione, Mimy? Ella è tua amica: devi salvarla. Questa insistenza sfacciata non la commosse. Del Pino ed Elisa, un appuntamento amoroso, una vendetta di lei per punirla della sua viltà con Giorgio — ecco la calamita che le attraeva irresistibilmente l'animo in quel punto. Aver tanto amato, tanto sofferto e sentirsi di un colpo frangere tra le mani la corda delle speranze ritorta di tanti sogni e di tanti dolori! Non essere più nulla, ricadere nella volgarità della vita maritale, non essere, per tutta l'esistenza, che la moglie di Carlo l'avvocato!.. Tentò invano di resistere a quel flusso di amarezze, ne fu travolta, scoppiò in pianto torcendosi le mani nella più straziante disperazione. Piangeva così impetuosamente che i singhiozzi le facevano groppo alla gola: respirava a stento. Volle levarsi per fuggire, ma le mancarono le forze, e allora appoggiando la fronte sul tavolo se la cinse col braccio. Carlo sbigottì stimandosi scoperto, e per riparare il mal fatto le appressò ancor più la sedia: — Ma Mimy, sei proprio pazza per affliggertene così: non credevo di offenderti... Tu sei la sua amica e potevi giovarle; del resto, quella donna non l'amo e non l'ho mai amata. Dio! non piangere, sarò sempre il tuo Carlo, e tu sei la mia Mimy: non è vero che ci vogliamo bene? E cercava di tirarsela contro. Vada pure a spasso col marchese, s'innamorino, a me non ne importa nulla. — Lo so, balbettò inintelligibilmente levando il volto rosso dalle lagrime: andate, andate. — Via, non piangere, non l'ho fatto apposta. — Andate, ripeteva esacerbata dal ridicolo di quella situazione, e poichè egli non capiva si alzò risolutamente e lo respinse; egli cedette finalmente, e Mimy ricadde sulla sedia. Rimase così lungo tempo e pianse, pianse... Poi si terse gli occhi colla triste rassegnazione dell'abbattimento, passò per tutti i gradi della rassegnazione, assaporò tutti gli spasimi della gelosia che si conosce senza diritti, si punse a tutte le spine del disinganno: tradita, delusa! perdere anche Elisa. Pianse nuovamente, inconsolabilmente: pensò le cose più bizzarre, divagò nelle astrazioni più lontane, ma sempre ritornava alla marchesa e le lagrime le si riaffacciavano agli occhi. Volgendo attonitamente intorno la faccia si accorse di non essere sola: Giulietta la spiava da molto tempo, colla fisonomia piangente. — Vieni qui, esclamò impetuosamente: non è vero che dovrei morire? Se mi vuoi bene, rispondimi di sì. Morire! ripeteva colla immobilità della follia negli occhi: perchè vivere? Se Dio avesse cuore dovrebbe fulminarmi. Questo sforzo la spossò. Giulietta le si accostò timidamente e mettendosele in ginocchio le nascose il volto negli abiti. Stettero così in silenzio, ma il dolore della buona fanciulla fu un balsamo a quella passione esasperata; a poco a poco Mimy cessò di singhiozzare, ed accarezzando distrattamente quella testa, il pensiero le si calmò. Mimy si era quetata nella prostrazione di ogni forza. Carlo stava rinchiuso nello studio più triste di prima, poichè colle sue opinioni sul matrimonio la scena accaduta teneva del peccato ancora più che della imprudenza. La moglie, secondo lui, non aveva mai a sospettare del marito, e se l'adulterio, solamente dall'uscio del marito poteva entrare nella famiglia, almeno doveva passarvi inosservato: l'impuro serpe non doveva lasciare traccia di sito o di vischio sull'altarino del Lare. Certo questo culto del Lare rimaneva per lui alquanto nella astrazione, e la pratica della sua vita non aveva sempre rivelata l'immanenza della teorica; però la professava sinceramente avendola, sebbene capo del partito conservatore, succhiata da Mazzini e da Michelet e difesa sempre nei tribunali come superiore ad ogni altra con calore eloquente e sincero. Si era dunque tradito con Mimy, offendendola nel suo decoro di moglie fino a farla piangere. Se come coniugi non si amavano, l'amabilità del vicendevole rispetto ne faceva quasi le viste a loro medesimi: l'amore poteva sospettarsi addormentato nel languore delle legittime voluttà intanto che l'indifferenza faceva da governante: adesso invece l'indifferenza doveva cedere allo sdegno: Mimy, era stata insultata. Le donne non perdonano, come non perdonano i preti, non perdonano i vecchi, come nessun debole perdona: ma se una donna poteva in un momento di bontà perdonare ad un uomo di averla posposta ad un'altra, non poteva certo perdonare d'essere stata essa medesima impiegata al proprio scorno: la vanità non transige coll'umiliazione, perchè il circolo non può transigere col quadrato. Carlo s'inabissava sempre più: e se Mimy avesse pensato ella pure a tradirlo? Se gli avesse impedita la corte alla marchesa scoprendolo come un uomo senza cuore e chiedendole di partire subito da Bologna? Di che non sono capaci le donne?... Stava immerso da due ore in questi pensieri quando fu bussato alla porta ed entrò Giorgio, anch'egli triste in sembianza. — Ah! sei tu. Giorgio si buttò sopra una sedia. — Che cosa vuoi? ero venuto per invitarti a teatro. Questa sera è la beneficiata della prima donna: una folla immensa, tutti i palchi pieni. — Allora.... — C'è il mio. — Grazie: non vengo. — Fai malissimo, perchè se vieni soffrirai come un dannato: è la consolazione di chi ama. Del Pino accompagna la marchesa. Carlo impallidì. — C'è mezz'ora: va ad avvisare Mimy, giacchè io ho già avvisato il cocchiere: andremo insieme. — Impossibile. Ho avuto ora una scena tale con Mimy a proposito della marchesa, che ella ha pianto: non mi arrischio di rammentargliela. Va, se la persuadi, perdio! sei un grand'uomo. Giorgio stette un momento pensieroso. — Accetti? esclamò Carlo; se vinci ti do un bacio. — Bacio di Giuda. Giorgio andò da Mimy: si parlarono abbastanza disinvolti, ella annuì e si chiuse nel suo gabinetto per farsi bella. _Au moment ou la parure commence, l'amant n'est plus que un mari et le bal seul devient l'amant:_ ha già osservato finamente De Maistre — e fedele alla sua natura di donna, Mimy dimenticò sino il dolore di poco prima per farsi bella. Forse alla naturale vanità della bellezza si mesceva una sommessa speranza di amore, di vincere nell'animo della marchesa la simpatia per Del Pino. Indossò quel famoso abito bianco, si cinse il collo con un nastrino di velluto nero sospendendovi una perla grossa quanto una delle sue lagrime allora allora versate, insinuò fra le treccie cadenti sulle spalle una catenella di gramigna stupendamente imitata, e pallida, bianca non ebbe d'uopo di polvere per procurarsi la smorta bianchezza che commuove tanto e che la moda, questa volta artista, esige. La toeletta semplicissima fu lunga ed accurata: ogni piega della veste, ogni errore dei capelli fu calcolato; calcolato lo splendore che il pianto aveva messo negli occhi; calcolata la bianchezza delle mani che rimasero senza guanti per conservare la loro nervosa ed aristocratica seduzione. Poi si avvolse in una pelliccia di ermellino foderata di raso bianco, e venne nel salottino, ove Giorgio l'attendeva. Vedendola entrare così bianca che aveva quasi del fantasma egli fremette. — Bianca come la neve ed egualmente fredda! — Egualmente effimera, rispose tristamente. Sopraggiunse Carlo e partirono. Quella sera la sala del Bibbiena vivamente illuminata era magnifica allo sguardo. Dalla platea al loggione non un palco vuoto, tutto il pubblico elegante, una platea molto densa e qua e là nei palchi molti mazzi di fiori coi nastri pendenti: l'architettura un po' pesante in quella luce e con quella folla sembrava perdere alquanto del suo carattere. Fortunate le signore se avessero potuto fare altrettanto, diventando belle! Però vi si erano sforzate e la lodevole ostinazione della loro impotenza avrebbe dovuto redimere qualche cosa della scorrettezza o della soverchia maturità delle forme: molte portavano intrepidamente abiti scollacciati, tutte vestivano riccamente, e le perle cingevano loro i colli e i diamanti scintillavano loro fra i capelli, ma le loro pose mancavano di aristocrazia e i loro colori di armonia. Tutti quei palchi sporgenti parevano gabbie, e quelle donne così vestite piuttosto assistenti a una mostra che a una rappresentazione. Le signore dell'alta società, poche, poco belle, poco giovani, occupavano i palchi dei due primi ordini; l'alta borghesia erasi insinuata fra questi, e il resto occupava il resto. Disseminati nella platea o nelle barcaccie gli eroi della moda mostravano le bianche camicie, si accomodavano i capelli, disponendosi coscienziosamente ad attaccare col cannocchiale qualche metà di qualche marito dabbene. Un non so che regnava nella sala e l'animava visibilmente. Si rappresentavano gli _Ugonotti_, il capolavoro di Meyerbeer. Giorgio, Carlo e Mimy entrarono sulla fine del primo atto. Al rumore che fece aprendosi l'uscio del palchetto, molte persone si volsero, e Mimy si vide di fronte la marchesa che la guardava. Sedè. Giorgio si mise in faccia a lei. Carlo in un angolo spiava attentamente la marchesa e il marchesino. La marchesa splendeva: era vestita di un abito di moerro nero, serrato alla vita e aperto sul petto alla Maria Stuarda; un alto pizzo bianco le montava dietro fino alla nuca, sulla quale i capelli si raccoglievano capricciosamente in un mazzo coronato da un grosso corallo brillantato. Le maniche molto strette consentivano le braccia magnifiche e lasciavano sfuggire le mani sguantate fra delicatissime trine: nessuna ricercatezza, nessun ornamento, ma la sua pallida e vigorosa sembianza spiccava singolarmente in quella toeletta. La sua testa aveva, come già osservammo, del romantico, quasi del fatale, se la parola non fosse ella stessa romantica: gli occhi erano grandi e nerissimi, il naso aquilino, la bocca di un carattere byroniano; ma l'ovale del volto era di una delicatezza infinita e la parte del collo scoperta ancora più voluttuosa. Del Pino le sedeva di contro: schizziamolo rapidamente. Biondo, gracile, gentile, di una pallidezza incredibilmente cerea, di una aristocrazia ineffabilmente tenue: somigliava in certo modo alla marchesa — lo stesso naso, però meno vigoroso, gli stessi occhi, ma azzurri, una bocca freschissima con denti di porcellana e una barba adolescente di un biondo slavato ed elegantissimo. Michelangiolo incontrandolo si sarebbe stretto sdegnosamente nelle spalle, Delacroix se ne sarebbe forse innamorato; era un maschio femmineo, un sorriso di donna vestito da uomo. La gente dei palchi e della platea guardava spesso verso di loro. Erano soli; parlavano vivamente, anzi il marchesino se le chinava così sul volto che i loro aliti dovevano confondersi. Carlo dal suo angolo imitava il bracco sulla beccaccia. Mimy li guardava per sottrarsi allo sguardo di Giorgio, che le si dimenticava spesso in volto. La marchesa non badava loro. Finì il primo atto: il marchesino chiacchierando sempre le prese la punta del ventaglio e la ritenne: ella ascoltandolo abbassava insensibilmente la faccia verso la sua: parlavano ancora, poi tacquero; si guardavano: magnifico gruppo per un artista! Giorgio lo considerò. — Come si guardano! mormorò a Mimy. Ella non rispose. Quei due s'erano dimenticati del teatro: ormai le loro faccie si toccavano, quando il marchesino piegando forse sotto il fascino di quelle grandi pupille nere, si gettò indietro e subito dopo, sempre colla punta del ventaglio fra le mani, le si sedette accanto colla massima imprudenza. Carlo scappò sbattendo l'uscio. Giorgio e Mimy si voltarono meravigliati. — Va dalla marchesa, sciagurato! disse Giorgio. La fronte di Mimy, sino allora bruna, s'illuminò di un baleno. — Carlo è innamorato. Non gli badò. In quel punto egli entrava nel palchetto della marchesa. Questa gli tese cordialmente la mano e tutta la violenza di lui cadde per incanto: si trovò lì dentro come senza saperlo, s'imbarazzò, si fe' più goffo del solito, e malgrado una insistenza poco cavalleresca dovette lasciare a Del Pino il suo posto e sedersi in faccia al pubblico. Girò intorno gli occhi e incontrò quelli di sua moglie. Se la distanza gli avesse permesso di leggervi sarebbe stato ancora più imbarazzato, perchè erano carezzevoli. Mimy cessò di guardare in quel palco e appoggiando il gomito al parapetto si accomodò nel suo atteggiamento favorito. — Vi divertite? le domandò Giorgio, che nel dolore della passione aveva perduto lo spirito. — Divertirmi? — Giudicando dal volto sembrerebbe di sì. — Il volto è una maschera. — Dunque soffrite e mentite? — Credete che menta il fiore seguitando a odorare anche dopo reciso? E volse un'occhiata al palco di Elisa: v'entravano molte persone. La marchesa sempre sorridente sembrava farsi più allegra, Carlo diveniva cupo. Evidentemente parlava, reggeva, ella sola la conversazione, non senza grave fatica; Del Pino si era chiuso nel silenzio e gli altri eleganti erano quasi tutti analfabeti dello spirito. Quindi l'avvocato dovette suo malgrado uscire per la folla delle troppe visite, ma andandosene non ebbe il coraggio di ripetere l'invito alle Assisie. Nel corridoio s'imbattè col suo collega della difesa. — Ero venuto a casa tua e mi hanno detto che eri a teatro; ma è per domani! non ci siamo ancora bene concertati, e la causa parmi discretamente difficile. Andiamo a studiare: avremo tutta Bologna alle Assisie. — T'inganni, alle Assisie non ci sarà alcuno, rispose il povero innamorato. L'altro l'osservò stupito. — Vieni? — No. — E domani? — Improvviserò, rispose con una indifferenza che avrebbe forse guadagnata la marchesa. Scese nell'atrio e si mise a passeggiare. Era abbattuto nell'aspetto. Quella collera violenta caduta al primo sguardo della marchesa era stata come l'albero, che nel rovesciarsi sconquassa il vascello. Perchè essere geloso di quella donna che gli sguizzava sempre di mano? Perchè impedire di essere amato a Del Pino, così bello e gentile, se egli brutto non poteva esserlo? Fra loro due, lo sentiva, egli doveva figurare come una insegna da osteria fra un quadro di Guido ed un altro di Hayez; eppure, così brutto aveva uno spirito abbastanza grande per meritare l'amore... Invece, giunto a quarant'anni senza amore, invecchierebbe e morirebbe senza amore! Che gli importava la sua splendida riputazione di avvocato, le ricchezze accumulate, la vasta intelligenza, la forza fisica e morale?... Carlo era in uno di quei momenti, nei quali l'anima scoraggiata si compiace del proprio abbattimento, e morte le speranze agonizzano i desideri; tutto quello che era nella luce o nell'ombra si confonde in una tenebria indecisa, — il passato è una nebbia, una nebbia l'avvenire e la vita vi fluttua in mezzo come una nuvola — Soffrire non volendo sapere il perchè, soffrire lentamente come cola una lagrima per la guancia: sdraiarsi nel dolore come in una tomba aspettando che ne ricada il coperchio, ecco l'estrema voluttà. Così si era persuaso d'essere indegno di amore, di non avere dritti alla gelosia, di non essere più geloso. La marchesa sarebbe l'amante di Del Pino, di altri, di tutti, fuorchè di lui: egli non sarebbe più nulla al mondo... Il fruscìo di una veste di seta lo interruppe. La marchesa usciva al braccio di Del Pino; lo spettacolo non era ancora a mezzo. Fu uno strappo violento. Così come si trovava le si cacciò dietro, ma si affacciava appunto sulla porta, che Del Pino rinchiudeva lo sportello della carrozza. Invece di buttarsi in un fiacchero, ordinando al vetturino di seguirla, corse alcuni passi lungo il portico del teatro; la carrozza gli sfiancò tanto presso, che se non era una colonna, quelli di dentro lo avrebbero scorto: la carrozza proseguiva rapidamente malgrado la neve piuttosto alta e perchè recentissima non ancora aperta. Carlo dietro a furia. La strada era deserta. Robustissimo, correva rapidamente colle scarpe di pelle lucida, a suola sottilissima e i calzoni che lasciavano penetrare la neve a bagnargli le gambe, ma i cavalli correvano anche più; la distanza cresceva ed egli raddoppiava di lena: si strinse in una mano le code dell'abito, e via spiccando balzi prodigiosi. Una volta scivolò e sarebbe caduto se non si fosse giovato della gran forza, ma si spinse più furiosamente, senonchè in quel punto la carrozza svoltava a sinistra della piazzetta che prende nome dal vecchio palazzo dei Bentivoglio. Fremette, ma non si smarrì. — Non vanno dunque a casa? mormorò dandosi un pugno nella coscia come per sferzarsi, e proseguì la corsa disperata. Giunse all'angolo, e potè vedere ancora la carrozza piegare a sinistra del teatro Contavalli. La strada saliva, pure non si rallentò: ansante, trafelato arrivò in piazza San Martino: era deserta; riconobbe la carreggiata e non potè più correre perchè i calzoni inzuppati gli legavano le gambe e le scarpe scontortesi in quella ruina gli indolenzivano i piedi: aveva perduto un tacco; nei portici passava gente. Si rimise il cappello e proseguì al passo dietro la carreggiata, infilò via Cavaliera, piegò verso le due Torri, sempre su quella traccia, distinguendola, riconoscendola fra le altre, si mise per via San Vitale: si fermò al palazzo Fantuzzi. Tardi! il portone era chiuso. Del Pino era salito dalla marchesa o era partito dopo averla ricondotta? Tremendo problema, per un geloso. Stette un momento in fra due se battesse, ma si conobbe sì strano in arnese, in abito nero, infangato fino agli occhi, i capelli grondanti di sudore, che non ne ebbe il coraggio. Interrogò il portone, guardò la carreggiata, studiò sulla neve l'orme dei piedi, ma erano troppe; spiò le finestre; in due brillava il lume, le ravvisò del gabinetto favorito. — Saranno là dentro! L'orologio della chiesa vicina suonò le undici. Per la strada non passava anima viva: bianca, muta, sconsolata: egli solo in piedi, davanti a quel portone in costume da ballo! Intanto, cessato l'impeto della corsa, il sudore gli si gelava sulla fronte al vento notturno, perchè gli abiti troppo leggeri non lo difendevano che assai male: rabbrividì. Egli, l'avvocato più grave e più celebre di Bologna, in quella situazione appena condonabile ad un ragazzo da liceo! Se qualcuno passandolo riconoscesse... Però essi erano là dentro, in quel gabinetto elegante, seduti ad un buon fuoco, forse sulla stessa poltrona: il punch fumava e lo dimenticavano — egli la teneva fra le braccia e scherzandole colla frappa del corsetto rideva ricordandole la brusca apparizione dell'avvocato, quel suo goffo imbarazzo, il più goffo silenzio, la goffissima partenza: ella sorrideva accarezzando la tenue barba all'elegante favorito... l'ambiente era caldo, fiori sul camino, fiori nell'anima, fiori sulla bocca. Del Pino uscirebbe o passerebbe la notte con lei? Perchè abbandonare il teatro a mezzo la rappresentazione? Inutili domande, dolorosi enigmi... Mimy rimasta sola con Giorgio che cosa penserebbe di questa scappata dopo la scena a pranzo? Giorgio era poi un amico tanto sicuro da non profittare d'una cattiva disposizione di lei? Essere tradito a un tempo da ambe le parti era troppo anche per un avvocato... Il freddo facevasi mano mano più acuto e la tramontana levandosi raggelava la neve: la notte si prometteva limpida, ma insopportabile, massime alle povere sentinelle. Carlo era una di esse. Si era diggià abbottonato la marsina calcandosi il gibus sulle orecchie, nullameno sentiva nelle carni una frigidezza dolorosa, mentre l'acqua penetratagli nelle scarpe gli intirizziva i piedi. Si ritrasse sotto il portico e fe' qualche passo per rianimarsi il calore; si fermò. — Aspetterò, voglio vederlo uscire. E dopo: — Ma se non esce? Il vento soffiava poderoso; per evitarlo si nascose nel vano di una porta, dalla quale poteva spiare le finestre illuminate e il portone chiuso. Attese; sempre triste l'attendere, allora poi tristissimo. Lo sciagurato si mise a pensare, e di pensiero in pensiero divagò lontano; pensò alla sua infanzia, all'adolescenza studiosa, alla più severa giovinezza: spigolò qua e là per le reminiscenze di quegli anni, e si lacerò ad obliati pruneti, respirò un'aura di obliate primavere: poi assistè alla morte di sua madre e le ripetè il giuramento di ammogliarsi, così che la vecchia moriva contenta e superba di lui, ma tutto ciò in confusione. Sposava Mimy, ed ecco la marchesa insinuarsi fra quei ricordi e scompigliarli. Egli, che non aveva amato nemmeno sua madre, s'innamorava perdutamente di lei: non più preoccupazioni di guadagni, avidità di reputazione; quella donna, solamente quella donna, essere l'amante di quella donna. Era bella, aristocratica, un'ideale, un romanzo. Se la vita non è un romanzo dove è la sua voluttà?... E la fantasia apriva al senso anelante la galleria de' suoi quadri centuplicati dagli specchi; e lo spirito si smarriva in mille scene tutte amorose e inebbrianti. Vivere con quella donna, aumentare ancora la propria fama; già molte volte Bologna gli aveva offerto la candidatura, ora accetterebbe, sarebbe deputato, forse ministro e dopo una lotta eroica alla tribuna si riposerebbe su quel seno pigliandovi un bagno di voluttà ignote a tutto il resto degli uomini. La vita e la morte di Mirabeau: allori e fiori, calici e baci. Un accordo di pianoforte lo tolse a quel sogno, facendogli provare più vivamente i morsi del freddo. Ascoltò: pareva un preludio. Una voce che non era quella della marchesa modulò qualche nota e tutto tacque. Le finestre erano sempre illuminate, il portone chiuso. Guardò l'orologio: ormai il tocco. — Tardi, susurrò pensando a Mimy, che certamente Giorgio aveva ricondotta a casa. In questo tempo qualche persona era passata pel portico, ma egli celato nell'ombra della porta ne aveva evitato gli sguardi; senonchè l'immobilità gli accresceva il freddo di per sè insopportabile in quel costume e con quell'umidore alle gambe. Tornò a muoversi, gli occhi sempre nelle finestre, senza allontanarsi, proprio come una sentinella. Che cosa non avrebbe dato per essere in quel gabinetto o almeno per vedervi dentro? Invece lì fuori, tremante di freddo, di gelosia, di vergogna, lì come una farfalla sorpresa dal gelo nelle ali cogli occhi fisi nel lume. Suonò un'ora, suonarono le due. Forsechè la marchesa e il marchesino si andrebbero a letto o il marchesino uscirebbe? Non vi erano ragioni per credere che uscisse a quell'ora, se fino a quell'ora aveva potuto rimanere. Ma le finestre si erano oscurate. Carlo saltò dal portico nella strada e si mise presso l'usciolo tagliato nel portone... A che scopo? Neppure egli lo sapeva, ma guai per l'altro, se fosse davvero uscito, colla smania di lotta che in quel punto agitava l'avvocato. Incollò l'orecchio ad una fessura e stette ascoltando; nulla: nemmeno un rumore di passi nell'appartamento superiore, nemmeno il martellare dello scrocco di un uscio: nulla, se non un'arietta che zufolando per la fessura gli indoloriva l'orecchio. Dunque non usciva? Si percosse violentemente la fronte e tornò sotto il portico. Le due finestre non si distinguevano più, tutte erano egualmente buie, indifferenti, impossibile fissarne una per cinque minuti ora che non avevano più espressione; il pensiero brancicandole scivolava come un caduto per la camicia di un pozzo. Bruno il palazzo, buie le finestre, e la strada bianca, fredda, deserta: la tramontana soffiava intirizzente; e non potersi distrarre, scaldare quasi al lume di quella finestra. La notte era limpida, il freddo tagliente: che fare a quell'ora, sotto quel portico in faccia a quel palazzo muto? — Resterò fino a domattina, masticò rabbiosamente fra i denti, e tornò a ripararsi sotto la porta. Suonarono le due e tre quarti. La strada era sempre bianca, fredda, deserta: le finestre non parlavano, ma invece i piedi gli spasimavano atrocemente e il fiato gli si congelava sulla barba: sentì mancarsi la risoluzione. Perchè quella guardia? O Del Pino era dalla marchesa e non ne uscirebbe che a giorno alto, ed era impossibile restare sotto il portico così abbigliato, quando la gente ricomincerebbe a circolare; ma quel lume non luceva più! A che pensare? In che divagarsi? A che rattenersi? — Sono pur sciagurato! e si spiccò dalla porta per andarsene, ma la gelosia lo rimorse più acuta. E se Del Pino era là dentro? Due grosse lagrime gli gocciolarono dagli occhi. Erano le prime lagrime della sua vita, ma non gli furono un refrigerio alla maledetta arsura dell'anima: guardò ancora le finestre; poi finalmente se ne distolse imprecando. Povero Carlo! quelle poche ore gli avevano devastata la vita come un uragano devasta una bella pianura di orti e di vigneti, ma se la pianura ridiventa bella alla nuova stagione, egli forse non avrebbe mai più potuto dopo quella tempesta ritornare l'uomo calmo e forte di prima. CAPITOLO VI Quale influenza avrà un mazzo di fiori in un gabinetto, massimamente d'inverno, sopra una signora che respirandone il profumo senta l'uomo da lungo tempo simpatico parlarle d'amore? Certo queste due voluttà si mesceranno rinvigorendosi, e il linguaggio odoroso dei fiori servirà d'interprete al linguaggio dell'amore. Per me credo che la tappezzeria, i mobili, la luce, il lusso, la fisonomia di una stanza, un libro aperto, un periodo letto a metà, una immagine traveduta spiando lo specchio, un'eco raccolta in una parola, un'aria che si risveglia guardando il pianoforte entrino per assai nella seduzione di una donna. La pianta dell'amore non ispunta in terreno incolto, e perchè il cuore della donna sia fecondato bisogna che la rugiada lo bagni prima che soffi il vento e s'alzi il sole. Ha ancora meno spirito di un marito l'amante che non conosce la propria insufficienza. La donna è essenzialmente religiosa: tutto ciò che non è divino è nulla per lei — bisogna quindi crearle un mondo nel mondo ed esserne il Dio per imporle l'enorme sacrificio di amarvi. _Contro Isocrate. Avvertimenti morali a Demonio._ OTTONE DI BANZOLE. La mattinata era bella. La neve caduta come un immenso mantello, che si fosse rotto fra gli alberi e sulle siepi, dava alla campagna un aspetto di desolata uniformità. Le sue case più distanti in quell'abbandono e senza verde intorno diventavano come incomprensibili — perchè abitare in quel paesaggio senza vita? Appena qualche esile colonna di fumo uscendo dai camini tremolava lievemente sui tetti, mentre un altro vapore più denso e più grasso alitava dai concimi, e i pagliai di un giallo dorato, più vivo, tra tutto quel candore sembravano cedere sotto il peso del loro elmo d'argento. Nessun rumore, nessuna attività: tratto tratto un ramo aiutato dal sole invisibile si rialzava scrollando la neve, come un cane che esca dall'acqua, o un uccello passava pigolando per la fame, spaventato dallo scoppio di un archibugio lontano. Tutto era bianco nella stretta pianura, all'infuori di un abete o di una spalliera di mortella intorno a qualche casino abbandonato; ma sulla collina di San Michele, antico e vasto convento, una folla d'alberi brulli e frondosi rompeva per largo tratto il niveo tappeto, facendovi come una macchia. Non un sentiero era scoperto sui monti. Avvolto in un ampio mantello, che cadeva in bei panneggiamenti, e calzando grossi stivali, Carlo usciva da Porta Castiglione, che suonavano le nove: sulla soglia della porta la neve s'era disciolta in una limacciosa pozzanghera impressa di orme e rigata da rotaia, ma al di là della strada di circonvallazione, l'altra della collina non era aperta se non da una stretta pista che smarrivasi dopo un centinaio di passi in un solco sudicio su quel candore — l'orma degli uomini nella natura! Perchè venire a piedi non invitato a quel convegno? Che cosa ne penserebbero gli altri due? Non vi aveva riflettuto. Levatosi di buon mattino, s'era vestito da campagna dimenticando la seduta dell'Assisie, e avvoltosi nel mantello, quasi per uscire immediatamente, aveva invece egli stesso acceso il caminetto. Si sentiva stanco. Non osò presentarsi a Mimy, temendo egualmente le sue domande e il suo silenzio; colpevole in faccia a sè stesso ed a lei, gli parve gran cosa di evitarla per meglio dimenticare. Adesso andava ripensando la scena della notte. Giunse presto ove la strada si biforcava, da una parte svoltando verso San Michele e dall'altra proseguendo in serpeggiamenti su per la collina. Si fermò: avevano a passare di lì. Attese un pezzo, poi guardò l'orologio: le nove e tre quarti. Cominciava quasi a pentirsi di essere venuto, ma per cansare possibilmente il ridicolo di aspettarli, si disse che vedendoli muoverebbe loro incontro, come di ritorno in città da una passeggiata — forse da questo buco non l'avrebbe scappata, ma una scappatoia c'era. Stava immobile guardando, ascoltando. L'anima gli tremava, mentre il pensiero ritornando, malgrado tutti gli sforzi della volontà, ai dolori della notte li ridestava uno ad uno. Aspettare, sempre aspettare, e aspettare forse inutilmente! Aspettava da venti anni. Un rumore di passi e di voci al di sopra lo fece voltare. Due contadini venivano sghignazzando. Quando gli furono presso, uno esclamò: — E quel zuccone innamorarsi a quarant'anni! va là, che con un'altra donna in casa si deve star bene... — Le case vorrebbero essere rotonde con una donna per cantone. — E a quelli che s'innamorano aguzzargli i pali sulla schiena e piantarglieli... — ma si arrestò per rispetto dell'avvocato; senonchè il dado era ormai tratto e scoppiò a ridere volgendosi al compagno. Carlo, che aveva inteso, li guardò allontanarsi così allegri, e mormorò tristamente: — Hanno ragione. I due contadini erano scomparsi; Carlo rimase ancora solo. Come tutto era bianco e freddo! Attendeva sempre, ma l'anima in quella aspettazione gli si prostrava invece d'impazientirsi. Tutta la sua energia l'aveva consumata nella notte. Oramai si rassegnava ad essere venuto inutilmente: i contadini avevano proprio ragione: egli era stato un imbecille innamorandosi a quarant'anni la prima volta! Vennero le dieci, e stanco di quell'immobilità ritornò sui propri passi alla curva della strada, dalla quale si vedeva fino quasi alle mura, e nessuno! Sospirò, risalì, si spinse per la strada di San Michele, tese l'orecchio, acuì lo sguardo. Allora fantasticò, disse che la marchesa mancherebbe all'appuntamento, che non amava Del Pino, che aveva negato di venire all'Assisie per metterlo alla prova; ma nel più bello di questa argomentazione trionfante una voce sorse dal fondo della coscienza e gridò: no. Si smarrì, divagò, suppose un'altra passeggiata a San Luca, alla Certosa: quei due erano così stravaganti! Suppose che non la facessero, che fossero tuttora a letto, languidi della notte... Fu una idea micidiale, che volle invano respingere e che gli ravvivò tutti i dolori sofferti... Intanto il tempo passava. Le dieci ed un quarto, poi le dieci e mezzo: la seduta doveva cominciare alle undici. Bisognava risolversi; a che? L'anima gli si frantumava nella tempesta con quella natura intorno bianca ed inerte: l'opposizione di tale calma esteriore rese più violenta la tempesta e lo decise. Si ravvolse nel mantello dandosi rabbiosamente un pugno nel petto, e ritornò a gran passi verso la città: alla porta s'imbattè nei due contadini, che lo guardarono guardandosi fra loro. — Strada San Vitale, palazzo Fantuzzi! gridò ad un vetturino che passava, cacciandosi nel fiacre. Il cavallo, che era una rozza, seguitò il suo passo, mentre il cocchiere si alitava sulle mani intirizzite. Non ci volle altro. — E frusta, mascalzone! ruggì abbassando lo sportello: paga doppia, ma frusta. E lo incitò tanto che, offeso da quella prima parola nel suo sacro orgoglio di cittadino, il mascalzone si decise a frustare, ma non così il cavallo a correre, impedito dalla neve che scemavagli le poche forze lasciategli dalla fame. L'avvocato, che quelle piccole contrarietà facevano infine prorompere, scagliò bestemmie su bestemmie. Tutto gli si opponeva, persino le strade in molti canti barricate così che bisognava prendere delle giravolte: egli sbuffava dal caldo cacciando ogni tanto la testa fuori dello sportello. Finalmente infilarono via San Vitale: suonavano le undici. — Tardi! bestemmiò saltando dal predellino, che la carrozza si muoveva ancora. — La marchesa? domandò precipitosamente al portinaio, che spazzava l'atrio. — Che cosa? — È in casa? — Chi? — La signora marchesa, imbecille! — No, rispose più alla seconda che alla prima parte della domanda. Gli cadde il cuore. — È uscita a cavallo? — Un'ora fa. — Sola? — Sola. Quando entrò nella sala dell'Assisie la Corte era diggià seduta: il suo compagno della difesa cominciava a spaventarsi. L'accusata, chiusa nella gabbia di ferro, sembrava non accorgersi del pubblico e sedeva sull'ignobile panca, la fronte nella mano. Il suo viso, ancora giovane ma patito, aveva una malinconica espressione, resa quasi fosca dai capelli nerissimi, che mal pettinati, in treccie e in riccioli l'incorniciavano: era scarno, livido. La veste ampia e smollata non consentiva le forme della persona: ma la testa era di un bel carattere, vigorosa, cogli occhi affossati e nerissimi, le labbra sottili: la mano era secca e nervosa, il piede che spuntava dalla veste assai piccolo. Siccome all'entrare di Carlo sorse un mormorio negli spettatori, ella si rivolse, incontrò il suo sguardo e riabbassò indifferente gli occhi. Il processo era grave: trattavasi della testa. Arrivando al banco, Carlo cadde così abbattuto sulla sedia, che il compagno gli chiese sbigottito se si sentiva male. — Peggio, rispose con scherno doloroso. L'altro l'osservò stupito e non osò interrogarlo di più. Incominciarono le formalità: Carlo si volse al pubblico osservando le signore in prima fila, convenute in gran numero pel nome dell'avvocato e l'importanza della causa e il sesso dell'accusata — una donna che ha ucciso il marito a sangue freddo e senza un motivo apparente, bella, che può essere condannata nel capo, eccitava anche troppo la curiosità femminile: bisognava venire all'Assisie per penetrare quella fisonomia e leggere meglio del giudice nelle risposte, cogliere a volo la passione. L'accusata avrebbe paura? Svenirebbe se condannata nel capo? Problemi divertenti per gli sfaccendati, ed era il caso. Poi vi è sempre una certa voluttà a sentirsi libero e sano in faccia ad un altro prigioniero e moribondo. Carlo corse rapidamente tutte le signore collo sguardo senza fermarsi ad alcuna, sebbene più di due begli occhi cercassero di incontrarsi ne' suoi per vanità. L'interrogatorio proseguiva: l'accusata rispondeva con voce franca ma velata, senza iattanza e senza paura: si era passata una mano sui capelli e composte le pieghe della veste. Confessò l'omicidio, ma quando il presidente volle spingersi oltre colle domande, gli lanciò un'occhiata breve breve e si chiuse nel silenzio. Le circostanze erano atroci. — Badate, egli le disse commosso da quella ostinazione: tacendo potete pregiudicarvi ed essere condannata nel capo. — E poi? Carlo la guardò: in quel punto era bella. — Somiglia quasi alla marchesa, e si volse udendo aprirsi la porta delle signore: entrava la principessa di San Marciano: nuovo rumore nella sala. Il còmpito del Pubblico Ministero questa volta era assai facile, giacchè la rea si era accusata di per sè quanto lo si potesse: però il coscienzioso magistrato non volle venir meno al suo carattere di sicario della legge e si scagliò contro la donna colla maggior collera artificiale. Il suo discorso, breve ma noioso, fu un continuo scoppiettio di razzi rettorici, di sentenze morali: a sentirlo, la società aveva bisogno di quella testa per reggersi sui cardini, o tutto era perduto, la morale, il matrimonio, la famiglia, il mondo, Dio e probabilmente ancora qualcunaltro. L'accusata non si scosse, o avesse un cuore molto duro o una mente molto distratta. Rispose primo e vantando la irresistibile eloquenza dell'accusa il compagno di Carlo, ma la sua difesa, basata unicamente sul fatto, somigliò all'altro discorso, come si rassomigliano quelle coppie di fantocci che ornano i caminetti, e avrebbe potuto passare inosservata anche con vantaggio dell'oratore. Venne la volta di Carlo. Vi fu un leggero bisbiglio, poi un silenzio di statua. Carlo si levò. L'accusata lo guardò curiosamente: il difensore era più pallido della rea. Stette un momento colle mani appoggiate sul banco e la testa china, poi l'alzò alteramente e con voce prima lenta, poi mano mano più sonora e concitata proruppe nel mezzo della questione. Il delitto era un delitto di amore, l'ostinazione della pallida accusata nel rifiutare ogni spiegazione il pudore della passione; e qui ebbe movimenti di vera eloquenza. S'indirizzò ai giurati, e cacciandosi nei laberinti di quell'anima, che non conosceva, li trasse seco frementi, li aggirò a lungo negli umidi sotterranei ove germinano le idee e i sentimenti: mostrò loro quelli che insinuandosi per i crepacci delle volte arrivavano all'aria aperta ed al sole, gli altri meno fortunati che strisciavano al suolo o si abbarbicavano alle pareti, talora giungendo ad abbracciare le radici delle piante felici e a soffocarle colla dolorosa vendetta del vinto. L'analisi era viva, colorata, sensibile a tutti malgrado la sua finezza; commosso commoveva, onde accorgendosene ad una pausa si spinse oltre all'attacco, e negò quella testa al carnefice, negò alla società il diritto di morte, negò infine la colpa alla passione: fu oratore, fu quasi poeta, fu potente. Come fosse la cima di un monte vi salse prima correndo, poi ridiscese e risalì indicando alla gente ove mettere il piede negli scoscendimenti delle roccie: la salita era terribile, massime per gente borghese, ma l'avvocato ascendeva colla fronte luminosa: la sua voce toccava, blandiva, sferzava — bisognava buono o malgrado seguirlo, senonchè riguadagnando per la terza volta l'aerea cima cadde stanco egli stesso e dovette chiedere al presidente qualche minuto di riposo fra uno scoppio spontaneo, irresistibile di applausi. Tutti guardavano verso di lui e verso la rea, che ammaliata da quella potenza lo fissava immobile. Carlo era ricaduto colla fronte nelle mani. Si voltò alle signore e non vide la marchesa, bensì Del Pino. — Crudele! mormorò fra i denti. Ritornata dalla passeggiata, perchè non veniva alle Assisie? Questa durezza incomprensibile lo prostrò: fino allora aveva sperato e spesso nel calore della improvvisazione, udendo schiudersi la porta, sbirciava. Se ella fosse venuta, quella testa era forse salva! Dovette proseguire: senonchè tutto era in lui cambiato, persino il gesto e la voce; al bello e temerario oratore succedeva un floscio avvocato, che invece di negare quella testa la mercanteggiava cogli articoli del codice: e il discorso durò un'altra ora interrompendosi per ripetersi zoppicante, snervato, disgustoso; e svanita nel giurì e nella gente la prima impressione, il delitto riapparve nella sua luce sanguigna; il carnefice ridistese verso la testa della accusata la mano dianzi ritirata con ispavento. Nè a Carlo questo sfuggiva: sentivasi realmente venir meno, non aveva altra voglia che di finire, ma come accade spesso la parola gli avea rubata la mano, ed egli andava innanzi senza pensiero, quasi inseguendola... Finalmente tacque e al suo tacere sorse un bisbiglio di disapprovazione. Che cosa gli importava della folla? Degli applausi o dei fischi di chi non poteva apprezzare il suo ingegno nè attirare il suo cuore? Fischi ed applausi della moltitudine, aria percossa! In quella sala, peggio in quella folla, gli pareva di soffocare; sarebbe fuggito, se il compagno non lo distoglieva come da un atto indecente verso l'accusata, la quale lo guardava più intensamente di prima, quasi per leggergli in volto la passione, che lo aveva reso tanto dissimile da sè stesso in così breve lasso di tempo. Il presidente le chiese se avesse altro da aggiungere in sua difesa. — Nulla, rispose levandosi e lanciando al Pubblico Ministero un'occhiata di disprezzo; se non che pregare i miei giudici di accordare la mia testa a quel signore, purchè ritiri almeno la metà delle insolenze che mi ha prodigate con tanto coraggio. Questa risposta fu una folgore e tutti ne rimasero interdetti, perfino il presidente, egli stesso tanto avvezzo a strapazzare gli accusati. Il Pubblico Ministero, lo constatiamo con grande compiacenza, pregando ognuno dei nostri innumerevoli lettori di crederlo per quanto incredibile, fu ancora abbastanza uomo per arrossire di sè stesso. Oh! il rossore di tale che non vive se non perchè si uccida ed è stimato in proporzione delle vite immolate; che per mestiere odia i caduti e li calpesta, che cuccia il dito nelle piaghe e le lacera, e più trionfa, più la vittima si contorce nello spasimo, oh! il suo rossore consola, perchè ci rassicura della nostra spiritualità sempre viva nell'ombra e nel fango di ogni opera umana... L'avvocato era sulle spine: sapeva di aver perduto la causa; ma troppo incallito nel mestiere per provarne rimorso, e troppo orgoglioso per avvilirsi di un insuccesso, non pensava che a correre subito dalla marchesa per domandarle una spiegazione. Da due giorni aveva il cuore così gonfio di opposti sentimenti, che non versandone parte in un colloquio gli pareva di scoppiare. I giurati ritornarono dalla camera: il verdetto portava la condanna del capo. L'accusata l'accolse in piedi in attitudine modesta ma impenetrabile: non una nube le oscurò la fronte, non ebbe una contrazione alle labbra, un palpito nel petto; guardava colui che leggeva, poi girò gli occhi sul pubblico e più di una fronte legalmente pura si abbassò dinanzi alla pallida fronte della moribonda. II Pubblico Ministero non potè frenare un sorriso di trionfo, nè Carlo la propria smania, e fuggì. Corse diffilato al palazzo Fantuzzi. — La signora marchesa è in casa? — Sì. — Sola? La donna lo fisò meravigliata e fe' una smorfia. Comprese di aver detto una sciocchezza ed aggiunse: — Potrà ricevermi? bisogna che mi riceva; annunziatemi, ve ne prego, — e senza darle il tempo di rispondere si spinse nell'anticamera; la donna lo condusse al salone e ve lo lasciò. Era ancora più agitato: cominciava a sentire la difficoltà di una spiegazione non ridicola colla marchesa. Passeggiò su e giù pel salone fermandosi davanti al ritratto di una matrona, che nuda il seno malgrado il poco calore dell'ambiente, sembrava guardarlo sorridendo. Quel ritratto gli deviò i pensieri. Poco dopo intese da una stanza attigua un accordo di mandôla e la voce della mora, che cantava con accento melodico e appassionato: Oh t'amo! il sol ti sfolgora Nelle pupille, t'amo... T'amo... ogni accento spirami Sui labbri smorti... t'amo! Non mi guardar — mi palpita Troppo violento il cor... Della fanciulla è gracile L'innamorato fior! Schiava, vorrei rivendermi Sol per lambirti il piè; Farti un guancial del vergine Seno e soffrir per te. La romanza si smorzò così voluttuosamente, che l'avvocato si sentì correre al cuore un fremito di poesia e attese palpitando che ripigliasse. Zisa riprese: E amar ti lascia, o pallida Sultana del piacere... Schiava di te, m'innebrio Di schiava nel pensiere. Una catena argentea Mi serra il collo e il piè: Ad ogni anello un bacio E non invidio ai re, Nè le regine splendide, Nè le corone d'or, Le Urîs al cielo; un raggio Mi basta del tuo amor. Tremavano ancora le ultime note della mandôla, che l'uscio segreto si aperse e comparve la cameriera della marchesa accennando all'avvocato di entrare. Questi cadde da una meraviglia in un'altra maggiore, perchè la fanciulla non aveva altra veste che un ampio mantello azzurro, sotto al quale si vedevano i piedi stretti in sandali colle corregge egualmente azzurre: era accesa nel viso e le treccie nerissime le cadevano disordinate sul manto. Egli ubbidì al suo gesto grazioso e le passò innanzi senza osare uno sguardo, ma entrando nell'altra stanza si fermò percosso sulla soglia. Era uno spettacolo degno delle _Mille ed una Notte_! Quella stanza era una tenda di damasco violetto a fiori giallognoli, la quale cadeva in ampi panneggiamenti intorno a quattro colonne di bronzo sopra un tappeto certamente orientale, tanto era bizzarro nel disegno e splendido nel colore. Un canestro di filigrana d'argento sospeso alla vôlta e colmo di gaggie esalava un odore dolce e penetrante: sotto di esso quattro tartarughe sostenenti una grossa lastra di acciaio brunito formavano un tavolino cinto da cuscini neri ricamati d'oro: sul tavolino fumava ancora una tazza di caffè presso un enorme dente di elefante bucarellato da infinite sigarette; e in un canto, sovra un magnifico letto di bronzo, coi piedi a grinfe d'aquila in gran parte nascosti da una coperta di raso violetto, stava la marchesa sdraiata in un costume simile a quello della cameriera, ma tutto bianco e senza sandali ai piedi. S'appoggiava a una bica di cuscini, nudo un braccio sotto il capo scoprendo un po' di spalla, ma il manto avvoltolato strettamente le disegnava tutto il corpo. Era appena colorata in viso, gli occhi le splendevano e le splendevano le labbra e i capelli ancora più neri dei cuscini. Da un lato del letto luccicavano la sua grande arpa d'oro e uno specchio; la mandôla era sul letto, e sulla sua cimasa sopra una mensola di malachite olezzava un altro canestrino di fiori. A piedi del letto nuda sopra una pelle d'orso bianco, stava Zisa la mora. Vedendo entrare l'avvocato Zisa si alzò e le sue catene d'argento, come aveva cantato, tintinnirono. Infatti un collare sfolgorantemente brunito le serrava il collo, un altro in forma di cinto le reni e due altri gli stinchi e due i polsi e due le braccia, ma congiunti fra loro con catene di un bianco appannato. I capelli sciolti e cresputi erano costretti sulla fronte da un diadema di coralli meno rossi delle sue labbra, come l'argento era meno candido dei suoi denti. Più alta e più svelta della marchesa, Zisa era ancora più robusta: le sue forme erano di una forza e di una delicatezza inesprimibili; l'anche e le spalle superbe; ineffabile il seno, più rotondo che nella Venere; il ventre piccolo e lustrato come di onice, le giunture stupendamente fini. Una bella levriera le stava sdraiata ai piedi. — Siete proprio voi? esclamò la marchesa senza scomporsi: avanzatevi dunque, si direbbe che vi faccio paura. — Quasi! balbettò inoltrandosi e guardandosi intorno colla meraviglia del villano che entra la prima volta in un tempio. — Sulema, disse la marchesa alla cameriera, ravvoltola il tuo manto e fanne un sedile: qui. Sulema, scostati. Sedete dunque; davvero che se durate ancora in questo stupore, mi farete pentire di avervi ricevuto nel mio gabinetto. — Perchè non piuttosto nel vostro paradiso? — Sentiamo: perchè venite con tanta premura a sorprendermi nell'ora del bagno? Avete qualche notizia importante o qualche nuovo rimprovero? A proposito, e la vostra bella rea? — Condannata. — Nel capo? — Nel capo. — Avete dunque perduto? — E lo debbo a voi: voi mi avete insegnato a perdere le mie cause. — Cosichè mi odierete ferocemente; e la bella donna volgendosi sul fianco veniva quasi a porgli il seno sul capo. Eppure non avete trovato finora una donna di me più generosa. Sono bella: vi permetto di dirmelo, di amarmi; mi lascio corteggiare, vi lascio essere geloso, vi ricevo come non ho mai ricevuto nessuno... — Nemmeno Del Pino? — Avvocato! ribattè con un ghigno adorabile a questa indiscreta interruzione: vi ricevo nel mio _Sancta Sanctorum_ ed osate lagnarvi? E se vi dicessi che siete voi l'ingeneroso, che amandomi furiosamente da due o tre mesi non mi avete ancora offerto un piacere o un dolore per i tanti che vi ho prodigati?... Ma perdono, adesso vi umilio e dimentico che siete già un uomo illustre e che non vi manca forse se non una grande passione per divenire un grand'uomo. L'avvocato non si riscosse nemmeno all'accento civettuolo di queste ultime parole. Quella scena lo stordiva ancora più che non l'ammaliasse. Che cosa era quel gabinetto per la marchesa? Quella donna nuda ed incatenata? Perchè riceverlo così? La mente gli si aggirava rapidissima per mille supposizioni. che svanivano, appena toccate, come bolle di sapone; intanto l'odore dei fiori e quelle nude bellezze gli pungevano i sensi lanciandoli sfrenati come i cavalli di una biga. Una fiamma gli ardeva così cuore e volto, che se la marchesa non gli avesse imposto rispetto, avrebbe nitrito come un cavallo. Ma l'ebbrezza soffocata gli si condensava sempre più nell'anima, scuotendogliela con tremoti di vulcano, e acciecandogliela col fumo. Elisa, che lo guardava, vedendogli fare come un gesto sonnambulo: — A che pensate? gli chiese. — A voi! rispose in inglese, per evitare almeno nel dialogo la presenza della schiava. — E ne pensate male, certamente! — Ebbene, sì. Perchè ricevermi in questo gabinetto? Non siete una donna comune per amare lo scandalo, supponendo ch'io vada a ridire ciò che mi avete mostrato, e non volete sedurmi, perchè non mi amate. Ascoltatemi, signora marchesa: avete ragione; siete tutto ciò che io non sono, siete bella, nobile, splendida... e io non sono che un povero avvocato, un povero nulla: vi ho amato, vi amo per quanto può amare il mio cuore, ma perchè forse mi manca quella poesia di immagini e quella musica di parole del vostro discorso, stimate piccolo il mio cuore. E quando anche lo fosse? L'ovo è pieno e il fiume lascia qua e là scoperto il proprio letto. Potevate rifiutare il mio amore da gran signora, ma lacerarlo a colpi di spillo, come Fulvia la lingua di Cicerone, è vendetta di miserabile e non di potente! E quanto erano più dure le parole, era più malinconico l'accento. — Lo so che siete bella, continuò con crescente emozione, e non occorreva la splendida insolenza di questo manto per farmene accorto. La marchesa corse allora sulle proprie forme collo sguardo, quasi per accertarsi di meritare il rimprovero: egli seguiva con gli occhi gli occhi di lei, e siccome la marchesa tardava a rivolgerglieli, le prese la mano libera sul letto e la strinse. — Per carità spiegatevi. — È troppo difficile. — Temete che non vi comprenda? sono dunque imbecille? — L'ingegno, chi ne dubita? ma il cuore...? — L'ho, ve lo giuro. Ella tacque e guardò il gruppo delle schiave, che distratte fra loro non parevano prestare alcuna attenzione a quel dialogo. — Iela! si volse chiamando la bella levriera: dammi un bacio. Alla voce della padrona l'animale fe' uno sbalzo e si mise tosto a lambirle la mano con tanto amore che gli si dovette imporre di cessare: poi la marchesa chiamò Zisa ripetendole lo stesso ordine e le tese un piede così impercettibilmente, che l'avvocato non accortosene, sorrise alla scelta della mora di baciare quel candido piedino: indi Sulema, e questa la baciò sulla bocca appoggiando una mano sul cuscino, così che egli sorprese fra i loro seni lo sfiorarsi delle loro labbra. Ambedue le schiave si muovevano con disinvoltura di donne perfettamente vestite. — Adesso scegliete, gli si rivolse la marchesa: datemi un bacio. L'avvocato strabiliò: ma ella lo fissava con tanta potenza, che si levò: non osava, ed ella fredda al pari di una statua non arrossiva, non trepidava, coll'occhio immobile del serpe attirandolo irresistibilmente. — Si curvò, si curvò lentamente, si curvò ancora su quel viso inerte, su quell'occhio luminoso, inflessibile... oh, era un bacio impossibile! Pure seguitò a curvarsi sulla bocca... non un alito, un fremito — allora chiuse gli occhi da disperato ed avventossi ad un bacio come chi si lanci nel vuoto. Ma in tale positura gli mancò un piede e cadde quasi sulla marchesa: potè rattenersi, e volgendosi al rumore delle catene agitate si vide dietro Zisa pronta a sostenerlo o a strapparlo dal letto. La mora aveva gli occhi fiammeggianti. — Non avete cuore, gli disse la marchesa respingendo la schiava con un'occhiata; un bacio sulla bocca! e non avete capito che vi era infinitamente più amore nell'altro di Zisa sul piede, e che un innamorato posto così alla prova doveva preferire l'amarezza di non baciare alla volgarità di ripetere il bacio di altri? Non intendete la poesia del dolore e non sarete mai che un mediocre voluttuoso. Bisognava baciarmi cogli occhi, offrirmi una lagrima; temevate che non vi comprendessi? Carlo spalancò gli occhi. — Oh spieghiamoci, ella proseguiva animandosi: me lo avete chiesto con ragione. È impossibile, non sarete mai il mio amante: voi non siete che sensuale e io sono voluttuosa: io voglio la bellezza, le voluttà raffinate dei poeti, lo splendore del lusso, l'ebbrezza della febbre... Il mio amante dovrebbe offrirmi tutto ciò, incoronarmi di fiori e pungermi di spine, essere bello, genio, forse pazzo, forse anche cattivo, e voi non lo siete — ringraziatene il cielo. Le mie donne, guardatele; sono belle come statue greche: voi me le rimproverate: non ci intenderemo giammai. L'amore, come lo concepisco io, non ha nè oscenità nè pudore, perchè la sua voluttà purifica quanto il fuoco, e nella sua armonia si perde ogni dissonanza. Se amassi un uomo raddoppierei il numero delle mie donne e gliele offrirei come un mazzo di fiori, egualmente beata, si compiacesse egli nell'ultima ancella o nella prima sacerdotessa del tempio. Queste parole vi sembreranno pazze — e vi sembrino. Stranieri di due mondi, ci siamo incontrati a caso, abbiamo creduto di poterci accompagnare e invece ci dividiamo stranieri; però dividiamoci amici. Soffiate sui vostri sogni come sulla polvere caduta sopra un cameo e conservate netto il cameo della vostra ragione. Partirò, mi dimenticherete e tutto sarà finito. — No. — Illusioni! — Vi amo. — Parole di amore, aria ricamata! — Addio, e gli tese la mano; perdonatemi di avervi ricevuto così. — Questa è la freccia del Parto. — Che non vi ucciderà. Carlo non poteva rassegnarsi a partire. Più ella gli mostrava l'impossibilità del loro amore, più vi si ostinava colla testardaggine delle passioni, che attaccate di fronte raddoppiano le forze nella resistenza. In questa tirata sull'amore non aveva tutto capito, ma quell'idealismo della voluttà non gli era passato invano sull'anima. Solitario e robusto abete alpino sentendosi fra le frondi use ai veli ricamati della brina una folata di profumi involati ad una palma, gli sembrava di destarsi dalla propria vita gelata a non so quale altra vita.... Quei tiepidi ed incogniti olezzi erano pur deliziosi! Qual cielo sorrideva sul capo della pianta felice, che li esalava? Quali uccelli facevano il nido fra le sue foglie e vi si davano appuntamenti amorosi? L'abete palpitava, ma laggiù nel deserto la palma incoronata di sole, avvolta negli odori, non pensava che a sè stessa o ad un'altra palma.... Era oppresso, si sentiva mancare il respiro. — Sir Charles. — Milady. — Mi perdonate? e la voluttuosa guardandolo languidamente stiravasi nel manto, come una leonessa al sole aspettando il leone. — Dunque addio: egli dava la mano per invitarlo a sorgere. Egli ubbidiva. — Aspettate; si gittano fiori sulle tombe: voglio gettarne uno sulla fossa del vostro sogno. Sorse seduta, cosichè il manto disciogliendosi le lasciò quasi nudo il seno: afferrò la mandola e passandosi prima una mano sulla fronte come per correggere un riccio o ghermire una idea, lo guatò con occhio corrusco e cantò: Vola, fuggiasca rondine, Che vengo teco a vol; Tutto è qui morto, o rondine, Dove dirizzi il vol? Lontan, lontan ceruleo Sorride il ciel, sorride Più alto il sole; o rondine, Quale più ti sorride? Vola, fuggiasca rondine: Fuggiasca volerò... Tutto è qui morto, perdermi Lontan, lontano io vò! — Lontan lontano io vò, ripetè abbandonando la mandola e coprendosi il volto leggermente arrossito. — Dunque addio... — Addio, mormorò stringendole la mano e contemplandole il seno, come il condannato contempla il cielo nel salire i gradini del patibolo: però non si spiccava, ed ella in atteggiamento fra il languido e il modesto non si muoveva sotto quegli occhi fiammeggianti. L'avvocato ebbe una forte contrazione nella faccia: le si chinò improvvisamente sul volto. — Mi provocate, brontolò sordamente: e se accettassi? Sono più forte di voi. — Provate. Egli non si mosse; stettero qualche secondo scontrandosi col lampo minaccioso delle pupille come colla lama di un fioretto, ma vinse la donna. Quegli occhioni avevano una luce intollerabile e dura quanto il riverbero al sole di uno scudo brunito. L'avvocato dovette abbassare i suoi. — Accompagnate il signore, gridò la marchesa a Zisa congedandolo con un gesto. Egli uscì lentamente, macchinalmente senza comprendere, nè rivolgersi: e Zisa ritornando trovò la marchesa nella stessa attitudine, ancora torva in viso. — Leonessa! esclamò, inginocchiandosi presso il letto: non vorrei che una tana e vivere sempre con te.... CAPITOLO VII Le sceptique qui n'ose douter de sa mère c'est comme l'athée, qui rumine Dieu lorsque le tonnerre gronde — blague et faiblesse! Le rire de l'ironie ne convient qu'aux forts et si tout philosophe est cousin d'un athée, tout rieur est neveu d'un gladiateur. _Reponse à Lamennais_: Paroles d'un incredule. _Opere inedite._ — OTTONE DI BANZOLE. Innamorato al di là delle proprie forze, dopo quella scena teatrale, Carlo non pensava più che alla marchesa; non studiava, non andava al foro. In casa triste ed accigliato non s'incontrava con Mimy che a pranzo, ma evitava perfino di doverle parlare, quasi le odiasse il privilegio di piacere alla marchesa. E Mimy, delicata quanto una sensitiva, soffriva di queste maniere, ma non osava lagnarsi, pensando ai propri torti verso il marito, perchè Mimy credeva ancora l'adulterio una colpa, malgrado l'audacia di certe massime del suo giornale: e quelle acerbità ne erano come la pena. Quindi, ritirata nel suo roseo gabinetto, tutto il giorno meditava e piangeva sulla sua triste vita e sul più triste avvenire, spesso consolandosi con Giulietta, che soave di anima e come donna incline alla cura degli infermi, riceveva quegli sfoghi di amarezza senza l'indiscrezione di volerli scrutare. Le due donne si amavano di profonda e tacita amicizia, e sebbene differenti di natura, perchè Mimy aristocratica nel senso più elevato della parola, e Giulietta plebea, armonizzavano tra loro come un bel fiore con una bella erba. Giulietta sapeva della tresca col cugino e la disapprovava molto vedendone soffrire Mimy, ma entratavi complice rispettosa portando più di una lettera o vegliando più di un appuntamento, non le aveva mai fatto sentire nemmeno con uno sguardo tutta l'importanza del servigio: e adesso che Giorgio era stato respinto, le lettere arrivavano più frequenti per mano di Namouna. L'egiziana, che sapeva tutto parimenti, sulle prime aveva recalcitrato a far da corriere: poi per amore o per debolezza aveva dovuto cedere al padrone. Quella notte che Carlo passò così malamente sotto le finestre della marchesa, Giorgio ricondusse Mimy nella propria carrozza. Per strada non dissero una parola, ma giunti a casa, invece di separarsi, Giorgio salì da lei. Erano entrambi scontenti: sedettero guardando la fiamma. Giorgio si stancò presto di quel silenzio e volle ritentare la prova del mattino: usò ogni spirito per introdurre la conversazione, fu brioso, passionato, e non ne fece nulla. Mimy non lo ascoltava nemmeno; questa noncuranza lo esasperò. — Ve l'ho già detto, gli rispose con dolcezza: voglio vivere sola i giorni che mi avanzano. — Invecchierete presto. — Lo spero. Il suo accento era così sconsolato che Giorgio ne fu commosso. Si levò, ella gli tese la mano. — Perdonate, disse non badando all'impeto col quale gliela stringeva, se vi sono causa di dolore: so che mi amate più di quanto mi meriti, ma non posso amarvi e non voglio ingannarvi; lasciatemi questa ultima onestà. Un singhiozzo le tagliò la voce. — Mimy! gridò appressandosele. — Oh! andate, ve ne prego, e lo spingeva dolcemente. Egli indietreggiava sempre guardandole negli occhi tremoli di lagrime. — Ditemi almeno perchè piangete, se vi debbo perdere; darei la metà della vita perchè piangeste per me. — Cattivo! se lo sapeste... vi pentireste di questo desiderio. L'indomani, nell'ora che Carlo entrava alle Assisie, egli ritornava da Mimy, ma Giulietta gli disse che la padrona era a letto indisposta e non riceveva visite: il volto della buona fanciulla era così triste che Giorgio non dubitò un momento della sua sincerità. Però insistette per essere ammesso, promettendo che si fermerebbe nel gabinetto a guardare nella camera dal buco della serratura, e le offerse per prezzo del favore un ricco anello che portava in dito — tutto fu inutile. La fanciulla, sebbene scossa un momento dallo splendore del dono, trovò nel suo affetto per la padrona abbastanza forza contro l'avarizia. Giorgio dovette andarsene dopo avere scritto sopra una carta da visita questi due versi dell'Aroldo: Ei che ama Delira. Amore è frenesia. Peggiore Però del male il risanare estimo. Ritornò la sera e scelse l'ora del pranzo per eludere la consegna di Giulietta: infatti li trovò a tavola. Mimy lo salutò freddamente, Carlo gli fece appena un cenno col capo. Era burbero, l'altra languida e sofferente. Scambiarono qualche parola con fatica. Appena finito il pranzo ella si ritirò. Rimasti soli, Giorgio che sapeva di dominarlo malgrado la grande sproporzione di dottrina, affrontò risolutamente Carlo parlandogli della marchesa: ma questi esacerbato dalla scena poco prima subíta e inadatto a una guerricciuola di motti esplose, felice di avere qualcuno contro cui sfogare l'amarezza concepita contro sè stesso. Era come una rivolta di plebeo contro un nobile, e quindi senza misura. Carlo giunse fino alle insolenze. Se Giorgio non fosse stato buon gentiluomo e uomo di spirito chi sa come finiva; ma potè a stento troncare la scena e coprirsi la ritirata con un motto brillante come un razzo. Partì in modo che ritornare non era punto facile. Così passarono più giorni. Il secondo era stato per Mimy giorno di ricevimento. Molte signore della ricca borghesia le si erano recate in visita. Già nella città vociferavasi degli amori di Carlo per la marchesa di Monero e di Giorgio per Mimy, cosichè il pettegolume vi ricamava sopra le più minute e false storielle, e siccome gli amanti erano tutte persone di levatura, si faceva loro l'onore di un più cieco accanimento, di una più acerba maldicenza. Tutti gli oziosi, dei quali la vanità soffriva a contatto di ogni notorietà, si godevano alle calunnie propalate, come gente assiderata al sole: oramai nei club e nelle case non si parlava che delle stranezze del conte De Vinci, il quale già dissestato finiva di rovinarsi nei più pazzi capricci; e di Carlo, che geloso di Del Pino, il favorito della marchesa, non compariva più in tribunale o comparendovi vi commetteva, mal preparato o distratto spropositi da principiante. Dal barbiere alla modista, dal pizzicagnolo al patrizio tutti erano occupati dello stesso soggetto, tutte le fantasie sbrigliate nel medesimo campo, tutte le malignità sguazzanti nel medesimo pantano — alcuni lioncelli della moda passavano dieci volte al giorno sotto le finestre dei nostri personaggi, quasi nella speranza di sorprendere una scena; e delusi la inventavano, conchiudendo forse per crederla a forza di ripeterla. I vicini del palazzo Fantuzzi e della casa Mimy stavano alle finestre colla costanza delle sentinelle: le borghesi s'invelenivano contro questi amori così forti da attirare tutti gli sguardi della città, le patrizie ingelosivano che Mimy, una borghese, fosse la principessa reale di Bologna e il più splendido degli eleganti ne andasse pazzo; gli avvocati e la gente seria dicevano cose orrende di Carlo, fingendo di compiangere il suo amore disgraziato per una donna, forse una avventuriera, di costumi insopportabili, che aveva ancora più amanti che cameriere. Si parlava di tutti loro come di un gruppo di soli discesi ad appollaiarsi sui merli della torre Asinelli. Quindi ognuno di essi conosceva la mala parte che recitava in paese, ma nessuno ne soffriva più di Mimy: ella non comprendeva quelle velenose ed instancabili miserabilità; arrossiva, spasimava ad ogni puntura di zanzara come a una unghiata di tigre. E in quel giorno, essendo state sgombrate le strade dalla neve, si presentarono più signore del solito: Mimy riceveva nel gabinetto roseo. Cinque o sei signore e due giovanotti, belli quanto un figurino di mode, ma ancora più insipidi, la torturavano parlando di Giorgio e della marchesa di Monero. Colla ferocia delle donne, esse le chiedevano ingenuamente quale nuova passione rendesse così stravagante il conte, e la consigliavano a giovarsi di ogni mezzo per rimetterlo sulla buona via. Non si sapeva perchè quel povero giovanotto volesse stordirsi così: ieri sera aveva dato una cena mostruosa, poi scommesso col marchese Del Pino di andare e ritornare da Castelfranco in così poco tempo, che uno dei cavalli era morto ed egli s'era quasi accoppato nel cadere. Mimy si schermiva alla meglio, ma dopo Giorgio entrava in scena la marchesa e le allusioni diventavano più fini, i morsi più atroci e gentili; si voleva offendere la donna e la moglie, mettere non solo il veleno, ma l'amaro in ogni parola e nullameno indorarla: nulla di più sorridente, un cicaleccio di squisitezza neroniana. Giulietta entrò con un mazzo e una carta da visita. Era un dono di Giorgio. «Mia bella cugina, Essendo ammalato, non posso profittare del vostro giorno di ricevimento: vi mando un mazzo di fiori, che ho fatto comporre da Namouna e che vi prego di accettare. So che amate i fiori: io li invidio — nutrirsi di luce, parlare profumi, essere l'amore della gioventù, della bellezza e dell'amore... quale destino! — Ah! il conte Giorgio De Vinci! esclamarono le signore in coro. Come sta? Guardate che bei fiori: sempre gentiluomo, sempre elegante! E assediavano Mimy; si sarebbero lasciate strappare un occhio, e qualcuna ne aveva dei passabili, pur di strapparle quel biglietto. Leggere quel biglietto! certo v'era qualche parola di amore... — Non sarà dunque gravemente ammalato se scrive: o ha fatto scrivere? domandava la moglie di un avvocato arricchitosi per tempo malgrado la notoria incapacità. Mimy le tese il biglietto. Questa lo prese con avidità mal dissimulata e lesse tanto prestamente che parve non comprendere; intanto le altre avrebbero voluto fare altrettanto o almeno leggerle al disopra delle spalle. Ella rilesse e restituì il biglietto con aria fra l'ebete e lo scontento. Aveva sperato una dichiarazione d'amore e non l'aveva capita. Vi fu un momento di silenzio. Mimy si sentiva sulle spine: quelle donne brutte, mal vestite, volgari, cattive le erano odiose: i loro discorsi maligni, la loro famigliarità senza abbandono e senza aristocrazia l'irritavano dolorosamente traendola alla mestizia. Le paragonò colla marchesa e il cozzo dei contrasti fu così violento che ne ebbe come le vertigini; ma a salvarla rientrò Giulietta annunziando: — La principessa di San Marciano. Tutte quelle borghesi scomparvero immediatamente nell'ombra e Mimy sola sostenne favorevolmente il paragone con lei, malgrado una evidente inferiorità di brio e di alterigia. Le due donne si rassomigliavano in certa guisa, entrambe pallide e gracili, ma la bellezza di Mimy era plastica e quella della San Marciano unicamente di espressione. Forse aveva la persona troppo slanciata, forse il collo sebbene flessuoso mancava di mollezza come tutte l'altre membra rivelate arditamente dall'abito: le scapole le sporgevano, la vita le si allungava soverchiamente, ma la sua figura con tutti questi difetti, e chi sa anche per questi difetti, aveva un vivace ed acre prestigio. Il viso estremamente piccolo e rotondo, appuntato nel mezzo, colpiva pel bianco spento e l'incredibile finezza della carne, quanto pel contrasto della bocca grandissima e di una soavità infantile col nasino, che spiccandosi abbastanza serio dalla fronte coperta d'una infinità di ricci, si rivolgeva gaiamente alla punta, interrompendosi come un epigramma troppo ardito. Gli occhi erano di quel colore, che laggiù in fondo all'orizzonte segna confondendoli i confini del mare e del cielo, e avevano una affascinante incertezza di espressione, mobili come il mare, sorridenti come il cielo, fulgidi colla volubilità delle onde e la trepidazione dell'azzurro. Sebbene giovane, doveva aver molto vissuto. Una indefinibile esperienza della vita le si leggeva quindi nella gracilità quasi affaticata dei lineamenti, e a ogni reticenza del sorriso, a ogni guizzo dello sguardo si rivelavano mille misteriosità della sua anima, come in mare al gonfiarsi o allo sfasciarsi di un'onda variano e si centuplicano i fluttuanti paesaggi. La principessa, che comprese la posizione di Mimy, volse appena un'occhiata al gruppo delle borghesi, che si sforzavano titanicamente di assumere un nobile contegno, e colla adorabile scortesia delle persone perfettamente aristocratiche si strinse con Mimy, quasi fossero sole, parlandole vivamente in inglese. Mimy si spaurì dell'audacia, le borghesi fremettero, ma nessuna si trovò tanto spirito da accettare la battaglia: susurrarono fra loro e decisero la ritirata in corpo. In quella la principessa levavasi per prendere il mazzo di Giorgio e si rimetteva al fianco di Mimy, lodando i fiori e il disegno. Fu il segnale della partenza. La principessa in piedi, una mano sul tavolino e la fronte alta ricevette i loro saluti piuttosto goffi, rispondendovi appena e seguendole collo sguardo fin sotto il cortinaggio della porta, e quando Mimy accommiatata l'ultima signora si rivolse, le mosse incontro, le strinse affettuosamente la mano e si riassisero senza un commento. Chiacchierarono. Il vespero oramai imbruniva e l'ora del ricevimento passava. Mimy non temè di altre visite. La San Marciano molto gaia parlava di tutto: Mimy ascoltava a volta a volta sorridendo e ammirava l'amica: ma era deciso che quello fosse un giorno sciagurato e capitò la mamma a guastarle il colloquio. La San Marciano si levò; aveva quella donna in antipatia forse pel suo carattere, forse anco pel naso così rosso, che sarebbesi detto vi si fosse rifugiato tutto il suo pudore e bloccato su quella punta estrema, arrossisse di vergogna. — Quest'oggi, carina, pranzo da te, questa disse appena furono sole, slacciandosi la mantiglia e dandole un bacio. Mimy, pensierosa, non glielo rese. — Che bei fiori! chi te li ha mandati? Scommetto che sono della marchesa: quella donna è ben impudente. — Impudente! — Ma chi è questa signora da fare tanto chiasso a Bologna e che trova tutto brutto e ridicolo? La se ne vada e ci farà un gran piacere. Povera Mimy! tu sì buona la tratti da amica e non sai che ella ti rende la favola di Bologna. Mimy la guardò strabiliando. — Vieni qui, fanciulla mia; e sempre accarezzandola proseguì a spiegarle l'obbrobrioso contegno della marchesa, la quale le seduceva il marito mostrandosi tenerissima di lei; e tutta la città ne rideva. Una donna che in fondo non si sa chi sia: una avventuriera, che ostenta gli amanti e ha già guastato quel povero Del Pino, tanto bello! povero giovine... Hai parlato mai della marchesa con Giorgio? tienti a lui: quello è un uomo. Bisogna che Carlo sia ben... oramai lo dicevo, per posporti a lei, una donna che avrà quarant'anni — però, se tu non sai difenderti, c'è la mamma, sai? — Ma..., — Lascia fare alla tua mamma: ne ho della esperienza io. Senti: Carlo non ti merita e, se tu non lo avessi voluto, non te lo avrei dato. Ingannarti così villanamente! non sa egli che quando si è brutti a modo suo e si ha una moglie bella bisogna farle i punti d'oro? Giacchè è brutto, avesse almeno il cuore e lo spirito di Giorgio: ti piace Giorgio, Mimetta? — Mio Dio, che cosa è? cosa intendete di fare? — Nulla: mi sentirà; bisogna salvare la tua dignità di moglie. Quella donna non metterà più il piede in casa tua, e Carlo lascerà la tresca nella quale perde la sua e la tua riputazione. Giulietta portò il lume ed avvisò che il signor Carlo era arrivato. — Entri. — Per carità, mamma... — Arrivate solamente adesso? questa gli chiese, ch'era ancora sulla porta, coll'accento di un colonnello. L'altro levò stupito la testa. — Ritornerete già da casa della marchesa? — Quale? ebbe lo spirito o l'ingenuità di rispondere. Ella quietò Mimy con un sorriso di superiorità, ed avanzandosi verso di lui con passo solenne: — Ho bisogno di parlarvi seriamente: concedetemi un quarto d'ora. Carlo guardava la moglie, questa, per disimpacciarsi, i fiori. La mamma lo trascinò nella stanza attigua chiudendone accuratamente ogni uscio. — Che c'è? — C'è... Oh l'affare è grave per me e per voi, per la madre e per il marito. — Ma infine... — La mia Mimy è infelice per colpa vostra: perchè innamorarvi della marchesa di Monero così che tutta Bologna lo sa? Mimy è più giovane, più bella, lo dico con orgoglio di madre, e l'abbandonate in un angolo. — Che cosa dovrà farsi della sua gioventù? — La si diverta, è ricca: chi glielo impedisce? egli rispondeva scontento della piega del dialogo. — Si diverta? bella! con chi? col marito no: il signor marito, è inutile! replicò ad un suo gesto di diniego, è innamorato della signora marchesa. La povera Mimy non voleva dirmelo, ma gliela ho strappata questa amara confessione, e ha pianto. Sapete che ci vuole un bel cuore a far piangere così una fanciulla! Mi ha confessato tutto: la trattate perfino male. So tutte le visite che fate alla marchesa, le ore che passate sotto le sue finestre, mentre gli altri sono dentro. — Gli altri? chi!? — Gli altri. Siete innamorato come un giovanetto: non sapete conquistare l'amante e perdete la moglie. L'avvocato fremeva. — So tutto io... — Allora che cosa volete da me? Andatevene. — Voglio darvi un consiglio, replicò quasi non avvertendo l'asprezza dell'ultima parola. Calmatevi: mio Dio! fate certi occhi che spaventano; come mai la marchesa vi resiste? e un maligno sorriso commentava l'insulto. Ascoltatemi. Io conosco Mimy meglio di voi: ha un'anima romantica, ha bisogno di amare, e voi la trascurate. Potreste ingannarvi; adesso non parlo al marito, perchè so che è geloso, ma all'avvocato: ho paura di Giorgio; si sono voluti bene fino da fanciulli. Giorgio è bello, è un elegante, ha tutte le qualità per piacere. Non vi siete ancora accorto che fa la corte a Mimy?... Oh non vi spaventate. Mimy è tuttora innocente, ma seguitate a tradirla palesemente ogni giorno, e poi lagnatevi dopo. Se voi non amate Mimy, l'amo io, e vi dico: guardatela, altrimenti ci guarderò io. Non voglio che si dica male di mia figlia. Non vi siete proprio mai accorto di nulla? ripeteva squadrandolo con aria di compassione. — In nome di Dio, che cosa è? difendete vostra figlia o l'accusate? — Eh? — C'è da impazzire: e Giorgio...? — Basta, basta. Carlo si agitava a mano a mano che l'altra sembrava disposta a non andare oltre. — Ditemi dunque qualche cosa. Si veggono? dove? — Qui, in casa vostra; ma non vi scaldate: Mimy è una moglie onesta che non vi tradirà. — Già! — Dubitereste! voi suo marito: andiamo, venite di qua, Mimy potrebbe insospettirsi, e non è bene. Non venite? — Certo si scriveranno... adesso ci penso. Giorgio veniva bene spesso al casino, per Dio! — E voi andavate dalla marchesa: la partita sarebbe pari, ma non lo è. Così dicendo sorrideva. Egli l'avrebbe schiaffeggiata volentieri: sentiva tutta l'infamia del suo procedere, ma temeva che avesse ragione. — Via andiamo. — No. — Ma ho promesso a Mimy di pranzare con lei. — Andate pure, non ho fame, e le volse le spalle. Ella rientrò nel salottino. — La signora, le disse Giulietta, si è ritirata nella sua camera e mi ha lasciata a pregarla di pranzare col signor Carlo, perchè ella non si sente bene e vuole stare sola. La baronessa fissò un momento la fanciulla, e un ghigno rabbioso le contrasse la bocca. S'avvide di essere giocata, ma troppo vecchia e cattiva per mancare di abilità, dissimulò l'ira: si fe' aiutare da Giulietta a rimettersi la mantiglia e partì raccomandandole ogni cura per Mimy e di correre subito ad avvertirla se il male peggiorasse. — Mi sfidano: la vedremo. Perchè? La baronessa Clelia Carretti era la madre di Mimy, ma non sarebbesi potuto giurare che Mimy fosse figlia del marito di lei. Nata in una nobile famiglia decadente, un giorno la baronessa Clelia aveva sposato un ricco borghese; e quell'altro giorno lo aveva rovinato grazie a un lusso smodato e poco intelligente: quindi la moglie, che aveva accettato il marito ricco, lo trovò insopportabile povero: questi che l'aveva amata per la carne e per la vanità, la scoperse una donna molto imperfetta. Le liti scoppiarono prima rare e sommesse, poi violenti, solite, quotidiane seguendo l'aire dei debiti e delle ipoteche. Mimy capitò in quella burrasca e nascendo non trovò più il padre andato alla Certosa prima di andare alla malora; ma uccise quasi la madre. Povera fanciullina! per punizione fu messa in campagna: nessuno andava a trovarla. La mamma aveva toccato a tempo una grossa eredità e di prodiga s'era fatta avara mantenendosi dissoluta. Quando Mimy fu grandicella la misero in convento, quando fu grande le fecero sposare Carlo senza dote: ma uno zio impietositosi ebbe la gentilezza di morire nominandola erede universale: un mezzo milione, e di colpo la figlia si trovò più ricca della madre. Allora scoppiò la rivolta. Mimy, che aveva sempre sopportato e taciuto nella casa materna, non volle più oltre il giogo della madre nella casa coniugale e mutò modi; la trattò freddamente, le disobbedì, non la ricevette, la costrinse ad indietreggiare senza dar luogo a scene malgrado il carattere della baronessa, un miscuglio di volgarità e di ferocia. Questa resistette tentando di appoggiarsi al marito, ma contento della eredità di Mimy quanto scontento della dote negata e di quell'intervento in casa propria, che Mimy con abilità donnesca faceva irritantemente risaltare, egli non le badò e la baronessa dovette ritirarsi. Poco dopo uscita la baronessa dalla famiglia vi entrò la marchesa — perchè adesso colei voleva rientrarvi e a quella maniera? Perchè la mamma odiava la figlia? Il problema è difficile e non ardiremo darne la soluzione; solamente Mimy era bella, aveva il cuore buono, l'intelligenza lucente e la baronessa non era mai stata che plebeamente appetitosa e ora non lo era più: l'una brillava nel meriggio, l'altra si oscurava nel tramonto. Mimy aveva il dono di attrarre: la baronessa repelleva, del che accorgendosi peggiorava. Mentre Mimy era buona perchè amabile, l'altra era cattiva perchè scontenta di sè medesima: un raggio ed un'ombra, un sorriso e un sogghigno. La mamma aveva voluto sacrificare la figlia, e, non riuscitavi che a mezzo, l'offesa ritorcevasi adesso contro l'offensore. Mimy borghese fu accolta amabilmente dalle poche vere dame di Bologna, l'altra nobile era appena tollerata, e se voleva un amante doveva noleggiarlo; così l'agonia della vanità le si incrudeliva nell'agonia del sesso. Ma se la mamma odiava la figlia, questa analizzando sè stessa non aveva mai osato analizzare tale dolorosa avversione: la sentiva, l'evitava, se la nascondeva alle volte come camminando lungo un dirupo ove altri già pericolò, si rifiuta di guardare il ciglio fatale e si allunga il passo. CAPITOLO VIII Si la mer n'eût des tempêtes sa beauté diminuerait énormément: le doute est la tempête des passions, qui doublant leur force double aussi leurs attraits. Rien n'est si enivrant que la lutte de la lumière et de l'ombre, de l'espérance et du désespoir, du génie et de la folie. Le doute tant des fois calomnié vaut bien la foi, et son vertige micidial l'extase stupide. _Lettres à Barié_. — OTTONE DI BANZOLE. Mimy era da due ore nel suo gabinetto quando Giulietta introdusse Sulema, l'araba della marchesa, vestita con eleganza di grande signora. Mimy diventò rossa, le tese la mano, quasi l'altra non fosse una cameriera; ella invece di stringerla se la portò rispettosamente alle labbra e: — Permettete, signora: bacio per la signora marchesa, le disse dolcemente. Mimy sempre più confusa voleva farla sedere, ma l'araba rimase in piedi e presentandole una lettera faceva atto di ritirarsi. — Mi lasciate? — La signora marchesa mi attende: verrà ella stessa per la risposta, però se ve ne fossero due potrei portarne una. Mimy pensò un momento, poi andando ad aprire un piccolo scrigno sotto lo specchio ne trasse fra molte bazzecole e gioielli un medaglione, il suo ritratto da fanciullina, magnifica miniatura di Gordigiani montata in oro. Glielo diede. Sulema considerò meravigliata il ritratto poi l'originale, entrambi stupendi. Però la fanciullina vinceva la donna: e poichè Mimy non le diceva altro, le offerse salutando un mazzetto di gelsomini. — Ancora da parte della marchesa? — No: da parte mia. Le arabe preferiscono il gelsomino a tutti i fiori... eppure vi sono fiori più belli, seguitò contemplandola con uno sguardo di ammirazione. Mimy comprese. Sorrisero. La lettera della marchesa diceva: «Perchè non ci scriviamo più? Crescendo in noi l'amicizia si è forse agghiacciato l'amore? Sarebbe troppo triste il crederlo, mentre lo è già fin troppo il domandarlo: questa sera rompo il velo del silenzio e vi appaio colla fede di essere ancora riconosciuta, perchè ho veramente bisogno di voi, e voi sola potete comprendermi. «A giorni partirò da Bologna, forse per sempre, forse per fuggire da me stessa sulle traccie del mio sogno d'amore. Voi avete, fanciulla, il pallore dei sogni sulla fronte, come me ne soffrite e, credendoli solamente sogni, ve ne disperate — Eden terribile questo dei sogni, ove le serpi si nascondono tra i fiori e vi mordono quando allungate la mano per coglierli: ove l'ombra attira ed uccide, ove il sole accende sorrisi sopra tutte le cose mentendole, ove la musica delle piante ubbriaca e le farfalle seguendole guidano a perdizione... Eppure dover vivere di un sogno e doverne morire, perchè sempre un sogno, quale destino! «Quale è il vostro sogno, fanciulla? Quale larva ha gittato la sua pallidezza sul vostro viso, quali baci hanno ammorzato il rosso delle vostre labbra, in quali abbracciamenti la vostra persona si fe' così gracile pur rimanendo così plastica?... Ditemi, fanciulla, di quale dolore vi siete innamorata, perchè l'ami io pure, lui che vi rese così bella. «Se la sventura è una catena, forse lo stesso anello chiude i nostri polsi.... ma ecco che sogno ancora e dimentico che dovrò partire da Bologna e che voi non vorrete seguirmi! Che cosa farete quando io non sarò più per voi? Sempre bella, sempre moglie, sempre sola, sempre infelice: brillare come un diamante in una grotta, tacere come la cetra di un poeta sulla sua tomba di marmo.... Sarà questa la vostra sorte e la compirete rassegnata: lasciatemi quindi piangere con voi una lagrima sul vostro destino. «Il sogno della vita non può essere che un sogno di amore; il mio era forse il sogno di un sogno. Sognavo l'amore di una bella più bella delle più belle fantasime dei pittori e dei poeti; al pari di me aveva sognato e patito: ci rivelavamo incontrandoci con uno sguardo; io rompevo la sua catena e c'involavamo lungi lungi, in un'immensa città o in una fiorita solitudine. Là ci amavamo. Il nostro palazzo era costruito come un tempio, alcune schiave belle come le muse degli antichi ci servivano; nessun triste spettacolo; arte e natura, musica e fiori, gemme e sete, giovinezza e voluttà, tutto ai nostri piedi, un mondo nel mondo e in esso noi due sole. «Sognavo un amore divino e solitario, un corpo più gracile, un'anima più delicata della mia... Era una figura pallida e mesta coi capelli svolazzanti sulle spalle, una tunica bianca a ricami d'oro, un seno piccolo, forme vaporose... Leggiera come una nube la vedevo passarmi sul capo e viaggiare lontanamente pel cielo: mi compariva nel mio gabinetto, spesso entrando nella mia camera la trovavo seduta sulla sponda del letto, ma scorgendomi se ne andava... Sogni! «Da lungo tempo giro il mondo sull'orme di quel fantasma col terrore di averlo incontrato e che non mi abbia riconosciuto... Oh! se la mia vita dovrà passare senza amore e dovrò cadere nella tomba cogli occhi fisi disperatamente dietro la sua tunica bianca... maledetta l'ora che nacqui, che la mente ebbe il primo pensiero e il cuore il primo palpito: maledetta la bellezza che mi aveva resa degna dell'amore e l'ingegno che me ne aveva rivelata la divinità! Avete un farmaco per questa piaga? Avete un origliere per riposarvi una testa morente di questo dolore? «Mia pallida fanciulla, perchè ci siamo mai incontrate? Perchè i vostri capelli eran così biondi e il vostro abito così bianco come la tunica della mia Peri? Lontana da voi, il mio cuore verrà spesso a palpitare sul vostro abito bianco: sempre che la voluttà mi bisbigli all'orecchio le sue poesie, il vostro nome mi salirà alle labbra come guizza sulla bruna onda del mare un triglio gemmato; vi sentirò dappertutto, intorno a me, intrecciata ne' miei capelli come un ramoscello fiorito e spinoso. E voi che cosa farete? Dove andrete? A chi penserete? Chi amerete? Ah! misteriosa fanciulla, che mi comprendete e non potete amarmi, che legata al mio polso collo stesso anello non potete col braccio libero stringervi al mio braccio, voi tanto bella e infelice, addio! Addio, povera rosa, che le gramigne hanno soffocato nelle loro spire: addio, magnifica opale, che una lumaca ha chiusa nella propria casa... Addio!» Mimy si strinse la lettera al cuore e si arrovesciò soffocata sul divano. — M'ama, lei! mormorava baciando e ribaciando la carta... Mia... solamente... mia, e tendeva le labbra quasi per baciare la stessa parola, che pronunziava. Tutti i suoi pensieri eran note di un inno, ma occorrerebbe una cetra intrecciata di raggi di stelle e di pistilli di fiori al poeta, che volesse ripeterlo. Certo sarebbe una gentile voluttà seguire il volo di questa bianca colomba per l'azzurro del nuovo cielo, mentre il sole ci tenderebbe sotto un raggio per impedirci di cadere, e là in alto qualche stella non ancora scomparsa ci getterebbe forse un saluto.... Ma la natura non concesse nè ai poeti nè ai falchi tali voli e li costrinse entrambi a volteggiare sulle rupi stridendone fisi il sole troppo alto. Mimy ebbe l'ebbrezza, poi l'estasi, poi l'assopimento della felicità — la parola, la musica, l'eco: il sorriso, la danza, l'amplesso. Amava, era riamata, aveva tutto. In quei momenti inenarrabili Raffaello le avrebbe invano offerto per un bacio tutte le proprie vergini, invano Napoleone le avrebbe fatto una cintura della sua spada di conquistatore, invano Dio le avrebbe gettato un pugno di stelle come un pugno di brillanti.... Che le importava di tutto ciò? Amava, era riamata, aveva tutto! Tornò ancora a rileggere la lettera, e penetrandone sempre più la profonda poesia si sentì scoppiare il cuore dalla gioia! Si ricordava bensì del marchese Del Pino, ma non aveva la forza di esserne gelosa, tanto nel suo amore era timida e grande. Poi la marchesa non lo amava, ne era sicura. A poco a poco le si aggravarono gli occhi e le parve di vaneggiare; un'aura blanda la molcea come agitata dall'ali di un sogno, incogniti profumi le esalavano intorno al capo, mentre il torpore, avvolgendola come in una tiepida coltrice, la rovesciava languidamente sul divano... Mimy era assopita. Carlo entrando a caso nel gabinetto si fermò maravigliato sulla porta. Non aveva mai veduto la moglie così bella, ma le parole della baronessa lo rimorsero improvviso e, vedendole quella lettera sulle ginocchia, la suppose di Giorgio. Un brivido d'ira gli corse al cuore: si avvicinò col passo del ladro. — Quella lettera! esclamò, mentre lo scricchiolio delle scarpe aveva risvegliata Mimy, che tentò subito di nasconderla. — Ma.... — Quella lettera, la voglio, datemi quella lettera! — Che cosa volete farne? è mia: non vi è nulla che vi possa interessare. — Davvero! ghignò. E così? La voglio. — No. Un lampo gli schizzò dagli occhi. — Dunque è di Giorgio...: voi! e mosse un passo, ma il pericolo invece di sbigottirla rese a Mimy tutto il suo spirito. — V'ingannate, ripetè freddamente, è della marchesa. — Menzogna.... — V'ingannate. — Oh! lo vedremo. Ella gittò la lettera nel fuoco. — Ah! ruggì slanciandosi per ritirarla, ma non trovò subito le molle e la fiamma la cingeva già di un velo intangibile. Si guardarono: la lettera bruciò in un attimo e i fogli carbonizzati montarono per la canna del camino con un corteo di faville, come fossero le anime degli arsi pensieri. — Perchè avete bruciata quella lettera? Se io sospettassi...? — Avete già sospettato. — Nè senza ragione. — Allora decidete. Egli fu scosso dalla risposta. — Siete l'amante di Giorgio. — La mamma vi ha male informato. — Chi ve lo ha detto? — Indovino: non mi ha ella detto che amate la marchesa, e non ha forse mentito...? Andate, proseguì con orgoglio, dalla signora marchesa e dimandatele se non mi ha mandato una lettera per Sulema mezz'ora fa. La marchesa non è un uomo per mentire, e non mentirebbe con voi. Non dico questo per giustificarmi: se mi sospettate, non aggiungo una sola parola per dissipare i vostri sospetti e ne accetto tutte le conseguenze. Carlo era alla tortura: la franca indifferenza di Mimy gli cresceva colla gelosia i sospetti. — Aspettate! gridò afferrandola pel braccio mentre si moveva per ritirarsi nella sua camera: giuratemi che Giorgio non è il vostro amante. La domanda era così stravagantemente ingenua che Mimy, pur conoscendolo da un pezzo, non potè frenare un atto di sprezzante meraviglia; egli se ne avvide e la lasciò, ma quando scomparve dietro la porta, esclamò battendosi la fronte: — Sono un imbecille! quella donna mi giuoca... come la marchesa! CAPITOLO IX La trepidazione della speranza è talvolta così violenta che basterebbe sola ad uccidere in pochi istanti, senonchè l'anima non la sopporta e dopo i primi fremiti prorompe fuggendo ad affermare o a negare. L'insetto si regge fermo sull'ali, non l'uomo più pesante e più debole. _Lettere a Caldesi._ — OTTONE DI BANZOLE. Due giorni dopo la marchesa, recandosi da Mimy, incontrava Carlo sulla porta dello studio. — Venivate dunque da lei, egli le diceva avvertendola come non fosse in casa. — E anche da voi: fra otto giorni dò una festa, venivo ad invitarla. Conto su lei e su voi. Ella sarà la più bella, voi il più illustre. — Vorrei essere il più bello, rispose con malinconia. — L'ingegno non è forse una bellezza? — Non mi farete l'onore di entrare nel mio studio? Lo studio di un grande avvocato, e sorrideva sempre con malinconia, può essere una curiosità. — Entriamo, altrimenti sareste capace di supporre che vi temo. Lo studio era ricco e severo. — Dunque la vostra festa...? — È di addio: invito gli amici per lasciar loro, abbandonandoli, una buona impressione: dissero tanto male di me, che si meritano bene che li condanni a trovarmi amabile almeno l'ultima notte. Parto per Parigi. — Per sempre? — Per sempre: ma non ricominciamo, non mi parlate di amore. Sono così stanca di non poter amare, che oramai mi persuado dell'illusione dell'amore. Hanno ragione quelle donne, che mutano gli amanti come i guanti: se l'amore è un'illusione, l'amante deve essere un'ombra. Che importa il nome dell'albero quando vi protegga dal sole? Davvero non vale la pena di scegliere. Se nessuno di essi può darvi il tesoro che cercate, perchè rifiutare loro l'elemosina che domandano? Un bacio vale forse più di un soldo? Carlo trasalì. Ella si alzò. — Uscirete senza avermi fatto l'elemosina? Siete una milionaria e negare un soldo ad un povero sarebbe lurida avarizia. — Badate a non dovervene pentire — un bacio è un prologo: se vi fallisse la commedia? — Avrei sempre il mio prologo: meglio poco che nulla. — Uomo! meglio nulla che poco, massime in amore: allora datemi un bacio. E gli tese la mano, che egli si recò avidamente alle labbra. — Attendete, le disse rattenendola. Siete la donna più bella, la sola donna grande che abbia visitato il mio studio; scrivetemi un pensiero su questo album, sul quale ne ho notato io stesso molti di autori. Il complimento era lusinghiero, fors'anche meritato, e la marchesa lo accettò senza scuse volgari. Così in piedi, senza trarsi i guanti, prese una penna e, stata un momento meditando, scrisse: Dio fece l'uomo, poi la donna: prima l'abbozzo, poi la statua. — Avete ragione, ma facendo la statua bella si dimenticò di farle il cuore. Voltaire diceva: «Dio fece l'uomo frivolo per farlo meno misero;» e s'ingannava, doveva dire: «Dio fece la donna frivola per fare l'uomo più misero.» Se sapeste amare come sapete innamorare! — Amo forse di più! ma non parliamo d'amore. Gli strinse cordialmente la mano e fuggì così ratta, che egli non ebbe il tempo di offrirle il braccio, nè di dirle che Mimy era uscita colla San Marciano: non le corse dietro, ma cadde sopra una poltrona e tese l'orecchio al rumore della carrozza che si allontanava. Era una giornata d'inverno stupenda anche pel cielo d'Italia: l'aria era tiepida, il sole scintillava, pareva una festa. Una insolita gente popolava le vie, e quelli che non potevano escire stavano alle finestre, le ragazze povere col lavoro o il caldanino in mano, ai balconi delle case ricche le signore in veste da camera o in toelette sfoggiate. Molti vasi di fiori si riaffacciavano sulle strade come spiando il tempo, sorridendo del vederlo sì bello, e i passeri venivano a domandar loro dove si fossero nascosti tanto tempo e recavano loro notizie dalla campagna sulla vicina primavera. Nella città non un lembo di neve: fuori la verzura aveva fatti larghi strappi nel bianco lenzuolo e ghignava maliziosamente un umido e luccicante sogghigno. Gli uccelli traversavano l'aria cantando e il sole sorrideva alla natura ancora misera, come un gran signore entrando in una festa di povera gente. Che bel giorno per amare, escire in vettura alla campagna e gridare: evviva! come gli eroi di Auerbach! La marchesa giunse in piazza del Paviglione; i cavalli procedevano al passo. Molte signore passeggiavano sotto il portico in abito nuovo, almeno giudicando dalle occhiate della gente al loro passaggio, e molti giovinotti deposti i mantelli si mostravano con insistente cortesia in bella vita. Le porte delle botteghe erano spalancate e gremite di gente che si estasiava guardando le ultime novità — stile commerciale. Il magnifico equipaggio e la magnifica marchesa furono subito un avvenimento. Mimy, che veniva con Giorgio, arrossì vedendo la marchesa scendere quasi precipitosamente ad incontrarli. Questa dimandò al conte della sua ferita, la quale non era stata grave malgrado il brutto cadere della carrozza; però egli usciva quel giorno la prima volta. Egli le chiese della festa d'addio, e qui il dialogo facendosi fra loro vivo e spiritoso, Mimy guardò Giorgio con deferenza. Elisa sorprese quell'occhiata e fremè visibilmente: quindi la invitò seco in carrozza. — Mi perdonate se vi rubo la dama? disse a Giorgio. — No, egli rispose mascherando con un sorriso il dispetto. — Non importa, purchè ella mi perdoni. Giorgio era ancora allo sportello e sopravveniva Del Pino, quando la marchesa accennò al cocchiere di partire. Traversarono la città e si erano già dilungate alquanto da porta San Felice senza barattare una parola. — Sareste gelosa amando? domandò la marchesa. — Sì. — Avete ragione: un amore senza gelosia è un leone senza ruggito. Sareste gelosa... di tutti? — Di nessuno. — Oh! — Sarei gelosa di lei stessa: temerei che troppo bella mi accettasse senza amarmi... ma l'amerei egualmente. — Sublime! esclamò afferrandole con impeto la mano, poi guardando l'orologio ordinò al cocchiere di volgere alla stazione. — Manca tuttavia un quarto d'ora. I cavalli volavano: Mimy teneva la testa bassa sentendo gli sguardi della marchesa. — Scendiamo, questa le disse, che la carrozza non erasi ancora fermata sotto la tettoia di ferro. — Ma chi parte? — Noi: partite meco. Per dove? ma per dove volete, per Parigi, per l'America, per l'Oriente. Partiamo subito e, prima che ci si sospetti, abbiamo già lasciato l'Italia. Mimy divenne pallida come un cadavere. — Coraggio... — Oh! mormorò rabbrividendo e colle lagrime agli occhi. La marchesa rimontò in carrozza e non si parlarono più. — Addio, le disse senza stringerle la mano, mentre Mimy scendeva alla propria casa e l'avvocato si affacciava ad una finestra. — È una triste parola. — Il saluto che si manda ai morti. — Ma da chi spera. — E voi sperate? — Sempre. — A rivederci, le gridò dietro, che fuggiva. Mimy si rivolse raggiante, fece un gesto inesprimibile e sparì. CAPITOLO X La speranza è come una barca; quando la fortuna o la passione la portano in alto ogni riga sul mare si fa un sorriso, e crediamo che potremo sempre spingerla fino al porto; ma se le è contrario il vento, quel sorriso diviene un sarcasmo. _Lettera a Fifi._ — OTTONE DI BANZOLE. La natura non ha spettacolo da paragonare con una festa da ballo: l'aurora più vezzosa non vale una signora mediocre, le più belle sinfonie dei rosignuoli sono come un rumorio di monelli a fronte di un valzer di Strauss e di Chopin. L'atmosfera di una festa da ballo non si trova che in una festa da ballo, ma occorrono polmoni giovani per respirarla: è inesplicabilmente composta di mille profumi, di carni e di fiori, di mille luci di sorrisi e di sguardi, di mille riverberi di capelli e di gemme, di mille calori di sensi e di parole: è indefinibile, è volubile — adesso calma come quella di una valle ignorata dai venti, poi agitata come sul cratere di un vulcano, ardente come sul meriggio di un sollione, soave come in una notte di primavera. La festa era splendida quanto lo consentiva il palazzo e la città: anzi a Bologna non se ne erano mai vedute di simili. Il vasto scalone non si riconosceva quasi, vivamente illuminato da globi bianchi e con una moltitudine di vasi disposti in bell'ordine sulla balaustra e pei pianerottoli. Si entrava per un vasto stanzone dipinto goffamente di trofei antichi e col soffitto a grandi quadri di grossi travi, che punto modificato contrastava colla luce e la verzura profusa nell'atrio e nella seconda anticamera scomparsa dietro un'armatura, coperta di piante e di fiori, una immensa e fantastica capanna coi muri di frondi e il pavimento di aiuole — follia di prezzo e di gente aristocratica. Da questa si passava nel salone irriconoscibile. Spariti tutti quei mobili quasi funebri nella loro serietà, una cornice di semplici divani teneva luogo di loro tutti e lasciava nel mezzo uno spazio sufficiente per le danze di un gran numero di coppie. Il vecchio lampadario di Murano sfolgorava raddoppiando per migliaia di riverberi il lume delle candele; quattro immensi specchi riproducevano all'infinito la loro vacuità aspettando qualche scena che la riempisse. Due anticamere e un salone, una miseria di locale dissimulata dalla splendida improvvisazione degli addobbi. Fuori nevicava, ma una gran gente di piccola borghesia e di plebe stava sotto il portico e i più intrepidi giù nella strada, fino sul portone, per riconoscere gli invitati e i loro costumi, perchè la festa era annunziata in costume — novità che aveva sollevati tutti gli animi e occupati tutti i discorsi della città nei pochi giorni che l'avevano preceduta. Ora i costumi comparivano e i reietti della festa volevano almeno vederne una volta i beati, non badando che questa invidiosa ammirazione faceva appunto i tre quarti della loro beatitudine. Gli invitati scendevano rapidamente e più rapidamente infilavano lo scalone, la notte essendo fredda e ventosa: ma giungevano infinitamente più fiaccheri che carrozze, triste augurio per la festa. La veglia già animata andavasi mano mano gremendo. Sebbene fosse in costume, molti uomini passeggiavano però in abito nero e molte donne in abiti volgari. La marchesa faceva sola gli onori di casa in un magnifico costume di Notte. Una leggiera vesta di velo, quasi tessuta di fumo, le scendeva vaporosamente dalle spalle in strascico lungo, fluttuante, disegnandole appena la persona, che diventava quasi più alta e delicata: il voluttuoso ma troppo rubusto rilievo delle ànche scompariva nel panneggiamento, e il seno, tradendosi appena nella parte superiore s'impiccioliva. Un altro velo le avvolgeva indescrivibilmente la fronte, parte celando e parte scoprendo i capelli, e scendeva sull'alto della vesta e non finiva che allo strascico come un lembo di nuvola sopra una nuvola, che il vento respingesse con una intenzione di voluttà. Molte perle rotolate fra le pieghe dei veli imitavano la rugiada, e un grosso e unico brillante sulla fronte le brillava come stella. Nulla di bianco se non la faccia e le braccia che uscivano nude di sotto a veli bizzarramente, uniti alle spalle: non un lembo di camicia o di sottana, di trina o di merletto; il piede coperto da una calza nera e calzato da una pianella egualmente nera, trapunta di brillanti, si mostrava a quando a quando e spariva. Quella sera la marchesa superava sè medesima, e se un difetto poteva rimproverarlesi, era un'aria di calda sensualità, temperata dal fantastico del costume; ma se ne era accorta e aveva migliorato il portamento, sempre audace, con una incertezza di moti e di gesti quasi originali. Gli uomini l'ammiravano desiderandola, le donne tacendo. La festa crebbe, arrivò l'aristocrazia e con essa i costumi. Abiti quasi tutti dell'ottocento negli uomini e nelle donne: qualche abate di Luigi XIV, qualche Maria Stuarda, qualche villanella romana: elegante solo la principessa di San Marciano, vestita come si dipinge la Pia de' Tolomei, e quasi somigliandole; la marchesina Del Pino, la più gracile e la più gentile, trasformata in Ofelia. Le danze erano incominciate. Dopo il primo valzer della marchesa con Del Pino, abbigliato graziosamente da Raffaello, giunsero Carlo, Mimy e la baronessa: il primo in abito nero, Mimy incantevolmente vestita da Margherita, la baronessa cammuffata da Aurora. Veramente l'Aurora si levava un po' tardi, ma rossa di veli, di sete e fino nel naso, che sotto una brinata di cipria arrossiva modestamente di questo ultimo trionfo della sua padrona. — Nevica, disse all'orecchio di un'altra signora come ella senza costume, e forse senza costumi, quella Agnese già vicina di Mimy in villa e per una volta amante di Giorgio: guarda la baronessa, come le si è imbiancato il naso. — Sarà per dare il buon esempio ai capelli che si ostinano a parer neri. La Notte allora al braccio di Raffaello si spiccò udendo annunziare il nome di Mimy. — Permettereste a me, o bella damigella, di darvi il braccio e di accompagnarvi? — Non sono nè bella, nè damigella, ma accetto. — Vedete Faust? chiese sommessamente la baronessa a Carlo: no, volevo dir Giorgio; quel costume di Margherita m'imbroglia. Carlo si morse le labbra cercando Giorgio cogli occhi: non lo vide e per vendicarsi la piantò villanamente in mezzo della sala. Del Pino passeggiava colla San Marciano, Ofelia era sospesa al braccio di un bel paggio del quattrocento, al secolo figlio di un droghiere, il quale viveva di rendite incognite e s'era infiltrato misteriosamente nell'aristocrazia comparendovi uno dei più belli e dei più imbecilli. — Che graziosa capanna! diceva Mimy sempre al braccio della marchesa. — Troppe frondi e troppo pochi fiori: ma il nostro amore... Quella chinò il capo. — Mimy, soggiungeva la marchesa abbassando la voce ma calcando sull'accento, una sola parola. Credete che due donne si possono amare almeno quanto un uomo e una donna? rispondete. Questa è forse l'ultima notte che ci parliamo. Io parto, ma prima di lasciarvi voglio sapere se mi sono ingannata su voi. Lo credete questo amore di due donne? — Sì, balbettò impaurita dall'energia di quella voce sommessa. — Sì? ripetetelo; affermate una gran cosa e udendovi tutte queste persone vi riderebbero in faccia. Ebbene, se lo credete, crederete anche a me. Io parto: voi restate? Mimy non rispose. — Pensate di restare? mi lascerete partire sola e passerete il resto della vostra vita come se non ci fossimo mai incontrate? Oh! vi amo, Mimy: non aspettate che vi dipinga il mio amore, voi stessa che mi amate sapete che non è possibile. Se nella testa mi nascesse un pensiero, che pretendesse descrivere uno dei fiori che mi avete fatto nascere nell'anima, vorrei aprirmi la testa per strapparmi quel brutto pensiero. Non vi parlerò del mio amore: i fiori li coglierete voi stessa, voi sola che li conoscete e sapete che non hanno nome. Venite meco; sarete mia moglie, la mia amante, la mia padrona; per voi sono pronta a rinunciare a tutte le mie donne, a tutti quei piaceri nei quali mi stordivo per dimenticarmi di non essere amata. Vivremo sempre insieme, non vivrò che per voi e quel giorno che mi accorgerò di non essere più abbastanza bella per appagare il vostro amore... lo giuro su voi medesima, che siete il mio Dio — quel giorno sarò morta. Una specie di singulto le tagliò la voce. Mimy si sentiva piegare sotto il vento di quelle infuocate parole. — Aspettate, l'altra proseguiva quasi Mimy volesse parlare: non mi rispondete, voglio prima spiegarvi a voi stessa. Voi avete sognato l'amore femminile che adesso vi offro, me ne sono avveduta ai primi discorsi di Rimini. Non amate vostro marito, non amate un amante, Mimy alzò il capo, ma lo sguardo della marchesa era senza rimproveri, non amate che me, non potete essere felice che con me. Ma oltre l'amore v'inspiro anche ammirazione: mi avete discussa cento volte nel silenzio del vostro cuore e la sentenza mi fu sempre favorevole. Voi non credete agli amanti, che mi si attribuiscono... Ella le strinse il braccio per risposta. In quel punto s'udì il preludio di una polka. L'avvocato e Del Pino si presentarono nel medesimo tempo, così che il marchesino dovette invitare Mimy, perchè il marito non ballasse colla moglie; ma la marchesa seppe tanto gentilmente schermirsi, che rimase con Mimy, e i due innamorati ritornarono nel salone. L'anticamera era quasi deserta. Le due donne tacquero qualche minuto senza guardarsi. Si sentivano sopra una china: in fondo s'apriva un burrone e sovra vi era gettato uno stretto ponte; ma scendendo a precipizio si poteva non fermarvi il piede, e allora si precipitava nell'abisso — miseranda caduta! Chiunque le avesse osservate si sarebbe stupito alla trepidazione dei loro volti; ma la marchesa, forse di carattere più violento, sembrava ancora più convulsa. — Perchè rifiutate di fuggire? Avete paura? — Fuggire, mormorò;... e il mondo...? — Condanni; che importa? Badate, sono le mie ultime parole: domani parto da Bologna per sempre. Vi amo troppo per sopportarvi sotto i miei occhi moglie di Carlo, poichè se ho potuto fin qui per forza di civetteria distrarlo, si stancherà dello zimbello e ritornerà vostro marito. Cercherò di dimenticarvi sicura di non riuscirvi: porterò meco il mio dolore; lontana da voi potrò almeno idealizzarvi sognando. Questa festa l'ho data unicamente per voi; aspetterò la vostra risposta prima che usciate e, se mi ricuserete, vi dico addio adesso intanto che ne ho la forza... Siate tanto felice quanto io vivrò miserabile. E stringendole convulsivamente la mano si allontanò. Mimy la seguì collo sguardo, la vide scomparire tra la folla: il ballo era finito. — Sempre pensierosa! le disse sorprendendola la San Marciano. — E voi sempre sorridente. — È un rimprovero? avete torto di mostrarvi così: vi si supporrà infelice e se ne riderà. Nella dissimulazione vi è più virtù che non si pensi. E la trascinò seco in sala. La vivacità era cresciuta dopo le prime danze; ognuno trovato il proprio centro vi si moveva con libertà: i vecchi, i borghesi, l'aristocrazia si mescevano in gruppi e si divertivano canzonandosi scambievolmente: le donne sorridevano ai giovanotti: si discutevano i costumi; complimenti e sangue cominciavano ad infiammarsi, spiriti e lingue si scioglievano. Le più belle avevano naturalmente più folla, le più brutte lanciavano per compenso più frizzi, ma i più acuti scattavano dalle donne che troppo mature per essere amate smaniavano d'intorbidare la fontana, che anche curvandosi non potevano più toccare. Finalmente entrò Giorgio, cupo nel cupo costume di Amleto: scoppiò un hurrà di applausi. — Perchè questo lutto? gli domandò con un sorriso la principessa. — Per me. — Imitate Carlo V: vi anticipate il lutto invece del funerale. — V'ingannate, principessa: ho un ucciso in me stesso, e lanciò un'occhiata a Mimy. — Perchè non lo seppellite? — Perchè spero che risusciti. — Un miracolo! — Forse che le donne avrebbero cessato di farne? E volgendosi, dovè salutare tutti gli accorsi, ma quel trionfo di eleganza e di spirito non valse a rasserenarlo. — Siete troppo tetro, mio principe, arrischiò la marchesina del Pino. — Non vi dolga: Ofelia è troppo bella. La delicata fanciulla fremè al complimento e si rivolse per nascondere il rossore, che le colorava le smorte guance. Giorgio passò oltre, gironzolò pel salone, poi andò a sedersi in un angolo. L'orchestra suonò una contraddanza e i gruppi dei ballerini si disposero con vivace disordine. — Non ballate con noi, signor conte? l'interrogò passandogli innanzi quella tale Agnese al braccio del droghiere. — Perchè non vestirti da Faust piuttosto? disse questi. L'epigramma della baronessa era sulle labbra di tutti. — Da Faust? ripetè l'altra. — E perchè? rispose Giorgio cogli occhi sfolgoranti d'ira. — Ma per conservare il carattere di amante di Margherita. E contento della facezia sorrise alla dama. — Allora perchè non ti sei vestito da droghiere del quattrocento piuttosto che da paggio? — Giorgio! esclamò impallidendo. — Signore. — Signor conte! spero che ritirerete questa parola o... — Sentiamo l'alternativa. — Ma via! s'intromise la signora. — O ci batteremo. Giorgio s'inchinò con freddo sorriso. — Ed io spero, aggiunse, che risparmierete alla signora queste volgari particolarità; quindi salutando la dama si allontanò. Qualcuno aveva ascoltato il diverbio e si seppe subito del duello. D'altronde il volto accigliato del paggio e lo sbigottito di Agnese lo lasciavano facilmente indovinare. Successe un bisbiglio, tutti vollero esserne informati: i cavalieri piantavano le dame e si stringevano intorno al droghiere premendolo d'interrogazioni, ma egli fingeva schermirsene pur confessandolo coi più intimi, onde in pochi secondi il segreto fu divulgato. Egli ed il conte si battevano alla pistola, a venti passi, a dieci, a cinque. Le versioni erano già molteplici: Giorgio si batteva per provare di non essere l'amante di Mimy, della quale andava pazzo: qui mille circostanze, mille aneddoti e tutti a guardare il paggio umile in tanta gloria, mentre il conte era passato nel salottino, ove i vecchi giuocavano il faraone. Mimy intese e si fe' pallida: la marchesa si annuvolò. La contraddanza parve lunghissima, tutti provavano il bisogno di serrarsi coi più amici sull'accaduto e di parlarne coi protagonisti: le signore osservavano Mimy che ballava nel gruppo della marchesa, gli uomini si ammiccavano fra loro. Finalmente la musica cessò e la folla potè sparpagliarsi. Mimy rimase colla San Marciano. Ofelia entrò con una compagna nel salottino del giuoco; Carlo teneva il banco ignaro di tutto e Giorgio puntava cogli altri, così infelicemente che tutti ne facevano le meraviglie. — Decisamente sono sfortunato! esclamò arrischiando l'ultima carta. — Fortunato in amore non giuochi a carte, gli rispose un vecchietto. — Fortunato! e si ritirò che la posta era perduta. — Signor conte! lo fermò la marchesina tagliandogli la strada. — Perchè non mi chiamate più mio principe? — Non mi piace la figura di Amleto, è un personaggio troppo infelice e fatale. La fanciulla lo guardava malinconicamente pensando forse al pericolo che lo minacciava. — Avete ragione, rispose tetro; Amleto non può essere compreso da Ofelia, perchè la tortora non può comprendere l'avoltoio. E proseguì; aveva scorto Mimy al braccio della principessa. Ofelia lo seguì con un lungo sguardo. Passò vicino alle due donne, si fermò indifferentemente e legarono il discorso senza parlare del duello; ma la principessa sentì che egli aveva d'uopo di restar solo con Mimy, e cogliendo il destro con disinvoltura di gran signora si ritirò. — Ho bisogno di parlarvi, fu la prima parola di Giorgio; venite. Si girò gli occhi attorno, — Andiamo nella anticamera: vi è meno gente. Infatti v'erano poche persone che rientravano nel salone alle prime note di un ballo: in breve fu deserta. Ella rabbrividì, mentre la baronessa non veduta spiava in uno specchio tutti i loro movimenti. Giorgio si vide presso la porta socchiusa, mascherata da un graticcio di ginestre, del gabinetto destinato alle dame per le raccomodature della toeletta: era illuminato, pieno di specchi; dentro nessuno. — Venite, saremo più ritirati. — Mai! e lo fissò in faccia rimproverandolo. Egli sogghignò mestamente. — Sapevo che non mi amavate, poichè me lo avete detto più volte, ed avrete forse ragione, ma avete torto di non suppormi abbastanza gentiluomo per rispettarvi in casa d'altri. Venite, ho bisogno di parlarvi: sono forse le ultime parole che vi dirò; le ultime parole di un moribondo dovrebbero essere sacre per una donna. Mimy fu intenerita: conosceva Giorgio coraggioso, e quell'allusione al pericolo di essere ucciso domani non veniva certo da affettazione romantica o da teatrale jattanza. La porta era a due passi, il gabinetto esso pure destinato alla festa: Giorgio instava, poteva morire domani... Mimy cedette. Entrarono rapidamente, cautamente senza chiudere il graticcio, ma egli che voleva un colloquio assolutamente libero, vedutasi innanzi un'altra porta afferrò un candelliere, e profittando del movimento repentino di Mimy la spinse innanzi, aperse la porta, fu nell'altra stanza e prima che ella avesse tempo di riaversi aveva diggià rinchiuso a chiave. — Mimy, le disse appressandosele, abbiamo pochi momenti: domani mi batto per te; non è un rimprovero, sono contento di battermi per te. — Giorgio! mormorava sottraendosi ancora incerta di sè medesima e della situazione. — Oh! ti rispetterò, non temere; Mimy, ti amo, ti amo sempre, più di quando ero il tuo amante; mi è d'uopo ridiventarlo o morire. Più volte hai riso di questa parola: ebbene, mi batto, e se non giuri adesso di amarmi... no, è troppo, di lasciarti amare, ti giuro che mi lascio ammazzare. Il suo aspetto era così appassionato, gli tremavano così la voce e gli sguardi, che bisognava credergli questa funesta risoluzione. — Mi amerai? — Non lo posso, rispondeva addolcendo la voce: non lo posso, Giorgio, e voi non meritate d'essere ingannato... Ma usciamo. — Non mi amerai? mi lascerai piuttosto morire? — Giorgio, siate ragionevole: ma perchè vi piaccio tanto? vi sono altre donne, che valgono ben più di me! — Taci! ruggì infiammandosi; non rendere almeno volgare il rifiuto, non mutare il pugnale in coltello. E io che ti amo tanto! Avere più fiamma nel cuore che il sole non ne abbia sulla fronte, e doverla spegnere nel sepolcro! Povera donna! se tu conoscessi il cuore che rifiuti... Ma l'esaltazione, che pareva ammorzatasi nella tristezza, fiammeggiò ancora: si strinse violentemente il capo e con atto anche più violento scuotendolo, ne svelse un pugno di capelli. Mimy, impaurita, guardò la porta come per tentare di fuggire, ma egli che se ne accorse le sbarrò il passo. In quel punto s'intese rumore nel gabinetto. Mimy gelò. Attesero due o tre secondi senza respiro: furono bussati due colpi alla porta. — Siamo in casa d'altri: non facciamo scandali, si udiva susurrare la baronessa. — Perduti! pianse Mimy accasciandosi sotto questa nuova ruina, e sarebbe caduta se Giorgio non la sorreggeva. La situazione non poteva essere peggiore. Con un moto di belva sorpresa, Giorgio si guardò attorno per fuggire; non v'era scampo. Avventò un'orrenda bestemmia, alla quale Mimy rispose con un singulto. — Mimy! proruppe sordamente inginocchiandosele innanzi; tanto meglio! Carlo non può assassinarci qui: dovrà battersi meco, ti prometto di ammazzarlo. Amami: non hai che me per salvarti, e ti salverò. Mimy era fuori di sè, lo fissava con occhio istupidito non comprendendo il senso di quelle parole. Furono bussati altri due colpi e s'intese come l'appoggiarsi di una spalla alla porta per forzare la serratura. — Coraggio, Mimy, apro: dammi un bacio. Così inginocchiato se la prese contro il petto, indi si levò risoluto, ma ella gli si lanciò al collo e rimasero abbracciati. Giorgio tentava di liberarsi. — Fermatevi! udirono dietro una voce e videro la marchesa orribilmente pallida sulla soglia di un usciuolo nascosto dalla tappezzeria: si avanzò lentamente cogli occhi su Mimy. — Uscite, le disse, e andate subito in sala a raggiungere la San Marciano, che vi salverà col suo spirito. E accompagnò questa parola con un gesto così solenne che Giorgio ne fu colpito, e l'altra uscì macchinalmente quasi quel gesto la spingesse: però uscendo si dimenticò di chiudere l'usciuolo. Gli altri non se ne avvidero, entrambi avevano abbassata la testa. La marchesa si riebbe prontamente, e poichè la porta era sempre violentata, accennò a Giorgio di aprirla: poi infilandogli il braccio compose il volto a una fredda alterigia. La porta cedette e Carlo, che si spingeva, restò percosso sulla soglia. — Ci permetterete almeno di passare? gli disse la marchesa con voce stridula, schiacciandolo sotto uno sguardo di disprezzo. — Voi! esclamò indietreggiando. — Forse che la baronessa vi avrebbe fatto sperare altri incontri? Questa si fe' rossa nel volto come nel naso. — Andiamo, signor conte, sento la musica che ricomincia. E passò in mezzo a loro con una inesprimibile maestà di portamento. In quell'istante Mimy passava per l'anticamera al braccio della principessa. — Avete voluto ingannarmi e rendermi per giunta ridicolo: mormorò Carlo sordamente stringendo il braccio della baronessa; badate a non pentirvi un giorno di questo ignobile scherzo. — Scherzo! ribattè: venite meco e vi prometto di trovare l'uscio per dove l'ha fatta evadere. È una vecchia commedia: non mi ci piglieranno. Però molta gente ingombrava l'anticamera, e quel colloquio soverchiamente animato attirava l'attenzione, di guisa che non si poteva decentemente entrare colà dentro. Sulema comparve in quell'istante e rinchiuse la porta a chiave. La baronessa si morse le labbra: anche questa volta Mimy aveva vinto. Tutto cotesto tramestìo non era passato senza nota: le donne, che non corteggiate cercavano distrarsi spiando gli altrui amori, avevano osservato l'alterazione del volto della marchesa e degli altri, onde la baronessa ritornando in sala non ebbe che a lanciare una favilla per destare l'incendio. Elisa passeggiava al braccio di Giorgio, che già tutti parlavano della sua avventura guardandola curiosamente; se ne avvide, ma giuocando di audacia non volle lasciare il cavaliere e si sforzò di attaccare discorso. Del Pino le si fe' incontro quasi stravolto: aveva in mano una rosa e la sfogliava. — Perchè stracciate questa bella rosa? — Perchè la bellezza è una maschera, il profumo una menzogna e un uomo può ben stracciare una rosa quando una donna straccia in una volta più di un cuore. — E quando l'avrete stracciata? rispose colla massima calma: le rose non cesseranno di essere belle, odorose e le donne... — Si serviranno della bellezza per attrarre e dello spirito per uccidere. — Ecco una massima che potrebbe essere un'offesa, interloquì Giorgio. — E allora? — Oh! fra nostri pari... La marchesa li considerò un momento senza che la ruga della fronte le si spianasse. Era ancora più livida che pallida; il suo occhio aveva uno sguardo feroce. Vide passare Ofelia e se le accompagnò, ma aveva mutati appena due passi, che ecco Sulema farle un segno. Carlo, Mimy e la baronessa si disponevano a partire. Ella mosse loro incontro e accettò senza obbiezioni il pretesto inventato per giustificare quella troppo pronta ritirata: li accompagnò alquanto e offrendo il braccio a Mimy: — Dunque addio, signora... siate felice. Stavano sul limitare dell'anticamera; Carlo e la baronessa erano innanzi pei mantelli. — Eppure se mi avessero detto, questa non è la donna che cerchi, avrei giuocata la testa che non mi ero ingannata. Voi... la coperse di uno sguardo sfolgorante di mille passioni: maledetta! esclamò respingendola brutalmente dalla porta e tornò fuggendo nel salone. — Mi fate quasi paura, disse Ofelia imbattendosele daccapo e non sapendo ancora nulla dello scandalo del gabinetto. Ristette: poi afferrandole il braccio con impeto repentino: — Volete un consiglio da chi ha vissuto troppo e può darvelo? proruppe sordamente. Guardatevi dall'amore voi che siete bella, come dal vaiuolo. Se guardando un quadro, se leggendo un libro, se ascoltando un uomo o una donna vi sentite gonfiare il cuore... soffocatelo, sarà ancora ventura. Diffidate di tutto, del sole, del cielo che vi sorride, della terra che vi fiorisce intorno: diffidate degli uomini che sono bruti, delle donne che sono maschere — innamoratevi di voi stessa: ecco il mio consiglio e respingete sino l'idea di un altro amore. Ma pronunciando queste ultime parole scoppiò in un riso convulso. Ofelia la osservò incantata e mezzo sbigottita. — Vi ho fatto proprio paura, segui accorgendosi, malgrado la tempesta nell'anima, di aver trasceso. Ma sapete, Ofelia, che i vostri capelli neri sono magnifici! Che bel lenzuolo per chi suicidandosi potesse avvolgervisi e cadere nel sepolcro... Belli! e le accarezzava un riccio sul collo: neri come un panno mortuale. — Che brutte idee! — Brutta la morte! aspettate, fanciulla, di conoscere la vita. Quindi piantandola bruscamente come l'aveva afferrata, s'insinuò fra la folla. CAPITOLO XI Si quelque chose peut encore me persuader que je fus homme et j'eus de la pieté, c'est le spectacle d'une belle douleur, qui se noie dans une sale volupté. _Lettere ad Alberani_ — OTTONE DI BANZOLE. Mimy era quasi svenuta alla maledizione. Carlo ritornando colla pelliccia la trovò languidamente appoggiata al muro con Sulema, che la reggeva: le fu premurosamente attorno, ma ella, che aveva chiusi gli occhi, li aperse vivamente e riconosciutolo si sforzò a dominare l'emozione. Per istrada non dissero una parola, a casa ognuno si ritirò nella propria camera; Mimy traversando il gabinetto roseo cadde sfinita sopra una sedia. Era così abbattuta nel volto, che Giulietta soffocò un grido di spavento sostenendole la fronte che si piegava quasi morta. — Mio Dio! esclamò: brucia! — Se tu potessi mettere una mano qui dentro..., e le indicò il cuore. Giulietta le si inginocchiò innanzi, ella le abbracciò il collo e nascondendole la testa nelle spalle pianse. Le lagrime prima rare e grosse come i goccioloni che precedono i temporali, scesero poco a poco meno difficili, continue, senza un singhiozzo — lagrime mute di un dolore nel quale colla speranza era cessata la facoltà del lamento; lagrime di amore sventurato e innocente, che la natura non volle si potessero mai cristallizzare perchè le stelle non fuggissero disperate d'invidia e la notte incombesse buia buia... E quel pianto mesto le accarezzava colla sua armonia quel dolore, perchè vi è una ineffabile armonia nel pianto muto: tutti quei lamenti che muoiono prima di aver vagito, quei sospiri che cadono a mezzo la via, quei rari aneliti che paiono il soffio d'una voce estintasi nello sforzo inutile di voler gridare, quei brividi dell'affanno che si dibatte senza muoversi come un cacciatore nelle spire di un serpente... fanno una musica senza nome, la quale passa sull'anima come un vento e la trasporta... Il cielo è bruno, il vento è freddo e l'anima è trasportata sempre più in alto, lontano... il mondo è rimasto laggiù che non si vede e non si ode: nessun astro sorride, ma il vento non si stanca, e l'anima, che si sente rapita, vi batte l'ali convulsa quasi per farsene un appoggio e non cadere. Mimy piangeva abbandonata al pianto, come una barca, cui si rompa il canapo, alla corrente di un fiume: e le pareva che il pianto la trascinasse lungi dal suo dolore — meravigliosa previdenza della natura, che ha dato il pianto al dolore per lasciargli più lungamente la vittima. Giulietta commossa da quelle lagrime si obliava in quel affanno non suo. Poi come negli uragani, quando l'acqua scema infierisce il vento, il pianto imperversò: Mimy alzò il capo scoppiando in singhiozzi. — Mio Dio! che cosa è stato? supplicò affettuosamente la fanciulla. L'altra la guardò come se la domanda fosse strana. Il mondo non aveva dunque sentito la tempesta che l'aveva schiantata! Si levò con impeto e respingendola mosse qualche passo per la stanza: era fuori di sè. — Cosa è stato eh? urlò fermandosele innanzi. È stato: oh ma è impossibile! è Dio che mi perseguita: che cosa gli ho fatto io! Giulietta taceva e piangeva. Mai la sua padrona era stata così angosciata; la buona fanciulla s'affliggeva di non poterla soccorrere. Se si fosse trattato di un sacrificio, di soffrire lei... volentieri! ma quel dolore non lo comprendeva e si trovava come sulla sponda del canale, entro cui l'altra annegava senza poterle allungare abbastanza la mano perchè vi si rattenesse. Poi anche i singhiozzi cessarono e Mimy cadde in una immobilità di statua: Giulietta non osò di chiamarla. Attese un pezzo, ma come l'altra non rinveniva finse di ritirarsi, lo stratagemma riuscì; Mimy si destò di soprassalto e riconoscendola: — Va a letto, mormorò, deve essere tardi. — Mi lasci qui nella sua camera: starò vicino al suo letto, se avrà bisogno... — Buona! rispose considerandola con malinconica tenerezza: va, poveretta. Non voglio che tu soffra per me; soffro io per tutti. — No, vada là: non le domanderò più nulla. Questa notte può sentirsi male; io sarò lì. — Ma che cosa farai fino a giorno? — Starò in un angolo dietro la tenda, se non mi vuol vedere. Questa prova di amore fece bene a Mimy, ma ancora troppo sconvolta per abbandonarvisi aveva bisogno di essere sola, di non essere più nel mondo. Giulietta dovè ritirarsi: uscì lentamente e sulla porta si rivolse con un'ultima speranza. Mimy la attirò con un gesto: — Dammi un bacio, Giulietta. Mimy la baciò sulla fronte e entrò quasi tragicamente nella sua camera. Il suicidio le aveva gettato improvvisamente la propria ombra sull'anima. Morire! Profondarsi nelle tenebre e nel silenzio... Dall'orlo estremo della roccia, sulla quale già irrompeva la lava in onde di fumo e di fuoco, spiccare un salto e giù nell'abisso: più nulla, eternamente più nulla. L'anima inseguita s'affacciava alla roccia e si arretrava affascinata dalla calma infinità di quel vuoto. Perchè attendere l'onda fiammeggiante, sentirsi ardere i piedi, gli stinchi, i ginocchi, non avendo più nello spasimo la forza di gridare e conoscendo che ogni grido sarebbe perduto? No, meglio laggiù: spiccare un salto, e nella rapidità della caduta il vento vi spoglia di ogni veste e l'anima si perde atomo bruno nell'immensità della tenebra. Appena nella camera, Mimy ritrasse le cortine dal letto e lo considerò. — Morta! Si assise sulla sponda pensando. Quella idea del suicidio, travoltale nella mente dalla fiumana del dolore, ella l'aveva afferrata colla disperazione del naufrago. Adesso si sentiva più calma, non piangeva, non singhiozzava più: morire... tacere per sempre. In quella sfinitezza pregustava già la quiete ineffabile del sepolcro. Le pareva quasi di essere morta, poi di morire ancora avanzando per le regioni della morte solo per sentirsi sulla fronte la blanda frescura del loro tacito vento. Era vestita di nero, camminava per una landa; il vento le respingeva le vesti e i capelli, camminava sospinta da una forza muta... Così di fantasia in fantasia perdeva la coscienza della realtà e la placidezza dell'anima trasfondendosi nei sensi ne calmava i nervi torturati. Divagò, si allontanò oltre ogni confine, ogni paese e finalmente si ritrovò dinanzi al mondo, dal quale si era precipitata, senonchè questa volta le parve meno terribile: quindi il suo pensiero risalì la roccia. Il vulcano fumava ancora, ma la lava si era indurita sul terreno. Colla mesta curiosità dell'esule guardò i siti abbandonati, mentre la memoria dei patimenti sofferti ripalpitava come un'eco; l'eco crebbe mano mano, più patetica, armoniosa, finchè una musica vi si confuse distendendovisi mollemente. Mimy ascoltò. Le parole non s'intendevano, ma le note si esprimevano meglio che le parole — quella musica la conosceva, era di Mariani e si doleva per lei. Mimy ascoltava. La musica si appressava: fremiti improvvisi le passavano quali colombe sulla fronte inseguiti da qualche nota acuta come gridi erompenti da quella ineffabile querela; poi la musica si abbassava simile ad un velo che la rugiada spruzzava di lagrime, s'abbassava più lenta... cadeva a lembi; Mimy pure abbassava il capo, i capelli le piovevano dalla fronte, non vedeva, non udiva più nulla... piangeva! Si trovò che piangeva senza affanno; ma la realtà riapparve bruscamente e l'anima, che dianzi aveva imprecato, cadde sulle ginocchia e mormorò la preghiera della rassegnazione. Ma perchè piangere tanto su ciò che era irreparabile? Non lo sapeva che il fantasma della felicità era un fantasma di nebbia e doveva sciogliersi si levasse il vento o raggiasse il sole? Amare una donna e pretendere che questo errore di cuore e di sensi non avesse mai a dissiparsi! Certo ella aveva amato: aveva vissuto per amare, morirebbe d'amore — triste destino! Morire d'amore senza avere altrimenti amato che come l'infermo partecipa dalla finestra alla gioia di primavera folleggiante sui prati e sui colli... Era rassegnata, ma sentiva tutto lo sconforto della rassegnazione. Fanciulla, aveva amato una stella: giovinetta, suor Maria; donna la marchesa, ed ora che l'anelito dell'amore le si era confuso coll'anelito della vita la stella non si vedeva più confusa nella folla scintillante del cielo, suor Maria, mistico fantasma, sognava prigioniero in una cella di Fognano e la marchesa si allontanava corruscante di bellezza e di maledizione come una cometa. Ma perchè la cometa fuggiva la vista del fiore, che chiuso ai soli dell'inverno e dell'estate non erasi aperto se non al suo raggio fatale? Povero fiore... Aver sognato di morire nel bacio ardente di quell'astro vagabondo e morire invece nel putridume delle rugiade! Ma perchè mentre tutti i fiori vivevano contenti del sole, questi aveva atteso la cometa? Bizzarro destino! Una donna che ama una donna, un amore che nasce nell'identità di sesso, e la ragione invece di strapparlo lo feconda, la fantasia lo bacia, tutto gli sorride; il dolore gli fa velo perchè non muoia nel freddo dell'alba, la poesia lo scalda più del sole: appare l'astro in cielo, il fiore palpita, l'astro sorride, poi s'abbruna, getta un lampo e dilegua... E se ciò non fosse stato che un sogno? Se la marchesa avesse scherzato col suo cuore malato, come si scherza coi fanciulli intrattenendoli di fole? Eppure no: la marchesa l'aveva realmente amata. Che cosa era dunque questo amore? Non lo sapeva, e lo sapeva perduto al momento di coglierlo. Sentimento e ragione si confondevano in questi pensieri e l'anima naufragava. Morire innocente colla maledizione del colpevole... Innocente? lei, l'amante di Giorgio! no, no: bisognava morire perchè l'amore era morto, e Elisa potesse cercarsi un'altra donna più bella e più pura e in un giorno di felice voluttà ricordandosi della povera Mimy ordinare alla maledizione di allontanarsi dalla sua tomba — Maledetta no, piuttosto un altro inferno, piuttosto la maledizione di Dio... Questa idea la fece torcersi spasmodicamente le mani, ma non piangeva più. Stava forse da due ore sul letto quando l'uscio s'aperse discretamente e Carlo entrò in costume notturno da marito. Mimy non lo vide, le cortine l'impedivano. Camminava sulla punta dei piedi, s'appressò, prese un lembo della cortina. Mimy aveva i capelli in disordine, il viso quasi cadaverico, ma bella, poetica in quell'atteggiamento. Egli medesimo si commosse credendo d'indovinare in quel dolore una gelosa vanità di donna. Si chinò per sentirla respirare, ella aperse gli occhi e glieli sbarrò in faccia. Egli! Priapo e Lotide... Egli non sostenne la meraviglia di quell'occhiata e lasciando ricadere la tenda, sedè sulla sponda del letto. Perchè dopo tanti mesi di assenza i due coniugi s'incontravano ancora nel talamo? Chi può analizzare la logica di un marito e il sentimento di un avvocato? Respinto dalla marchesa voleva conservarsi Mimy, offrendole qualche compenso per lo scandalo della festa? O tornava a Mimy per fare oltraggio alla marchesa? O la marchesa fiammeggiavagli così nel pensiero, che avesse d'uopo di una donna e toccasse a Mimy di fare per lui tale ufficio in quell'istante. Ecco alcune ipotesi discutibili, e se al lettore paiono poche le raddoppii, e risolva il problema che noi ci contentiamo di proporre. Il letto era forse troppo largo per una sola persona, ma certamente troppo stretto per due, sicchè le loro teste s'appoggiavano sul medesimo cuscino: ella non aveva cangiato positura, cogli occhi bassi, pensava, non pensava più a nulla sentendosi sempre più invadere dal sentimento della morte. In quel punto era già fuori della vita, tutte le speranze erano morte, tutte le disgrazie esaurite, il mondo stesso dileguato... Non restavano che la marchesa e Mimy, ma ella stava sdraiata sul coperchio della propria tomba e l'altra svaniva come una meteora in fondo all'orizzonte. Come i suoi capelli neri lucevano sul terso azzurro del cielo! Come la sua fronte si rivolgeva terribilmente bianca! Mio Dio, essere una santa, essere Dio per chiamare quella meteora e dirle... oh mio Dio? Le sfuggì un sospiro. Una mano le cadde leggiera leggiera sopra una spalla. Era Dio, che avendola intesa rispondeva? No, ma qualcuno che poteva somigliarvi. Carlo credendo di comprendere quel sospiro voleva consolarla. Una mano le si era appena appena posata sulla spalla, che un'altra le passò sotto il dosso, onde dolcemente sollevata venne a cadergli sul petto. Non capiva; il viso smorto non esprimeva che stanchezza: aveva bisogno di dormire — _to die_ — _to sleep_, dormire, morire. Ella gli posò inconsciamente il capo sulla spalla, bada! e subito una bocca calda quanto un ferro da stirare le si incollò sulla fronte... Oh! la voluttà stava dunque ubbriaca sulla soglia della morte per impedire alla vita disperata di cercarvi un rifugio? Non sì udì che uno strido di fanciulla, cui l'acqua del canale travolge, uno strido di allodola sulla quale piomba il falco e risale già morta in cielo... poi un gorgoglio, un soffio come un batter d'ala di falco... CAPITOLO XII Les tempêtes de l'Océan ne sont rien pour celui qui connait les tempêtes da cœur — le marin qui s'aventure dans les unes n'a souvent le courage de l'artiste, qui veut peindre les autres et s'y élance seulement pour en être ballotté: mais si nulle terreur au monde n'égale la terreur d'une tempête en mer, nulle volupté n'est si enivrante que de contempler la tempête d'un cœur, lorsque le souffle de l'ouragan passe sur le vôtre. _Lettere a Ortolani_ — OTTONE DI BANZOLE. Mimy era seduta sulla sponda del letto: un rossore febbrile le svaniva sul volto. Al pendolo suonarono le due e tre quarti. — Sola! mormorò levandosi. L'espressione di quella calma desolata era scomparsa e le rughe le si sollevavano e spianavano sulla fronte, come le onde in mare al vento: sedè a un grazioso tavolino di lacca e reclinando la testa sulla palma cadde in profonda meditazione. Si sentiva ancora più agitata che al ritorno dalla festa, quando lacerandosi il cuore coll'unghie del rimorso, piegava mal rassegnata alla sorte, ma convinta di meritarla. Adesso era ben altra la tempesta. Carlo l'aveva sollevata. Morire senza aver nulla goduto, frangere la tazza, nella quale fuma il vino di una vita olimpica nell'atto di recarla alle labbra... Sì, e mentre pentita eroicamente di una colpa non propria si compie il sacrificio, un uomo vi tende colla insolente famigliarità del marito un lurido boccale di birra... Non era forse presto per morire? lei, che la marchesa aveva amata e che sentivasi, malgrado ogni rimorso, ancora degna di amore, morire... Non era possibile: la voluttà ridestata si aggrappava al dolore e gli contendeva l'arma omicida. Ma perchè non vi sarebbe un rimedio? Tutto fuorchè morire, fuorchè perdere la bellezza, scendere laggiù nel sepolcro così gelido e così buio... Morire, farsi fredda, brutta: l'occhio cerulo smorto che pare di vetro colorato, la bocca livida, le mani, oh! le mani del cadavere stecchite che non si possono toccare dal ribrezzo: poi essere spogliata di quello stupendo costume alla Margherita, lasciata in camicia: poi i becchini, la cassa. No era troppo giovane ancora, troppo bella per finire così... Morire? Che ne penserebbe Elisa? Dove andrebbe questa grande infelice? Si fermò: la marchesa non le avrebbe creduto, se le avesse spiegato il mistero di quella scena? Certamente si erano sempre stimate e nessuna di loro avrebbe mentito in simile caso; ma bisognava presentarsi, avere tanto coraggio di raccontarle ogni cosa per filo e per segno: dirle non sono morta di vergogna, perdonatemi, perchè non ho il coraggio di morire: una nuova bassezza per redimerne un'altra! Certo la marchesa si sarebbe alzata coll'espressione del disgusto sul volto. Mimy indietreggiò: non era più una fanciulla che piegava atterrita dall'uragano, ma una pantera, che chiusa nel vallo ad ogni modo vuole uscire e spicca balzi, tenta le porte, scruta le fessure e se non urla, l'anelito glielo impedisce. Non voleva morire senza vedere Elisa, non voleva perderla. Cercò o meglio ancora le parve cercare: sarebbe corsa da lei sopra una strada selciata con frantumi di vetro se glielo avessero ordinato. Tornò a passeggiare arrestandosi allo specchio. La candela sul tavolo non splendeva abbastanza per illuminarlo perchè potesse vedersi bene nella lastra: pensò a Giorgio. Anch'egli era in pericolo di morte per lei, sciagurato! La mamma doveva essere afflitta di essere stata invano perversa; tutti infelici quella notte, meno Carlo. Oh, per lui non esistevano certi dolori! Il pensiero di Carlo la respinse nuovamente verso sè medesima. Vedeva la propria orribile vita, accettando di vivere una volta partita la marchesa. Era impossibile che la mamma non arrivasse ad indovinare la generosità di Elisa e a divulgarla con tutti: Carlo, che non sapeva ancora del duello di Giorgio, lo saprebbe e si stimerebbe tradito: altri scandali. Poi la mamma che entrerebbe a difenderla per inasprire la contesa, poi Giorgio innamorato e cavalleresco che guasterebbe ogni cosa; nel miglior caso, inevitabile una separazione, e allora la società la respingerebbe. Non un mezzo per liberarsi dall'amante come dal marito. Giorgio l'assedierebbe, si batterebbe per lei, la costringerebbe a riceverlo; quindi bisognerebbe fuggire da Bologna dietro un uomo innamorato, ma capace di morire oggi per lei come di piantarla domani... Poi l'abbandono, la solitudine, la degradazione dopo la vergogna... A che rattenersi sopra una tale china di ghiaccio? Così la fanciulla che aveva amato una stella, che aveva pianto sulla propria verginità, che era rimasta pura nell'adulterio, veniva mano mano infangandosi e finiva come tante sciagurate del popolo. Allora non era meglio morire? Lo credette: ma bisognava pure risolversi, perchè la marchesa partiva domani e il domani era già arrivato. Stava per decidere di tutta la vita. Come incalzava furioso il tempo! Sentì mancarsi il respiro, così la colse inavvertita la necessità di risolversi subito: guardò l'orologio. Le tre e mezzo; fra tre ore il giorno imbiancherebbe. — Mio Dio! mio Dio! esclamò nascondendosi il volto nelle palme, e cadde sulle ginocchia. Nelle circostanze scabrose i fanciulli piangono, le donne pregano, gli uomini bestemmiano — tre partiti ugualmente naturali e vani. Mimy pregò, forse non sapendo chi, per qual cosa: ma la preghiera è un trionfo del sentimento sulla ragione, e si levò più calma. Aveva risoluto: tornò al tavolo e scrisse con mano febbrile: «_Signore_, «Questo stato mi opprime: non posso più lungamente durarlo. La marchesa è innocente, è una donna sublime, che avete ragione di amare. Io era in quel gabinetto, io che vi inganno da tre mesi, ma che non vi ingannerò più. Non vi racconto la mia caduta, perchè mia madre ve l'ha raccontata; non cerco scusarmi. Io medesima non mi comprendo e scrivendovi non so bene quello che mi dica. «Siate più felice di me: dimenticatemi. Amandone un'altra non vi sarà difficile; così non avrò almeno il dispiacere di affliggervi allontanandomi per sempre. «Vi raccomando Giulietta. «Non mi cercate; fra noi tutto deve essere finito. Forse il mio avvenire è più fosco del vostro, ma avrò il coraggio di compierlo sola; voi sarete sempre un uomo illustre, io sarò un'infelice di più fra i colpevoli, e sia! La vita non può essere eterna. «Addio, signore. Se le mie ultime parole potessero non dispiacervi, vi auguro tutta la felicità che non avrei mai potuto darvi e non vi chieggo che l'oblio. Oh! gettatelo sulla mia memoria questo mantello dei morti e, seppellendomi in un angolo del vostro passato, proseguite sicuro ed avventurato. Io dormirò nella mia tomba: vi prometto di non uscirne mai più, mai più! «Addio. «MIMY.» Piegata e suggellata la lettera, mise un gran sospiro. Un nuovo pensiero la turbò? scriverebbe anche a Giorgio? Il suo buon cuore lo avrebbe voluto, ma la ragione si rifiutò. Perchè scrivergli? Che cosa dirgli? Sospirò. Colla trepida foga della passione che si sente incalzata dalla ragione e teme di essere raggiunta precipitò i preparativi della partenza: cominciò a svestirsi, e slacciandosi l'abito arrossì di trovarsi sul seno molti bottoni aperti; lo rigettò, si sciolse le trecce e riallacciandole con febbrile prestezza le acconciò in mazzo. Aveva fretta, forse anche freddo perchè la stufa si era spenta da un pezzo. Aperse quindi lo sportello dell'armadio a specchio, e ne trasse fra molti un abito nero: se ne vesti in un batter d'occhio. Tornò ad acconciarsi i capelli. Quei ricciolini avevano l'indisciplinatezza dei ragazzi e sembravano godersi alle carezze delle sue mani delicate... poi si arresero, e benchè il loro tumulto non fosse al tutto sedato, potè coprirlo con un cappellino egualmente nero, guarnito d'un sì fitto velo da togliere ogni fisonomia al volto. Il nuovo abbigliamento era così elegante che Mimy, respingendo sui fianchi la vesta, non potè non accorgersene; ma si avvide ancora, che aveva le scarpette bianche, e le mutò. Era smorta e patita nella faccia. — Povera Mimy! esclamò passandosi il fazzoletto sugli occhi ancora gonfi di pianto. Si guardò attorno: era dunque vero che fuggiva? Non ci volle pensare. Aveva paura di rifletterci: pensò invece a mille cose. Ah! prima di tutto il suo giornale: voleva pigliarlo seco, era una parte di se stessa, la coppa nella quale aveva raccolte tutte le sue lagrime e gittati i suoi pochi sorrisi. Andò ad uno stipetto e ne trasse un cassettino, nel quale, premendo una molla, scoprì un doppio fondo. Tutto il giornale consisteva in cinque o sei fascicoli legati ognuno con una cordicella di seta nera: perchè nera? Li prese, ne fe' un rotolo e lo mise nel manicotto. E poi?... Mille idee, mille oggetti le ritornavano alla memoria: scappò nel gabinetto, ove dalla finestra pendeva fra le tende il suo canarino. Il grazioso animaluccio dormiva colla testa nascosa sotto un'ala. Che cosa sognava mai quella creaturina dalle penne d'oro e dal canto melodioso, adesso che la padrona veniva a salutarlo per l'ultima volta? Mimy riparò il lume colla mano, perchè la vivezza di un raggio non avesse a destarlo. Quanta calma in quel sonno! perchè noi stessi non siamo buoni come i canarini e non possiamo vivere contenti di una gabbia? Quel sonno l'affascinava... Ella dove andava? Dove?... Le fu d'uopo di uno sforzo per sormontare la corrente dei pensieri, che minacciava trascinarla, ma vi riuscì. A passo lento e sospeso per non fare rumore, sempre colla mano riparando il lume, rientrò nella camera. Ah! s'era dimenticata: tornò allo stipo, aperse un altro cassetto e cavandone un cofano se ne cercò addosso la chiave: non l'aveva. Era d'oro e pendeva come ciondolo dalla catena dell'orologio obliato. Era il cofanetto delle gioie. Ne levò una ad una le diverse guarnizioni cercando nel fondo un pugnaletto col fodero di velluto e il manico di agata. Lo aveva comprato per un costume da ballo, ma la lama era di Lollini. Se lo mise in seno. Quando il cofano fu vuoto lo rovesciò e coll'ugna ne cavò la lastra: sotto stavano tutte le lettere della marchesa; le intascò. E allora? Quelle gemme erano troppe per portarsele via e non avevano pregio per l'anima: pensò di regalarle a Giulietta, la sola creatura che non le avesse mai recato un dolore. Quindi le rinchiuse nel cofanetto, lasciandovi la chiave, e scrisse un altro biglietto per la fanciulla. «Buona Giulietta, «La tua padrona ti regala queste gioie; le terrai coi coralli della mamma. Non piangere se non ci vedremo più, ed amala sempre la tua padrona. «MIMY.» La malinconia dell'ultima frase la vinse così che due lagrime le appannarono gli occhi. Ora che tutto era disposto per la fuga, quella piena di sentimenti e di idee svaniva per incanto: si guardò attorno. Quel disordine quasi drammatico le strinse tanto il cuore, che dovette ripetersi di non volerci pensare per soffocare l'emozione. Interrogò l'orologio; appena le quattro e mezzo: due ore prima di giorno. Il tempo che prima incalzava, adesso sembrava andare adagio per godersi la sua tortura. Due ore lì vestita, pronta sempre a fuggire, erano troppo lunghe: doveva star seduta in quel freddo, agghiacciarsi i piedi, agghiacciarsi l'anima, riflettere ancora sulla risoluzione presa, pesarne l'audacia, scrutarne tutti i dubbi, noverarne tutti i pericoli... Non si dava forse al mondo un coraggio capace di tanto. La candela era meno che mezza. Se si fosse spenta prima dell'alba? Nel gabinetto se ne trovavano altre, ma bisognava cercarle, e ciò aveva mille imbarazzi; in certi momenti ogni cosa, ogni atto acquista un significato incomprensibilmente fantastico. Si sentiva venir freddo; quindi per muoversi andò all'armadio e ne trasse la pelliccia di martora. Vi si ravvoltolò e si rimise a sedere come prima sulla poltrona. Cominciò ad attendere: non erano trascorsi cinque minuti che le sembrò di avere già troppo atteso e dovette alzarsi per camminare. Una smania indefinibile l'agitava; temeva di pensare e non lo avrebbe potuto in quel convulso di ogni fibra: quasi quasi vi si provò. Passeggiò, si guardò nello specchio, studiò le pieghe dell'abito e indispettita di queste frivolezze in tanta solennità di momenti rilesse il biglietto di Giulietta, riaperse quasi il cofano e si pentì a mezzo. — Mio Dio! attendere ancora due ore. Rigironzolò, trovò un libro e lesse: Ma dimmi, altro è l'amore Che lagrime e dolor? — Altro! rispose e seguitò leggendo, senonchè la mente non teneva dietro agli occhi e gittò il libro. Quella domanda di Japhet a Aholibama le era entrata così profondamente nell'anima che se la ripetè parecchie volte. L'amore non è che lagrime e dolore: i fiori della sua corona nascono in cielo, ma per farli vivere sulla terra un giorno bisogna inaffiarli col pianto, e forse muoiono egualmente. L'amore è un angelo allontanatosi dal paradiso per la noia della sua festa perenne, e Dio lo maledì; allora rimase sulla terra, e oggi pure tutti quelli che amano sono maledetti e piangono... Mimy si accorse di piangere questa volta senza amarezza: pensava con malinconica confusione all'amore e piangeva. Ebbene, perchè non piangere? Ogni lagrima che stilla dagli occhi è forse un'idea dolorosa che esce dal cervello. Si avvolse più strettamente nella pelliccia, si buttò sul letto e tirandosi un lembo del lenzuolo sul volto chiuse gli occhi. Il tempo allungava il passo. Che cosa meditavano in quell'ora Giorgio e la marchesa? Quali tempeste imperversavano in quelle anime più vaste dell'oceano e infinitamente più profonde? Non cerchiamo saperlo: come tutti gli spettacoli, anche quello del dolore annoia alla lunga e non tutti i lettori avranno atteso a quello di Mimy senza provare alle ganascie il prurito dello sbadiglio... Avanti, la strada è oramai breve se triste: pochi fiori per le siepi, pochi uccelli per l'aria, poca varietà nel paesaggio... Affrettiamoci al casino, che domina quella vetta; là, in mancanza di meglio, avremo la voluttà di separarci. CAPITOLO XIII La vita rassomiglia ad una fuga di stanze cogli usci chiusi: ogni volta che ci tocca aprirne uno ci sentiamo rimescolare o pel timore che sia l'ultimo o per l'ansia di che cosa nasconda. _Lettera a Conti._ — OTTONE DI BANZOLE. La candela si spegneva che già tra le persiane s'insinuava il bianco dell'alba. Mimy levossi sentoni: bisognava partire. Come accade sempre, anche ai caratteri forti, nel momento di eseguire una risoluzione capitale, tutte le riflessioni e i dubbi che ci lacerarono e si dispersero quando sorse, riappaiono in tumulto urtandola d'ogni parte. L'anima ricade nella agonia delle prime incertezze, ma se allora fu lunga e dolorosa, adesso è affrettata e spasmodica. Si pensa con incredibile fretta, con più fretta ancora si percorre ognuna delle vie che ci si aprono innanzi, si procede, si indietreggia come una goccia d'acqua sopra un piano mobile. Fuggire! Quando la tempesta si placa, il marinaio lungi dal calmarsi tiene l'occhio al mare con maggior trepidazione, poichè teme le ultime onde, sempre le più terribili forse perchè le più libere; nelle tempeste delle passioni non avviene altrimenti, e l'anima, che resistè allo imperversare della burrasca, è spesso sprofondata nelle sue estreme convulsioni. Mimy stava immobile, poi balzò di letto: un'ultima onda la sospinse in alto mare. Prese il manicotto, si assicurò che non vi mancasse il giornale, guardò la lettera per Carlo, il biglietto per Giulietta, li pose sopra il cofano delle gioie, girò attorno un ultimo sguardo e soffocando un sospiro, come il marinaio soffocherebbe volentieri il vento della tempesta che vuole soffiare ancora quando questa è ormai quietata, si mosse davvero fuggendo; ma nel gabinetto frenò il passo. L'uscio aveva fatto rumore: proseguì. Il canarino le gittò uno dei soliti gorgheggi senza finirlo; poveretto! la padrona non udì nemmeno quel saluto. Aprì cautamente la porta della sala, sempre sulla punta dei piedi e col cuore che palpitava da scoppiarle giunse all'altra dell'appartamento. Tirandone il catenaccio, che non stridè, le parve di cadere... C'era ancor tempo per retrocedere: dove andava? Fece un ultimo sforzo, il più faticoso in quella sfinitezza, oltrepassò la soglia e giù per le scale a furia. Per fortuna la casa non aveva portinaio, uno dei pochi comodi delle case di Bologna, e così non ebbe a fingere una andatura più calma dinanzi a questo personaggio inventato dai borghesi. Al medio evo la sentinella, adesso il portinaio. Per strada girava ancora poca gente, niuno le badò; ma col moto l'interna agitazione le si venne calmando. S'avvide di camminare con soverchia bizzarria: si abbassò il velo sul volto e, componendo la persona alla solita eleganza, proseguì come se invece di fuggire passeggiasse. Mimy abitava in via San Felice, onde nel passare dinanzi all'Hôtel Brun vide uscirne una folla chiassosa, e tremò. Aveva riconosciuto la principessa di San Marciano con tre altre signore e molti giovani tutti ancora in costume da ballo. Bisognava che avessero fatta baldoria tutta la notte e fossero alquanto avvinazzati per permettersi in provincia una simile scappata. Mimy allungò il passo, ma s'intese dietro chiamare da una voce. Si fermò. — Come mai a quest'ora e con questo abito? esclamò gaiamente la principessa sollevandole il velo e accomodandoglielo sul cappellino. — Mi pare che dovrei farla io questa domanda. — Mi annoiavo, non sgridarmi, e ho pregata questi signori di divertirmi. — Spero che ci saremo riusciti, interloquì spiritosamente uno di loro. — V'ingannate. Vuoi venire con me? dopo aver cenato all'Hôtel Brun, andiamo a far colazione dal mio giardiniere in campagna: lo metteremo alla disperazione. La risposta fu accolta con un hurrà. — Grazie, balbettò. — Non vieni! ma sentiamo, dove vai? l'abito nero... andresti in chiesa a pregare per qualcuno? — Che fosse in pericolo, aggiunse cortesemente una signora. Tutti risero, ma la principessa si dolse della domanda indiscreta; senonchè era già troppo tardi per respingere la cattiveria sguinzagliata da quella allusione. Mimy si sentì raccapricciare fra quel riso e per disgrazia arrossì abbassando il capo come il condannato sul ceppo: attese. Quell'abbattimento le giovò più del migliore spirito, perchè la gente ne fu tocca e la principessa profittando del momento fe' cenno ad un signore di chiamare i fiaccheri. — Addio, Mimy; e accompagnandosele per pochi passi tanto per liberarla dal gruppo: Dio ti salvi da incontri peggiori. Ella non rispose, proseguì senza rivoltarsi, e fu bene, perchè avrebbe veduto quegli allegri, che ridevano guardandole dietro. La via non era lunga dall'Hôtel Brun a San Vitale, ma non ne poteva più; le mancavano le ginocchia. Cominciava a patire gli inconvenienti della sua risoluzione. Che cosa avrebbe detto il mondo sapendo che si recava dalla marchesa, invece che da Giorgio? La stravaganza della propria passione le apparve allora in una luce così abbagliante che la acciecò. Non vide, non capì più: era fra tenebre lacerate da baleni. Fece tuttavia qualche passo vacillando. Per buona sorte si trovò presso una chiesa; vi entrò. Era deserta e piccina. Una lampada ardeva dinanzi all'altar maggiore, un'altra più piccola sotto a una Madonna addolorata dalla rotella di argento in capo, un manto d'argento addosso e sette spade nel petto dai pomi luccicanti tratto tratto. Due vecchie pregavano inginocchiate presso la panca, sulla quale s'assise; lo scaccino spazzava nell'ombra. Nella chiesa durava un denso crepuscolo. Mimy aveva le vertigini. La gente entrava nella chiesa e colla gente anche la luce. Due altre vecchie vennero ad inginocchiarsi dietro la sua panca; poco dopo ne arrivò una terza. — Don Ignazio è uscito? — Non ancora. — Sapete la nuova? La Tuda è morta. — Che! esclamarono ad un tempo le altre due. — Sì: stamattina l'hanno trovata morta avvelenata nel letto: si è ammazzata per quel bel mobile. In quel punto suonò il campanello della messa. — Beppe! colui che aveva comprato l'oratorio per farci una stalla? — Ah! don Ignazio. — Eh? — Ah! dicevo: ammazzarsi perchè l'aveva piantata... invece di ringraziare la Madonna della grazia. Figuratevi quella poveretta di sua madre: i pianti stamattina. Voleva gettarsi dalla finestra. Già alla Tuda ci voleva bene, perchè ti ricordi, Teresa? la Tuda non era mica figlia del marito. Basta, povera Tuda! bisognerà dire tre paternostri per la sua anima. Dicono che fosse gravida; sarà stato forse per la vergogna che si è uccisa. — Sì! bisognava vergognarsi prima: adesso si è dannata. — Chi sa! — Sfido io; andava sempre a spasso con lui. Una sera li trovai da San Rocco: sua madre non ci badava. Già anche lei sempre alla finestra a guardare l'oste. Mimy ascoltava fremendo. Un'altra infelice che s'era uccisa per amore; dunque non era lei sola ad arrischiare la vita... Tutto il mondo avrebbe riso o parlato di lei come quelle tre vecchie, ma importavano ben poco quelle risa e quelle mormorazioni nell'ora del sagrificio, mentre l'abisso chiamava la vittima e la vittima chinandosi coraggiosamente a guardare nell'abisso vi si precipitava... Forse quella fanciulla, uccisasi per l'uomo che l'aveva ingannata, era bella e pura. Calda l'anima di amore aveva aperto le braccia al primo che passava e se lo era stretto sul cuore per comprimerne i battiti troppo violenti, ma il brutale aveva odorati i fiori, poi rotto la ghirlanda che lo legava... ed ella invece di raccoglierla di terra aveva chiuso per sempre gli occhi. La morte non era dunque così brutta, se quella fanciulla aveva osato darle il suo ultimo bacio! Adesso era morta; era sul povero lettuccio e la folla passava sghignazzando sotto le finestre; ma i pochi cuori sensibili, che l'avevano conosciuta, pensavano forse con mesto rammarico al suo infelice destino e la seguivano peregrinando collo spirito per le fantastiche regioni della immortalità... Le batteva il cuore; il suo coraggio si era finalmente desto. Se la vita era un retaggio di sventura e bisognava trascinarla nel fango per lasciarla ad un momento segnato cadere entro una fossa fiatosa, non era meglio prenderla a due mani e arderla come un incenso al Dio del proprio cuore? Che coloro, i quali nati nel pantano non potè scordarsene, camminino sempre colla testa bassa, raccogliendovi ad uno ad uno i loro giorni, come ciottoli... e sta bene. Ma gli altri usi a camminare colla fronte levata non possono distorsi da una stella per raccogliere un sasso, nè rammaricarsi quando la strada non prosegua oltre l'ultima orma che v'impressero cadendo... Che cosa era mai morire per la marchesa se Tuda, una fanciulla volgare, era morta per Beppe? Intanto che si esaltava in questi pensieri, don Ignazio era uscito colla messa, e le vecchie erano andate ad inginocchiarsi alla piccola balaustra dell'altare. La gente cresceva: qualcuno cominciava ad osservare quella signora seduta indivotamente, mentre tutti stavano in ginocchio. Ella se ne accorse e già infastidita dal monotono borbottio del prete, e dallo stridente rispondere del chierico, uscì. Profondamente commossa, aveva bisogno di moto e più ancora di fretta. La mattinata era splendida, il cielo azzurro, l'aria tepida dallo scirocco: poca gente girava ancora. Mimy si affrettò. A quest'ora Carlo poteva essere alzato e Giulietta discesa ad origliare alla camera della padrona... Se Carlo la raggiungesse tuttavia per strada! Questa paura le fece ancora più studiare il passo. Sfiancando dalle due torri scorse subito il palazzo Fantuzzi. Pochi passi e sarebbe là dentro: un nuovo tumulto di fremiti e di idee la sconvolse. Le finestre del primo piano erano tutte aperte: così presto! Forse che lì pure non avrebbero dormito? Mimy camminava sotto il portico, ma discendendone i pochi gradini dirimpetto al palazzo ebbe quasi a cadere; v'entrò correndo; il portinaio non la vide. Allora collo stesso impeto si lanciò per lo scalone: i capi ne erano lunghi. Anelando, ansando giunse alla porta e vi si aggrappò per reggersi in piedi tirando il cordone. La porta si aperse quasi istantaneamente. — Ah! e Sulema rimase incantata davanti a Mimy. Questa si fe' rossa. — La signora marchesa... E si fermò per trarre il respiro; la confusione le impediva le parole. Non sapeva più che cosa dire, nè perchè fosse venuta. Sulema attese. — La signora marchesa... è in casa? — Sì. — Potrei vederla un momento? disse a precipizio. — Non so: ha ordinato di lasciarla sola e di non ricevere nessuno. — Mio Dio!... e si mise una mano sul cuore. — Ma forse per lei farà una eccezione: in ogni caso, se avrò disobbedito, spero di essere perdonata. L'invitò ad entrare. Traversarono l'anticamera ridotta a capanna e Mimy tornò ad arrossire osservando la porta del fatale gabinetto; passarono pel salone ancora in disordine e si fermarono in un salottino assai elegante. — Che cosa debbo dire alla signora marchesa? Mimy si grattò il capo come un fanciullo: tremava a verga a verga. — Aspettate, e traendosi di tasca il taccuino ne staccò un foglietto e colla matita, che le pendeva alla catenella dell'oriuolo, scrisse: «Non sono innocente, però prima di condannarmi ascoltatemi: dirò tutto e poi farete di me quello che vi parrà... Ma se la mia colpa non è più grande del vostro cuore ascoltatemi. «MIMY.» Piegò il biglietto e glielo consegnò. Sulema partiva. — No: pigliate anche questo, e le diede dal manicotto il giornale. L'araba uscì, ed ella cadde sospirando sopra una sedia. PARTE QUARTA CAPITOLO PRIMO _Laura._ L'amo come il fulgor del creato, Come l'aura che avviva il respir, Come il sogno celeste beato, Da che venne il mio primo sospir. _Gioconda._ Ed io l'amo siccome il leone Ama il sangue, ed il turbine il vol, E la folgor le vette, e l'alcione Le voragini, e l'aquila il vol. _La Gioconda._ — ARRIGO BOITO. La marchesa era seduta sopra una lunga poltrona ai piedi del letto; Sulema si ritirò immediatamente, mentre Mimy entrava cogli occhi bassi e il passo incerto, arrestandosi poco oltre la soglia. Elisa fe' un gesto e l'altra, attirata quasi a forza, le venne innanzi alla ottomana senza nemmeno vedere che la marchesa si era sollevata sul busto attendendo ansiosamente una parola. Mimy non parlava: pareva vacillare. — A che debbo mai, signora, la fortuna di questa visita mattutina? disse finalmente Elisa alzandosi. Mimy, che aveva rifiutato l'invito di sedersi, fu percossa da questa fredda e semplice domanda: A che debbo mai? Non aveva dunque voluto leggere il suo bigliettino? La fissò un istante, poi gli sguardi le si appannarono e cadendole ai piedi le abbracciò le ginocchia in piantò dirotto. — Perdono, perdono! — Mimy! esclamò prendendole il volto nelle mani: mi tradivate dunque quando vi sorpresi? — No. — Giuratemelo. — Ve lo giuro, e se mento Dio mi uccida prima che mi abbiate perdonato. — Ah! ruggì la marchesa rialzandola robustamente e premendosela sul cuore. Mimy non singhiozzava più, ma piangeva ancora e i baci di Elisa le cadevano sulle gote più caldi e più frequenti, anzi l'abbraccio era così violento, che le mancò il respiro e le chinò il capo sulla spalla. Soffocava dall'emozione. — Mimy, Mimy.... O mio Dio! che cosa hai? sono la tua Elisa, diceva sentendosela svenire fra le braccia. L'adagiò teneramente sulla poltrona e alla sua volta inginocchiandosi.... Mimy, ripeteva, sono la tua Elisa.... guardami dunque.... Quello di Mimy non era che languore, ma s'infinse alle dolci carezze e tenne chiusi gli occhi per non mutare guanciale. Le riposava il capo sul seno: ma siccome l'altra seguitava a smaniare, li aperse languidamente e sorrise. — Mia.... — Sempre. — E mi ami? — Più.... Mimy cercò un paragone... più che tu non mi ami. La marchesa abbassò gli sguardi quasi umiliata da quella parola, ma risollevandoli prontamente le chiese agitata: — Ma a casa tua?... — Sono fuggita. — Che! Se ti inseguisse? è un uomo geloso, vendicativo. Gli hai detto che venivi da me? — No. Respirò. — Allora forse ti inseguirà. Mimy comprese. Tacquero un istante. — Sempre con te. — Sempre; la marchesa abbracciandola nuovamente le sentì una gonfiezza in una tasca: Che cosa hai? — Guardaci, tutte le tue lettere, tutte. Le cavò con vanità bambinesca e gettandogliele in grembo: Vuoi che te ne reciti una? le so tutte a memoria. — No, parlami piuttosto di te. Sei proprio fuggita? non volevi dunque più ritornare a casa? — Certo. — E se non mi avessi trovata? Se ti avessi respinta? — Cattiva! rispose con una smorfia.... Impossibile! — Supponilo. — Sarei morta. — Come? — Non lo so. — Dunque non ci pensi più al passato? — E nemmeno al futuro! mi basti tu. La marchesa pure si senti vacillare nella stretta di quell'amore. Così durarono chiacchierando, Mimy assorta nella felicità, l'altra trepidante di perderla ancora ad ogni momento. La fanciulla non si ricordava già più delle angosce della notte, nè della lunga agonia del mattino: il passato era veramente sparito. Elisa la teneva sulle ginocchia; che cosa era più tutto il resto? Nullameno la coscienza le si destava a volta a volta da quel voluttuoso languore come da un sogno, si assicurava di non sognare e tornava ad assopirsi. Allora Mimy guardava la marchesa, socchiudeva gli occhi e posandole il capo sul capo la baciava furtivamente. A una di quelle occhiate: — Hai pensato, Mimy, che cosa faremo? Ella spalancò gli occhi. — Cara bambina, non vorrai già restare a Bologna: tuo marito ti cercherebbe, sarebbe capace di rivolerti. — Lo sfido. — Non ti ci provare. — Ecco, ti rispondo come mi hai risposto: parliamo di te. Tu che hai tanto ingegno mi dovresti parlare come mi scrivevi. La tua pallida fanciulla ti si è davvero intrecciata ai capelli, e vi si insinuava le dita scomponendoli, come un ramoscello spinoso, me la ricordo questa cattiva parola, ma non oserai strapparlo. Improvvisami un inno: gli uccelli li improvvisano pure al sole! scoppiò improvvisamente a dire. — Di gioia, ma l'aquila, che sola lo ama, stride quando s'innalza verso lui. Non ti fidare alla passione che studia il ritmo. Quando essa scoppia davvero, è molto se ci resta la forza di un gemito, ma appena il vulcano cessa dall'eruzione la fantasia ritorna, raduna qualche carbone, vi soffia e ridesta in piccolo l'incendio che l'aveva fatta fuggire. Sai dove si leggono gl'inni? — Nei libri. — Negli occhi: ma se quelli dei libri esaltano, quelli degli occhi abbruciano. — Ti ritrovo dunque, mia Saffo. Come sei bella e grande! Mai inni, mai poesie scritte: tu sarai il mio poeta. Già non ho mai capito come si possa gettare alla plebe le proprie emozioni. Tu sarai il mio poeta e canterai per me sola senza accorgertene: io raccoglierò le perle de' tuoi canti nell'urna del mio cuore e le seppellirò meco. A quest'ultima parola di morte che conchiudeva un dialogo così fulgido di vita, la marchesa considerò con tristezza la bella testa di Mimy resa affascinante dalla gioia. — Perchè parli di morte, fanciulla? — Non lo so; tutte le volte che sono felice penso di morire. Ed ella pure si fe' grave. Stavano sempre nella stessa attitudine, Mimy sulle ginocchia di Elisa, entrambe con un braccio intorno alla cintura: quella vestita di nero colla luce dell'ebbrezza nel volto ancora macilento dalle passioni della notte e, in tale contrasto, stupendo; questa chiusa in una ricca vesta da camera bruna a bruni ricami, pallida, mal pettinata, con un cerchio turchino sotto gli occhi così terribilmente più vivi. Però quella carissima attitudine alla lunga doveva stancarle; Mimy, che se ne accorse la prima, si lasciò scivolare per terra e, sdraiandosele ai piedi, appoggiò la testa sui ginocchi dell'amica. Era accaduto un gran cambiamento nello spirito di Mimy, dianzi così timida e riservata e adesso così espansiva e folleggiante. Forse la vispa educanda di suor Maria, morta da qualche anno, risorgeva senza ricordi del tempo della morte e, mutata l'amante, sempre collo stesso spirito delicato e leggiero. Invano si sarebbe voluto riconoscere in quella donnina bizzarramente allungata sul tappeto la stessa, che poche ore prima stava attonita in un atroce abbattimento sulla sponda del proprio letto o si trascinava vacillante in chiesa. Ma la sua natura eccezionale, col cuore di un poeta e la fantasia di una vergine, costretta a svilupparsi inarmonicamente nella prima famiglia della madre e nella seconda del marito, aveva presa l'abitudine di una vita ideale, immaginosa. Così dopo essersi dibattuta angosciosamente nella tempesta, adesso gettata sulla riva s'incantava guardando le farfalle e i fiori senza più pensiero del mare: la donna dalle violenti passioni si era addormentata e la fanciulla dalle fantasie idilliache, quasi ne fosse il sogno, sorrideva e gioiva. Forse la marchesa faceva queste riflessioni assaporando quel suo pazzo e bambinesco atteggiamento. Mimy cessò dalle carezze. — È proprio vero! se sapessi... quella maledizione. Me la sento ancora passare sulla testa e mi si rizzano i capelli: mi pare un sogno di essere in paradiso! Come ho pianto! Però ne sono contenta..». Soffrire per te, per starti sempre sulle ginocchia. — Credi di essere stata sola a soffrire? — Ti avrò afflitta... non me lo perdonerò mai, ma se Dio ha veduto il mio dolore, egli pure deve: essersene impietosito. Una lagrima le sorrise fra le palpebre. — Piangi ancora? — No, no, rispose nascondendole la faccia fra le ginocchia. — Mimy, le disse dopo una pausa e con tono quasi solenne la marchesa, il volto soffuso di rossore e gli occhi scintillanti: hai una religione? Ebbene, giurami pel tuo Dio che non mi tradirai e che se un giorno non ti piacerò più me lo dirai: ti renderò la tua libertà. Si abbracciarono. — E tu non mi fai promettere nulla? — Io! non ne ho il diritto, non sono come te, sono una mendicante, che raccogli, e vuoi che patteggi? Guarda. Se adesso quella porta si aprisse e entrasse una donna infinitamente più bella di me e tu mi lasciassi per cadere ai suoi piedi... non mormorerei: mi avresti amata e basta. Se adesso mi trovassi brutta e dovessi cacciarmi.... uscirei, andrei a cercarmi un angolo isolato, nel quale raccogliermi a pensare che mi hai amata... Tu, proseguiva, obbligarti meco! Non voglio esser una tua pari, mi basta di essere l'ultima serva, ma la più innamorata. Ho pensato spesso, vedendo una farfalla sopra un fiore, a chi godeva più se la farfalla o il fiore, e ho sempre tenuto pel fiore. Sentirsi finalmente premere dalla farfalla, sentire che il seno si apre e che questa farfalla, per la quale si è tanto palpitato può d'istante in istante involarsi, deve essere la più intensa e la più delicata delle voluttà. — Ma la farfalla morrà sul fiore prima di spiccarsene. — Se il fiore non muoia prima di dolore, sentendosi avvizzire sotto il bacio della farfalla celeste... CAPITOLO II T'amo, Fernanda, t'amo come l'uccello ama l'aurora, il marinaio il mare, il poeta la gloria, come tu ami il denaro, come non potresti mai nè meritare, nè comprendere: e, se non mi amerai, comprerò la tua avarizia, e sarai mia come il cavallo che monto e la pipa nella quale fumo. OTTONE DI BANZOLE. Forse era trascorsa un'ora in quelle carezze, quando fu bussato alla porta e Sulema entrò sbigottita nel volto. — Il signor avvocato! disse prevenendo l'interrogazione della marchesa e gettando un'occhiata a Mimy. — Il signor avvocato, ripetè severamente la marchesa, e perchè l'avete introdotto? — È entrato per forza; e le spiegò come si fosse cacciato quasi a furia nell'anticamera ordinandole imperiosamente di annunziarlo. La marchesa taceva, ma nella calma del suo volto si sentiva la tempesta. — Coraggio! è l'ultima burrasca, ma la supereremo, si volse a Mimy stringendole in fretta la mano. Questa le corse dietro. — E io? — Tu aspettami qui. Sembrava che Mimy volesse aggiungere qualche cosa, ma o si pentì o non ne ebbe la forza: però l'altra preoccupata non se ne accorse. Uscì, e rientrando subito con un foglio in mano: — Leggi: ti passerà meglio il tempo. È una lettera che ti ho scritto stanotte. Mimy era abbattuta, Elisa collo sguardo corruscante; al sito del cacciatore la leonessa si alzava squassando la criniera. Mimy si riassise sulla poltrona e l'ansia di conoscere che cosa le scrivesse nella medesima ora d'agonia la vinse sull'ansia della caccia che Carlo le dava. Si strinse i fogli contro le labbra e lesse: «Signora, «Non so che cosa vi dirà il cuore quando questa lettera vi sarà presentata, non so nemmeno se l'aprirete o se gettandola da lato chiuderete la porta ai pensieri, che volessero parlarvi di me: ma il destino m'impone di scrivervi, e scrivo. Nella vita non ho traversato ora più terribile di questa, nè mai la penna mi ha tremato più convulsamente fra le dita. L'uragano m'imperversa con tale violenza nel cuore, che parmi quasi intendere d'istante in istante spalancarsi la finestra ed entrare la bufera. Di dove incominciare? Che cosa vi dirò adesso che il torrente è precipitato in mezzo a noi e ci separa? La sua piena, che svelle i massi e sradica i faggi, non può arrestarsi al cenno supplichevole o altero della mia mano, essa rugge più del leone, come il leone squassa a volta a volta la spumante criniera, pronta come il leone a divorare l'audace o lo sciagurato che vi cada... Non importa, mi vi debbo lanciare... e voi, che veggo bella e tenebrosa sull'altra sponda, se non avreste ascoltato le parole che vi avrei detto dalla mia, ascoltate il grido che vi mando travolta fra l'impeto e la minaccia delle acque. «Adesso, lo so, siete nella vostra camera, sola e piangete... Oh, ve ne prego per la pietà di quanto nel mondo è bello e sventurato, non piangete. Le vostre lagrime sono come macigni che avvallino dalle cime delle Alpi e mi piombino addosso e mi sfracellino. Non piangete, ascoltatemi. Se nel passato venni mai a passeggiare pei boschi odorosi della vostra immaginazione; se il vostro pensiero ha mai seguito la traccia de' miei passi; se il vostro desiderio ha mai confuso il suo alito coll'alito del vento nei veli della mia fronte; se fra il sorriso dell'azzurro celeste e il sorriso più bello di migliaia di fiori vi apparvi mai bella; se qualcuno de' miei canti è passato mai sul vostro cuore e ne ha destato gli echi del cielo che dormivano; se mai vi piacqui un istante e scomparendo fra la folla degli altri fantasmi mi rammaricaste perduta — ascoltatemi adesso, e ordinando all'orgoglio, come ad un cane troppo ringhioso, di accovacciarvisi ai piedi, ascoltate il mio racconto come ascoltereste il racconto della fanciulla che Heine, il vostro grande poeta, osservava affascinato in fondo all'oceano, seduta alla finestruola della casuccia neerlandese. «Avevo creduto che ci fossimo comprese senza troppe spiegazioni e mi sono ingannata; o Dio, geloso di un amore assai più grande della sua creazione, ha ingannato me e voi. Perchè un abisso si è sprofondato fra noi e, invece di camminare l'una al braccio dell'altra, stiamo nell'attitudine di due sentinelle nemiche sull'orlo dello stesso confine? Perchè i nostri cuori non battono più la stessa musica e le nostre idee fendono con volo disordinato il cielo verso punti contrari? «Siamo solamente infelici, o siamo anche colpevoli? «Osiamo essere franche. «Comunque sia del nostro avvenire, l'amore è stato in mezzo a noi. Ci teneva ognuna con un braccio alla cintura e così sostenute abbiamo camminato qualche tempo colla leggerezza della nuvola. Ci siamo amate, perchè vicine i nostri cuori si intendevano sempre o nel silenzio o fra il vano cicalìo delle convenienze; perchè lontane i nostri pensieri s'incontravano sempre o volassero nel cielo della speranza come due colombe o nuotassero nell'oceano del dubbio siccome due naufraghi; ci siamo amate in ogni sentimento dell'anima, in ogni fibra del corpo, amate dappertutto, là negli splendidi paesaggi della fantasia, nelle calde oasi dei sensi, nelle valli poetiche del cuore. «Se i nostri occhi cadevano sopra un quadro o sopra un fiore, trasalivano della stessa emozione: la musica ci rapiva sempre unite in un'onda, la poesia ci parlava il medesimo linguaggio e le rispondevano le medesime parole. Forse mai, dacchè il soffio di Dio accese il fuoco nel sole, due raggi se ne spiccarono e piovendo per lo spazio si riconfusero, come i nostri due spiriti nelle loro passeggiate pei giardini della passione... «Vi ricordate il nostro primo incontro a Rimini, alla porta dello stabilimento, che dava sul mare? Voi arrossiste come una fanciulla al primo sguardo di un uomo, io palpitai come non avevo mai palpitato. Vi cercavo da cinque anni; vi avevo trovata. Come mi sembraste bella nell'ebbrezza del mio trionfo! «Io che mi ero affannosamente costruita una diga intorno al cuore, perchè nessuno venisse a specchiarsi nel suo lago e a pescarvi; che avevo dovuto ogni giorno alzarne ed ingrossarne le muraglie, che avevo vissuto tanto tempo nello spasimo d'imprigionarvi le onde della vita temendo pur sempre che ne sfuggissero... allora colle mani tremanti di gioia rovesciai la diga, l'acque dilagarono trascinandomi e nessun naufragio fu più voluttuoso del mio, ma, ahimè! avrei dovuto morirvi. Vi amai e vi volli. «Cercai di conoscervi. Anelavo di scoprire il vostro spirito, non perchè dubitassi di trovarlo meno bello della vostra persona, ma anelavo di conoscerlo come si anela di baciare la bocca che ci ha confessato l'amore. Ci parlammo... Una sera che la luna era limpida come lo splendore dei vostri occhi e che il mare si era addormentato in quel lume vi trascinai lungo il lido: vostro marito ci seguiva con un altro signore in distanza, potevamo quasi credere di essere sole. Vi feci sedere sulla mia mantellina e vi dipinsi col linguaggio indolente della fantasticaggine una fuga. Mi credetti compresa poichè vi vidi tremare: esultai. Una donna plebea avrebbe giudicato ridicolo il mio sogno: voi lo rammaricaste impossibile. Non avevo quindi che a procurarne le circostanze. «Badate, signora, al racconto che vi faccio: non vi nascondo nulla, e se, leggendolo, immaginerete solo quanto soffro a scriverlo, avrete pietà di me. «Vi feci quindi la corte, e vostro marito la fece a me. Ebbi torto di accettarla per servirmene a spronare il vostro affetto: donna, dovevo astenermi da una manovra resa oramai grottesca dall'abuso immemorabile che gli uomini ne hanno fatto; non dovevo io, che vi disputavo loro, usare le stesse maniere, e poichè il mio amore era più nobile e più delicato coprirlo di così abbiette apparenze. Ebbi torto e forse adesso ne sconto la pena. Ma se innamorata come donna non lo fu mai e capace delle audacie più perigliose come dei sagrifici più difficili, invece di circuirvi ignobilmente fossi un giorno venuta a dirvi: Mimy, siate la mia amante; che cosa mi avreste risposto? Non anticipiamo sulla fine. Vi ho offeso e vi domando perdono colla fronte, che non si era ancora piegata, stesa nella polvere. «Sapendo che partireste a giorni per ritornare da Rimini alla vostra villa, partii prima di voi improvvisamente e così potei scrivervi. Quante cose si scrivono che non si dicono! Trovai un casino non molto lontano dal vostro, e là vi attesi. Veniste, vi chiesi un abboccamento misterioso e cominciarono i nostri colloqui. Quanta poesia in quelle brevi passeggiate del vespero su pel viale, che menava alla parrocchia! Voi fanciulla io donna tremavamo ad ogni stormire di fronda, ci guardavamo dietro, consultavamo le ombre e le svolte; i baccelli delle acacie urtandosi fra loro ci comunicavano ineffabili paure: perchè? Ci stringevamo la mano, poi ad una parola improvvisa i nostri due spiriti spiccavano il volo... e lungi, lungi. Molte volte fui tentata di sedurvi, ma resistei. Benchè lasciandomi corteggiare da vostro marito mi fossi cacciata per una falsa via, non ero così pervertita da correrla tutta. Sicura del vostro amore, volevo attendere che acquistasse la coscienza di sè e si interrogasse per interrogarlo alla mia volta. «Mi amavate, concepivate che due donne potessero amarsi più di due uomini, ma che potessero romperla colle convenienze e colle istituzioni, romperla colla natura, diciamola questa parola che fa rabbrividire i pedanti, e unirsi in una sola vita... ignoravo se arrivaste fin lì. Vi osservavo abbandonarvi fidente alla simpatia che vi inspiravo; vi vedevo fremere alle audaci parole che vi andavo lanciando sulla condizione della donna, e nulla più. In un'anima infantile come la vostra, e m'ingannavo, la coscienza di un amore come il mio doveva produrre un immenso tumulto. Non vi scopersi il tumulto, non vi supposi questa coscienza e non volli con arte affrettarne lo sviluppo. «Dio, fu detto, è paziente perchè è eterno: io ero paziente perchè ero innamorata. «Ma soffrivo. Le carezze dei vostri sguardi, le moine della vostra voce, il vento di un vostro sospiro mi facevano battere il cuore colla violenza di un maglio sopra un'incudine. Mentre vi parlavo mi obliavo sognandovi: studiavo la purezza della vostra anca, indovinavo la forma del vostro seno, e dal piede salendo su per lo stinco mi perdeva nel buio e nella febbre... Se sapeste quante volte avrei voluto ricevere una ferita perchè voi mi spogliaste... Quella volta che vi appoggiai il capo sulla spalla, ero quasi vinta: l'aria era troppo ardente, voi troppo bella. Ma appena ero sola mi volgevo i più acerbi rimproveri, strapazzavo la mia anima fangosa come un negriero può in un eccesso di vino strapazzare uno schiavo, e tornavo a giurarmi che non vi sedurrei. O tutta mia e sempre mia, o nulla. Eravate la vita per me; o la vita o la morte, non agonia, non possesso diviso, non amore smezzato. Voi la mia amante e la moglie dell'avvocato! Questa idea mi pareva più assurda che l'altra di potere un giorno non vi amare. Aspettavo e fidavo. «Vostro cugino ritornò da un viaggio. Quando lo ebbi conosciuto tremai. Era una grande natura. Non so perchè, voi gli piaceste allora la prima volta e cominciò a corteggiarvi per calcolo, finendo ad innamorarsi davvero. Mi ritirai. Avrei potuto disputarvi, perchè il mio spirito e il mio ingegno non erano minori del suo, e spesso la vanità mi spingeva alla lotta, ma l'amore trionfò della vanità. Indietreggiamo, mi dissi: ella mi conosce abbastanza, lasciamole la scelta; forse, costretta a discutere l'adulterio, apprenderà la coscienza del mio amore. «Diradai quindi le mie visite, resistei a tutti gli sforzi dell'avvocato e mi allontanai, mentre egli diveniva ogni dì più assiduo. Sola nella mia villa pensavo a voi notte e giorno, immaginando che foste sempre sul punto di cedere. Nei giorni della passione la Madonna non ha sofferto la metà delle mie torture! Volevo sempre vedervi, facevo attaccare la carrozza, sellare i cavalli, poi tornavo in camera e mi vi serravo. «Finalmente le forze mi si logorarono e partii per Bologna sperando di affrettare la catastrofe. Vostro marito mi aveva prevenuta mi vi aspettava con voi. Non vi dirò le mie pene per evitarvi: non volevo incontrarvi per non sillabarvi lentamente sul volto la mia sconfitta o la mia vittoria; era questa una pena umanamente insopportabile. Ritornaste in campagna, io dopo: avevo perduto. Il conte era stato veduto di notte a braccetto con un suo paggio; indovinai che foste voi, ebbi ancora la bassezza di spiarvi e vi riconobbi. Venni a visitarvi. Eravate triste, e il cuore mi disse che foste stata più soggiogata che sedotta. Ciò calmò la mia disperazione. «Venimmo in città e mi confermai nel sospetto. Ogni dì vi facevate più pallida e più bella; eravate meco vergognosa, fra noi nessun ricordo di Rimini, dei primi convegni, delle passeggiate segrete. Non ridevate più: la vostra toeletta era trascurata, ancora più triste del vostro volto. «Allora decisi di disputarvi; il resto lo sapete. «Eppure, v'insisto, ci siamo amate. Benchè m'ingannassi non stimando nella vostra anima la profondità, che poi vi scopersi, non posso non credere al nostro amore: ci siamo amate, e se anche l'odio accendesse ora fra noi la sua fiaccola fosca non ci abbaglierebbe tanto da farci perdere lo splendore dei nostri sorrisi di un dì. «Il passato è passato, asilo di conforto contro la collera di Dio e delle passioni! Come vi veggo, bella nella memoria! Perchè non posso ripetere la vostra immagine sopra una tela e metterla sopra un altare? Fanciulla, fanciulla, perchè siete mai così bella! Se la voce dell'amore fosse potente, come cantano i poeti, griderei adesso con tutte le forze chiamando le stelle dalle loro danze remote, e le pregherei di venir meco in processione ai vostri piedi ad implorarmi il perdono piangendo coi loro occhi immortali, che non conobbero mai che il sorriso... Chiamerei tutti i fiori, quelli che sorgono sulle nevi immacolate e quelli che si ergono fra le sabbie dei deserti, perchè vi circondassero amorevolmente e ognuno nella sua favella di odori vi parlasse di me... «Amatemi, amatemi se il vostro spirito è grande, perchè il mio amore è un infinito e sarà vostro. «Ma ditemi, voi, che siete trascorsa audace per gli oceani tenebrosi della passione a gettarvi la sonda e la rete, perchè mi avete amata? L'amore per una donna avete forse creduto che potesse nutrirsi sempre delle insipide erbe dell'amicizia e che tutta la sua vita dovesse passare nello studio di nascondersi a sè medesimo per non discutere il proprio problema? Se prima di conoscere l'amore con un uomo potevate, e non era così, non comprendere che l'amore con una donna dovesse essere altrettanto pieno nel possesso; dopo non più... E allora perchè lusingarmi, rinvigorirmi con una promessa la lena moribonda per voltarmi a un tratto le spalle e sospendervi al collo di lui? Che Dio trovi, egli cui dicono sì buono, nella sua infinità abbastanza misericordia per rimettervi il male che mi avete fatto! «Se la bruttezza della loro forma, le oscenità del loro cuore, le dissimiglianze del loro carattere e delle loro attitudini, le asperità infine della natura degli uomini vi avevano spinta verso un ideale migliore; se neppure il genio e la passione del conte, gli debbo nemica queste lodi sincere, vi avevano nascosto i suoi difetti, e l'amore di una donna bella della vostra bellezza e del vostro cuore sorrideva ai vostri sogni di fanciulla e ai vostri dolori di donna...; se la donna cercava la donna, e io vi apparvi la donna ideale, perchè rifiutaste di fuggire quando vi condussi alla stazione? Non oso dirvi questa terribile parola e mi scivola mio malgrado dalla penna: Mimy sarebbe stata più piccola del suo amore, poichè Mimy amava? «Non amavate vostro marito, non amavate vostro cugino, a chi dunque mi avete posposta? Che io lo sappia almeno il nome del mio rivale per dirgli di condensare la sua vita nel vostro amore e di morire per voi... Sarà pur bello, se vi piacque, e io cadrò ai suoi piedi, adorando questo maschio Iddio della bellezza, che passa la prima volta sulla terra! Ma allora vi converrà fuggire con lui: dove andrete? Da quando l'amate? Prima di conoscermi, o dopo? La testa mi si perde in queste congetture e sento che la ragione è sfinita di questa lotta di argomenti. «Addio, signora. Comunque sia, mi avete respinto e la mia ultima prova di amore sarà di non importunarvi mai più. Napoleone perdendo l'impero del mondo conservò ancora uno scoglio, da cui guardare l'immane ruina ed essere dal mondo contemplato immane ruina egli stesso... Di lui più infelice avrò maggiormente perduto e non potrò più vedervi, nè essere veduta da voi. Non avevo che voi nella vita; per voi che non conoscevo ancora avevo reso bello collo studio il mio spirito; per voi educata la mia bellezza a tutti i vezzi della voluttà; per voi aveva cresciuto un amore, quale nessuna donna aveva mai offerto e nessun uomo goduto... voi sola, e mi fuggite! avrò invano vissuto. L'altare era coperto di fiori, splendevano i ceri, l'organo mormorava le sue commosse armonie e la fidanzata ha fuggito la fidanzata davanti all'altare... che il genio del male s'inebbrii dunque del suo trionfo e rovesci lo splendido tempio sul capo dei credenti. Tutto è finito; parola più amara di tutta l'amarezza dell'oceano condensata in una goccia... Ho vissuto e vivrò ancora, sia pure per poco... e perchè? Offro me stessa in premio a quel filosofo, che sappia dirmi adesso il perchè della mia vita. «Ascoltatemi ancora qualche momento. Questa è la mia ultima lettera, la corda che mi tiene sospesa sull'abisso; non vi lagnate dunque se l'allungo di un palmo e ritardo così la caduta. Affacciatevi piuttosto una ultima volta sul mio abisso, così che guardandovi io non senta più il vuoto sotto i piedi e non vegga più finire la corda nelle mani della morte... Oh! io casco dal cielo, ma il sole mi splende indifferente sul capo e l'azzurro sorride, la natura esulta: io sola infelice, io sola colpevole... ah no, signora, credetelo, colpevole lo siete anche voi. Mi avete pure crudelmente trattata! Respingere il naufrago che aveva afferrata la riva, rinchiudere la cassa sul sepolto che l'aveva scoperchiata! «Ascoltatemi. «Poichè dovrò allontanarmi, non negate il tozzo di pane al povero, cui rifiutaste l'ospitalità, e ditemi: allorchè mi amaste, quale era il vostro sogno di vita? Ecco il problema che da sola non risolvo e nel quale si dibattono spasmodicamente il mio cuore e la mia ragione. «Quando ero fanciulla, come voi, sognavo l'amore di una bella che bella solamente per me non patisse alcun lordo contatto, non avesse altro pensiero che d'essere bella e di amarmi. Nobile, bella, ricca io medesima, immaginavo che nulla potesse impedirmi di vivere per tale sogno e di ottenerlo. M'ingannavo: dovetti essere moglie, umiliare il mio ideale, prostituire i miei sensi sotto un uomo; senonchè la violenza non potè degradarmi, mi ribellai, riebbi l'indipendenza e fui vedova, doppiamente ricca di danaro, d'esperienza e di passione. Quindi cercai il mio sogno e non lo trovai. «Intanto, nella speranza mi era preparato una specie di serraglio, compiacendomi a chiamare col nome di schiave le cameriere che mi idolatravano. Viaggiai mezza Europa, approdai in Oriente, rimontai l'Egitto e conobbi donne di rara bellezza, d'ingegno vivace, ma nessuna che rispondesse al mio cuore. Ero dunque pazza se cercavo la felicità in un'altra zona fuori della natura? Ma una voce segreta mi susurrava che esisteva, e mi sentivo troppo nobile di anima per stimare la mia passione una bestialità. Proseguii i vagabondi viaggi e finalmente stanca tornai in Sicilia, spendendovi un anno a adornare la villa per la mia incognita. Poi mi rimisi in cammino, e v'incontrai. Ma se meco aveste comuni le giovanili aspirazioni ed i sogni, e al pari di me non potevate amare che una donna, perchè il pensiero di vivere meco lungi dal mondo, al di sopra del mondo, non fu il primo della vostra mente, per non dire del vostro cuore? «Se Dio esiste e la morte ci apre le porte del suo tribunale, io potrò sempre dirgli: la mia vita giusta o reproba è una, diritta, sempre fedele a sè stessa; non ho mai deviato volontariamente, non ho rallentato il passo, discussa la meta... Ma voi gli direte altrettanto? voi che avete ingannata e tradita voi stessa; voi che per paura di un urlo plebeo avete posto la mano sulla bocca dell'amore e soffocandolo gli avete detto: taci! Voi che avete stritolato un'anima grande come la vostra, perchè? ditemelo, signora; via ditemi come pensavate, come pensate adesso di vivere; ditemi, poichè la vita è un matrimonio, a che, a chi vi sposereste se non mi avete sposata? «E noi saremmo state felici. Vi avevo già preparato un castello, un serraglio per voi la sultana. I miei milioni, perdonatemi la goffa particolarità, vi avrebbero circondata di un lusso quale solo la poesia può desiderarlo; voi sultana, regina, idolo, dio. Il mio amore si sarebbe steso ai piedi per rendervi più soffici i tappeti dei fiori o della Persia, si sarebbe addensato intorno alla vostra nudità per avvolgerla in una nube sfolgorante, o avrebbe soffiato sulle pieghe dei vostri abiti per renderle più lievi e più loquaci. Fuori alla campagna sarebbe stato il genio della solitudine e della natura, nelle sale del mio palazzo il mago dell'arte e della voluttà. Voi desta, avrebbe vegliato sulle ore che passavano perchè ognuna vi gettasse un sorriso o un piacere: voi addormentata, avrebbe composto la musica per i balli dei vostri sogni... Il mio amore sarebbe stato sempre con voi, dovunque; il mio amore avrebbe saputo uccidermi se glielo aveste ordinato... «Che gli dirò adesso, al mio amore, adesso che lo avete abbandonato? Perchè vi ho mai rispettata nei primi convegni e debbo essere cacciata dalla fontana senza avervi pure bagnato il lembo della veste? Non vi ho dato che un bacio e non vi ho posato che una sola volta il capo sulla spalla... Ebbene, fanciulla, poichè vi sono dispiaciuta e mi rinnegate, venite a godervi la mia morte; andrò a sdraiarmi sul coperchio della mia tomba, quello sarà il letto e il veleno lo berrò alla tazza della vostra indifferenza... Ma lasciatemi amare, lasciate che vi spogli quel casto costume di Margherita, mentre spoglierò il mio tetro costume di Notte. Vi prometto di non violarvi, ma nuda vi sentirò nuda, vi bacierò solo i capelli, e così non sentirete i miei baci; ma nuda al vostro fianco, il seno presso il seno, l'anca nell'anca, il volto nel volto, la mano nella mano, così, almeno così... e quando sarò morta levatevi, signora, ma fate piano, perchè anche morta sentirò quest'ultimo abbandono e i fremiti del mio cadavere potrebbero spaventarvi... «Oh, Mimy, ma è impossibile che ci lasciamo! Allora se ne vada il sole e seco se ne vada la terra, che non mi erano cari se non per voi! «Ci penso e vaneggio: è impossibile che ci lasciamo. Avervi cercata cinque anni, essere cresciuta per voi, per voi divenuta una donna, e abbandonarvi, perdervi... perchè? Vi ripeto, è impossibile. Il naufrago, quando lo ha abbracciato, non lascia più il suo salvatore dovessero assieme annegare: naufragavo se non vi avessi incontrata, ed oramai dobbiamo essere unite per la vita e per la morte. «Un grande poeta ha detto: che nessun dolore è maggiore del ricordarsi del tempo felice nella miseria, ma vi è un dolore più ineffabile, quello di vedere immiserito il proprio ideale. Non importa. Io che volevo vivere unicamente per voi, e che voi viveste unicamente per me; che nel nostro amore volevo riunite tutte le perfezioni e tutta la natura, che avrei voluto vedervi sempre nell'azzurro pura come esso e colla fronte più luminosa del sole... non importa, rinuncio all'ideale di voi e mi contento della Mimy dell'avvocato e del conte. Non sono più la donna che stimavate grande, sono una povera donna, che domanda l'elemosina. Amatemi come meglio vi piacerà, dalla vostra sfera sublime seguitate a scendere fin dove scendono le donne più intrepide al fango, e vi seguirò... sarò l'ultimo, il più ridicolo dei vostri amanti; amatemi in un'ora di noia, in un'ora di rabbia, non importa! Non vi disputo più, non dico più: o tutto o nulla... no, datemi quello che vorrete, ma datemi qualche cosa e chiedetemi qualunque sacrificio. Vendetemi ognuno dei vostri baci per un bacio che darò a vostro marito, al vostro domestico; quando mi vi inginocchierò ai piedi, percotetemi col tacco la gota, ma lasciatemi toccare la vostra veste. Ho bisogno di voi e vi voglio. Starò sempre alla vedetta, e quando vi vedrò più afflitta o più superba, stenderò la mano... Avremo ancora qualche appuntamento?! «Se verrete una volta sul mio letto sarò consolata per sempre, perchè ad ogni tempesta di rammarichi mi vi andrò a sdraiare, e baciando i cuscini, dove affondò la vostra testa, mi sembrerà di baciarvi sulle labbra. «Mi negherete anche questo? Lo so che vi offesi, che ho osato brutalmente respingervi, che vi ho maledetta; ma vi chieggo perdono, e vorrei che quelle empie parole fossero scorpioni che mi ritornassero in bocca e quella maledizione un serpente che mi stringesse la gola. Lo so che ho avuto torto, ma Napoleone mormorò nella caduta, ma Cristo gemè sulla croce, ma nemmeno voi siete innocente... Ah! perdono: non di voi, ma di me debbo parlarvi. Perdonatemi, signora, l'offesa villana, perdonatemi subito, perdonatemi tardi, ma perdonatemi. Se debbo espiare il mio peccato, datemi qualunque penitenza: la compirò col sorriso sulle labbra e nel cuore. «Ma se non vorrete perdonarmi? Se non mi amaste? No, no, è impossibile: eppure siamo divise e sento l'aspide dello sconforto mordermi il cuore. Mimy, sono pur terribili queste ore, che tu dormi forse nell'ombra di un sogno innocente. Dormi, divina reietta, come dormono i fiori sotto al loro raggio di luna e i raggi della luna dormono sull'onde del lago. Io vorrei piuttosto dormire teco nel fondo di un sepolcro fra lividi cadaveri e candidi scheletri, che sfolgorare onnipotente sul trono di Semiramide. «Perchè mai Courbet in un'ora di genio dipinse Venere e Psiche...? Tu dormi, bionda, e la bruna non può entrare nella tua camera a passi di lupo. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·» CAPITOLO III La follia vince spesso il genio, la fortuna il merito; l'uccello il serpente; il serpente il leone, perchè la donna non vincerebbe l'uomo? OTTONE DI BANZOLE. L'avvocato, che attendeva nel salone, s'impazientiva e aumentava quasi volontariamente la propria impazienza per sottrarsi a una segreta emozione. Messo sulla traccia da una imprudente parola di Giulietta, era venuto a cercar la moglie fuggita presso la donna da lui amata pazzamente. Che cosa decidere ritrovandola? Perchè cercarla? Come chiederla a quella donna, alla quale aveva offerto tante volte il proprio amore, e che adesso, dopo l'eroico scandalo del gabinetto, amava e temeva maggiormente? Chi era dunque la maschera? Era folle? No: perchè? Inciampava da mezz'ora in questi problemi e gli toccava sempre indietreggiare. Finalmente intese il fruscìo di una veste di seta e vide la marchesa ferma fra il cortinaggio della porta, così che il rosso dell'abito fiammeggiando sul cremisi bruno della tappezzeria le faceva quasi un'aureola fantastica. Era vestita colla più aristocratica ed insolente semplicità. L'abito non aveva che un corsetto liscio con una finta scollacciatura ad angolo, segnata da un merletto bianco, e la sottana sull'anca attillata, a lungo strascico, velata come da un altro merletto. Invece della solita grossa treccia, che le percoteva a mezzo la vita come un anellone di battitoio, una pioggia di lunghi e disordinati ricci rimbalzandole vivamente sulla fronte le grondava pel collo e per le spalle. Ella s'innoltrava lenta, lenta. — Mia moglie è qui? egli le domandò per non sapere che dire. — Vostra moglie! ripetè con accento di ironica meraviglia. Ah! siete venuto per lei? E proseguì verso il camino, che avvampava scoppiettando. Sedè sull'altra poltrona. — Potrei, disse Carlo, che avvicinatosi goffamente appoggiava i gomiti sulla spalliera di una sedia, aspettando che ella gli rivolgesse la parola, osservare senza indiscrezione alla signora marchesa, che non mi ha ancora risposto? — Mi pareva, fece rivolgendosi con un moto pigro. — Mi avete detto: non siete venuto che per lei! — Avete ragione: questa non è una risposta. Ma sedete dunque, non sono una regina per avere diritto che mi si parli in piedi. — Se la bellezza avesse troni... La marchesa gli troncò con un sorriso indulgente il complimento, e l'avvocato arrossì. Tacquero: il duello stava per cominciare. — Mimy è qui? — Ebbene? — Voglio vederla. — È impossibile. — Perchè? — Non lo so: ma è impossibile. — Ma sapete voi tutto? — So qualche cosa. — Dunque?... — Aspetto che mi diciate, poichè si tratta della signora Mimy, che cosa vi conduce qui. A questa franca interrogazione, egli si fermò. — La difendete ancora? — Ancora, soggiunse con amarezza, e voi perchè la perseguitate ancora? Comprendo: Mimy vi fugge, l'inseguite. Istinto di cacciatore che insegue una lepre, ma istinto pure di lupo che insegue un'agnella. — Così, sono io che ho torto! — Infallibilmente, poichè siete voi il fuggito. — Logica bizzarra! mormorò. E dopo un istante: — Dunque mi vi opponete: capisco... vorreste salvarla nuovamente.... So tutto. E le presentò la lettera di Mimy. La marchesa s'illuminò in volto dalla gioia. — Siete una nobile amica, ma badate, l'amicizia, essa pure, ha le sue frontiere. Ieri sera l'avete salvata con una generosità da romanzo, e adesso vi domando scusa del mio impeto villano e vi ammiro. Ma la scena è cambiata. Malgrado la vostra bella azione io so e il mondo sa tutto. Quella donna non può aver mancato impunemente a' suoi doveri... la reclamo. — Come un giudice in tribunale, rispose stridulamente la marchesa. — E sia pure, ribattè irritato dalla ridicolezza della sua posizione. La marchesa si levò: — Ebbene, no. Cedetemi vostra moglie: credo che in diritto romano si possa. Catone la dette pure ad Ortensio. Questa scappata detta con inesprimibile grazia lo fece sorridere. — Non importa: la mia citazione vi esilara, e così? insistè infilandogli il braccio. — No, egli fe' resistendo: qualunque siano le vostre opinioni sul matrimonio, io ho le mie e il mondo ha le sue. Siete libera di ridere che Giorgio mi abbia miserabilmente ingannato, di offrire ricovero alla sua amante; siete libera in questo come nel trovarmi brutto, senza spirito, senza pregio, ma non senza onore. Non scherzo, signora. Mia moglie è qui e deve ritornare meco: voglio impedirle altri scandali. Se avete voluto trattenermi finchè mi calmi, parmi ormai d'essere abbastanza tranquillo per non destare seri timori. — Che cosa farete di vostra moglie, che vi fugge? — La legge mi lascia più di una strada. — V'ingannate, per un gentiluomo non ve n'è che una sola: la separazione. — Può essere. — Separatevi. Che cosa può accordarvi il tribunale di più che ella non abbia perduto fuggendovi? Conosco il codice anche io. Mimy non vi disputa nulla, poichè vi abbandona tutto. Non rispose, e l'altra stimando d'averlo scosso: — Dimenticatevi quella donna: non vi eravate mai uniti, adesso vi separate. Lasciatela al suo destino. Ella perde più di voi, giacchè perde ciò che il mondo chiama onore, e scende dalla sfera della legalità per finire chi sa dove; mentre voi sarete sempre un grande avvocato, dovunque ricevuto, dovunque applaudito. Mimy era infelice con voi e lo sarà più senza di voi. Se desiderate la vendetta: tranquillatevi, l'avrete. È venuta da me, so tutto e l'ho raccolta giurando di proteggerla. — Anche da Giorgio? — Anche dal conte, replicò senza scomporsi: da tutti. Sono sola al mondo e rimarrò sempre sola. Mimy mi terrà compagnia e ci aiuteremo a vivere. Quella colpa, che a voi pare infame per ragioni di egoismo, non irrita me donna. Mimy è sempre per me la bella fanciulla di Rimini dal cuore delicato e dalla fantasia poetica, e ora, che mi chiede ospitalità fuggendo disgraziatamente dal mondo, sarei peggiore delle sue amiche, che domani la insulteranno, troppo vili per l'energia dello scandalo, se la rifiutassi. Mimy è pentita, addolorata, starà meco fuori del mondo: io veglierò su lei. Andate avanti per la vostra strada voi, che l'avete gloriosa, e non rivolgetevi a guardare a quale svolta si è perduta vostra moglie... — Andrò innanzi solo... — Non eravate solo anche prima, non lo sareste egualmente quando ella consentisse a ritornare con voi. Un abisso vi divide. La vostra vanità di uomo, i vostri progetti di marito soffriranno, ne convengo: ma ogni vita ha il suo dolore, come ogni lago il suo vortice. Egli aveva chinato il capo. Quelle osservazioni erano troppo sensate per rispondervi prontamente, e per di più pronunciate con un accento, che molto ne leniva la durezza. Stava cogli occhi fissi sopra un fiore del tappeto e pensava, intanto che la marchesa, calma nella voce, l'osservava con mortale trepidazione. — Signor Carlo, riprese ad un suo moto: siccome contavo di partire, partirò domani portando meco Mimy. Ve lo giuro sulla tomba di mia madre, finchè Mimy sarà meco non sarà di alcun uomo. Nessuno sa ancora della sua fuga e non se ne saprà, anche sospettandola, perchè il conte non sarebbe meno fuggito di voi. Direte che è partita meco per un viaggio, e se la baronessa vorrà saper quale, penserò io ad ingannarla. Accettate? — Di perdere a un tempo una donna che amo ed una donna che odio: l'offerta è splendida. — Di chi la colpa? — Di voi. Ma perchè da quattro mesi vi trovo in ogni luogo della mia vita? Giorgio, uno dei pochi che amavo, mi tradisce; mia moglie mi vilipende e poi mi fugge lasciandomi solo e ridicolo in faccia al mondo e alla vecchiaia e, quasi la bevanda non fosse abbastanza amara, venite voi e vi gettate dentro il vostro amore. Così, quando penserò a voi, mi ricorderò di essere un marito come tutti; quando penserò a lei, mi ricorderò che avevo incontrato una donna ben più bella e che mi ha egualmente fuggito. Bisogna che ci sia un destino contro di noi, perchè i dispiaceri non saprebbero ordinarsi di per sè tanto atrocemente! — Coraggio, non bisogna poi avvilirsi... — Chi si avvilisce? Credete che rimpianga quella civetta? Ma è triste sentire a quarant'anni di non avere più nè famiglia, nè una passione di cui vivere. Voi partirete, andrete lontano, a Parigi, a Pietroburgo, a New-York, non lo so. Là sarete felici. Giovani, belle, ricche, tutto il mondo ai vostri piedi, mentre io starò in uno studio a distrigare dalla legge o da un altro avvocato qualche imbecille incappatovi. Per me tutto è finito. A Bologna non c'è un'altra donna come voi: non ho dove rivolgermi. Rimontando il passato, soffrirò ancora più, e voi ne riderete, e forse ritornando da una festa o preparandola vi domanderete: che cosa farà adesso quell'imbecille di Carlo? Mi pare di sentirvi. — V'ingannate. — No, non m'inganno, proruppe violentemente; i brutti sono ridicoli per i belli, i vecchi pei giovani, gl'ingannati per gl'ingannatori. A voi tutto e a me niente; è impossibile, non mi rassegno. Avete detto: ogni vita ha il suo dolore, come ogni lago il suo vortice. Bella frase e vera: ma ogni vita deve avere una felicità, come ogni lago ha un incanto. Io non l'ebbi ancora e la voglio, e se mia moglie non potè darmela, mi rivolgerò a qualche altra: se l'avrà, è mia. Vi pare che abbia ragione, signora marchesa? Ella, che si aspettava da un pezzo questo colpo, non ne fu sbigottita. — Veramente non mi pare. Avvicinatevi, soggiunse tendendogli amabilmente la mano, e ragioniamo. — Sarà difficile: e gliela afferrava appassionatamente appressando una specie di sgabello alla poltrona. Vi fu un altro silenzio: ella si colorò in volto. — Mi amate? — Sì. — Se vi dicessi, e lo fissava audacemente negli occhi: offritemi un dono e sono vostra? — Accetterei, dovessi restare sulla paglia. — Siete più generoso di Assuero: egli non offriva che una provincia... Cercate. Egli le baciò convulsivamente la mano, ma cercò inutilmente. — Lo sapevo: se io l'avessi trovato? — Voi! — Rinunciatemi Mimy. — Ah! e di seduto le scivolò in ginocchio. — Non partirete? — Partirò. — Quando? — Posdomani. — Per sempre? — Chi può dire questa parola superba? partirò. Egli la contemplava istupidito. Gli pareva di sognare, mentre venuto a cercare sua moglie per vendicarsi, era adesso lungi dal primo disegno; ma la marchesa calda nel volto di un voluttuoso rossore e col seno ineffabilmente commosso lo abbagliava e l'incendiava. Si stavano tanto presso e in tale atteggiamento, che l'amplesso era quasi incominciato e scoppiando un bacio si compiva. La marchesa sfinita si rigettò sulla spalliera della poltrona. Carlo le passò un braccio alla cintura. — E sia! Ma ella balzò in piedi, e respingendolo, sembrò voler fuggire. — Marchesa! gridò inseguendola: ma è una... Non disse di più, perchè ella gli aveva chiusa la bocca con una mano. — Adesso andate e stringiamoci la mano: io salvo una donna e voi ne perdete un'altra. — Ma... — A domani. — Troppo tardi. — Eppure sarà domani. — E se non mi piegassi? Domani! Gittate un tizzone in un pagliaio e poi ditegli: ardi solo domani: non vi ubbidirà. — Sì, altrimenti lo spegnerò. Gli tese la mano, che l'altro strinse. — Chi mi assicura che manterrete la promessa? scoppiò improvvisamente a dire. Una nube passò sulla fronte della donna. — Dubitate? e, accennandogli di attendere, sfuggì per la porta e ne ritornò subito con un astuccio in mano. — È il diadema di mia madre. Regalandomelo, mi fece promettere che non me ne priverei per cosa al mondo. Prendetelo in pegno, e se domani mattina non mi troverete, andate e gettatelo nel Reno. — Ma vale centomila franchi! — Molto di più, corresse sorridendo ironicamente: andate. L'accento di quest'ultima parola fu così imperioso che indietreggiò come un servo. Teneva l'astuccio aperto nelle mani, ritraendosi metà rivolto alla porta, metà a lei, immota nell'altero atteggiamento. — Domani mattina a quest'ora! disse guardando l'orologio sul tavolo. — A quest'ora. Si avanzò di un passo e correndole incontro: — Non lo posso credere: è una felicità troppo grande. Le prese un lembo della veste e fuori di sè dalla gioia glielo baciò. — Lasciatemi, signore: se la fortezza ha abbassato la bandiera, non ha ancora aperto le porte. A voi il domani, ma l'oggi è ancora mio; però queste parole furono pronunciate con tale malinconia, che finì di persuaderlo. Si ritrassero entrambi ad un tempo: l'avvocato andando verso la porta; la marchesa verso l'usciuolo del gabinetto. Vi giunse la prima, si fermò sulla soglia. Di rossa era divenuta pallida: ogni passo di lui sarebbesi detto le calpestasse il cuore. Egli camminava vivacemente e arrivando alla porta ne scostò in fretta il cortinaggio, fe' girare la maniglia, il cortinaggio ricadde quasi coprendolo. In quel punto intese un: — Ah! che lo gelò. Mise fuori il capo, non vide che lo strascico rosso della veste scomparire per la fessura dell'usciuolo. Stette pensoso; si mirò attorno, fece due passi nel salone, gli occhi fissi sull'usciuolo fremendo incomprensibilmente: ma il domani gli rifiammeggiò così vivamente nel pensiero che stringendosi con un'occhiata suprema tutto quel salone sul petto, uscì sospirando un altro ah! diverso ma egualmente passionato. Chi aveva vinto? Chi aveva vinto alla battaglia di Mantinea? I Tebani che avevano sconfitto l'ala sinistra dei nemici rimanendo padroni del campo, o gli Spartani che avevano tagliato a pezzi lo squadrone sacro e ucciso Epaminonda? CAPITOLO IV A quoi rêver au bain? Helas! l'Oisivité s'endort laissant sa porte Ouverte — Entre l'Amour. Pour que la Raison en sort Il ne faut pas longtemps. _Mardoche._ — ALFRED DE MUSSET. Ecco una sala da bagno. Una donna si rattiene la camicia sul ginocchio e chinandosi sull'orlo della vasca sorride alla bellezza della propria immagine sorridente fra il velo dell'acqua. I capelli ancora crespi dell'elegante acconciatura le ondulano sulle spalle marmoree a ogni moto del capo, come forse ad ogni guizzo del senso, desto dalla propria nudità, le fremono idee nella mente. La luce scende arcanamente velata non si sa dove e l'aria tiepida è satura di profumi. Le statue bianche immobili sembrano assaporare la voluttà dell'ambiente. Tutto tace; non un'immagine o un rumore del mondo, non una pianta che ricordi la natura, non un oggetto che ricordi la legge. Se la gloria ha i trofei e Dio le chiese, la voluttà ha le terme o almeno le ebbe un giorno, quando regnò sulla terra un popolo grande. Adesso la virtù cristiana ha cacciato dalla vita questo lusso poetico, e le donne si bagnano entro una ignobile tinozza in una più ignobile camera, come s'immerge il pollo nella catinella prima di arrostirlo. Le case non hanno più sale per la voluttà e non hanno più statue... Dimentichiamo e sogniamo... La sala è rotonda. Nel pavimento lastricato di diaspro siciliano si profonda una vasca di alabastro degradando a scalinata; intorno girano dodici colonne di alabastro e nei loro vani appoggiate alle pareti attendono dodici statue. La donna ha lasciato il suo manto bianco sopra un cippo di marmo, e guarda. Le statue sorridono... Io vi abbandono e seguo il mio racconto. Il gabinetto, nel quale Mimy disponevasi al bagno, quantunque inferiore in magnificenza all'altro che la marchesa possedeva nel suo famoso castello di Sicilia, rivelava forse meglio la graziosa ricchezza della sua fantasia di poeta. Era una specie di capanna rustica senza forma alcuna. Le sue pareti e la vôlta formati di rami di quercia nemmeno sbucciati andavano per ogni lato e parevano cadere ad ogni istante; anzi la vôlta era rovinata in un angolo e fra le sue ruine sorgevano piantelle rampicanti ed erbe grasse. In un altro angolo s'ammucchiavano molti canestri di fiori esotici, che usi a brillare nei gabinetti aristocratici, e quindi malcontenti del luogo, sembravano guardarsi in uno specchio, capricciosamente insinuato fra i rami, parlando fra loro coll'alterigia di un crocchio di eleganti a una festa di parrocchia in campagna. Non li curiamo ed esaminiamo questo canotto, che partito Dio sa da quali atroci spiaggie di antropofagi si è qui fermato troppo grave di acqua. È tutto di un pezzo, perchè l'artista selvaggio invece di correggere la deforme rotondità dell'albero non lo sbucciò nemmeno e non badò che a scavarlo profondamente nel mezzo per adagiarvisi sdraiato e vogare nascosto alle freccie dei nemici. Mimy vi è dentro e ascolta fremendo le ultime parole di un canto di Zisa, che si smorza in una cadenza malinconica. La voce si spense. Mimy, adagiandosi nel canotto, in uno specchio insinuato sì improvvisamente nella vôlta bizzarra che le rappresentò il suo bagno, si sorprese così bella in quel movimento di meraviglia, che non potè a meno di sorridersi. L'acqua del canotto era tiepida e profumata come l'ambiente. Mimy era sola. Si raccolse. Quanti avvenimenti in poche ore! Oh! erano troppi e non ci volle pensare. Si estasiò nella contemplazione di quel gabinetto, esaminò le pianticelle, i rami cadenti e che non cadevano forse rattenuti dalla volontà di Elisa che la proteggeva; tornò a guardarsi nello specchio, guardò i fiori che si specchiavano come lei, e li trovò belli. Tutto era bello in quel punto. Si sentiva felice, tremava, fremeva, aveva voglia dì piangere e di ridere. Era in casa della marchesa, nel suo bagno, proprio nel suo bagno. Se ci fosse stata anche lei? Veramente in due non ci si poteva stare, ma l'acqua, lattiginosa per una infusione di odori, somigliava tanto ad una coperta, e in un letto per quanto piccino si cape sempre in due. Che bella cosa sognare nel bagno quando si sa, e si vuole ignorare che Elisa vi aspetta e vi sospira, e sognare, come si sognava una volta da fanciulla quando amore, dolore e voluttà erano effluvio di remote contrade, e adesso sognare meno indistintamente! no: folleggiare ancora così, folleggiare intorno alla verità, come i bambini girano intorno alla cassetta dei confetti, che la vecchia ha portato pel camino dopo mezzanotte.... Il bagno le blandiva sensi e sogni. E dopo il bagno? Si alzò alquanto sul busto a guardare le statue: fiutò come una malizia nel loro sorriso e ruppe in un riso pazzo, infantile. Ma la porta si aperse e Mimy si rituffò colla prontezza di una rannocchia, così che gli spruzzi dell'acqua le imperlarono i capelli. Un passo e un rumore di catene si appressava. Era Zisa nuda con un accappatoio sul braccio. Il bagno era finito. Mimy si drizzò mezzo vergognosa, ma la schiava afferrandola alla cintura la sollevò dal canotto, l'avvolse nell'accappatoio e la portò sul sedile coperto da una pelle di orso nero. La mora era quasi mesta nel volto. — Come siete bella! le disse Mimy, che l'osservava lasciandosi asciugare. — Bella! rispose con accento malinconico; lo sono stata, ma non lo sarò più. — Non lo sarete più?... — Tu lo sei più di me, e liberandola improvvisamente dell'accappatoio indietreggiò per contemplarla. Indi: — Mi avevano detto che il diamante nero era la più bella fra le gemme... Inganno! Mimy comprese l'amarezza di quel complimento, e se ne inebbriò; Zisa era forse la schiava prediletta della marchesa e confessava di essere meno bella. Per quanto buono, il suo cuore dovette esultare del trionfo. Quindi la mora andò alla parete di contro e ne scostò un ramo scoprendo uno stipo meraviglioso, fornito di tutti gli oggettini che servono alla toeletta di una signora. Prese un vasetto d'oro, greco nello stile, e ritornando a Mimy la cosparse di una polvere candida e odorosa; poi cavò una veste di raso bianco dentro e fuori, tepida forse per la vicinanza di un calorifero nascosto, e gliela indossò. Quindi le si inginocchiò ai piedi per forbirli con uno scopettino e una lima di avorio. Mimy fe' un movimento, così che Zisa inginocchiata sopra un ginocchio solo perdette l'equilibrio: ella la sostenne. — Perdono! Si guardarono. — Mi amerete anche voi? Mimy le chiese con affettuosa timidezza. La mora sorrise scoprendo due file di denti impareggiabili e scotendo il capo con un moto di leonessa: — Amerei una iena se ella l'amasse! e accompagnò queste parole con una occhiata così sfolgorante che l'altra n'ebbe quasi paura. La toeletta proseguì. Zisa le sciolse i capelli, e ravviatili lungamente col pettine, per togliere loro le pieghe artificiose dell'acconciatura, li spruzzò con un piccolo inaffiatoio, che si applicava alle labbra, di una essenza tenuemente odorosa: li lustrò con un fazzoletto di seta, e insinuandovi ambo le mani li disordinò col capriccio del vento. Poi le tolse la veste, che portò seco quasi tutta la polvere, le spazzolò ancora il corpo bianco con un fioco di seta pendente ad un bastoncino di corallo; trasse da un terzo cassetto un ampio mantello di lana finissima e una corona di rose. L'avvolse e la incoronò. Mimy non si moveva. Allora le pose un braccio sotto le reni, un altro sotto i ginocchi, e la sollevò distesa. Mimy si raccolse i capelli, che le toccavano terra. — Andiamo. — Dove? La mora volle provarsi a sorridere, ma non potè. Mimy le nascose la testa contro la spalla rabbrividendo. CAPITOLO V Fleur rouge de la volupté, fleur arrachée au soleil par Promethée, je n'aime que toi seule et seule je te cultive dans mon cœur. Ta corolle est rouge et ton parfum enivre bien autrement que le parfum de la fleur bleue de l'ideal. Chaque fois que mon ame saigne par ses innombrables blessures je la plonge dans ton calice, et le sang coule alors sans douleur. _Hymne à la Volupté..._ — OTTONE DI BANZOLE. Entrarono nel gabinetto. Era ancora il medesimo con qualche miglioramento, a prima vista poco notevole. Anzitutto le finestre erano chiuse e invece del sole una grossa lampada, chiusa in una palla appannata e inghirlandata di fiori, spandeva una luce queta, quasi assopita su tutto quel violetto delle tende, che s'abbruniva come in certi vecchi quadri di grandi maestri, mentre le loro pieghe cadevano con una scura poesia. Nessun mobile tranne il letto e un antico tripode nel mezzo, dal quale tenui profumi evaporavano intorno alla lampada, lambendola mollemente come talora i vapori fanno alla luna; ma nel salire s'insinuavano fra le crespe della tenda allargandosi mano mano fino a velarle, facendo quasi immaginare, se nel gabinetto si fosse trovata una donna nuda, che quella fosse nuvola che l'aveva accompagnata e l'attendeva per ripartire. Il letto di bronzo dorato, nascosto dalla coperta di raso violetto e riparato da un indescrivibile padiglione di merletti, antichi nel disegno e nella dubbiezza del candore, spioventi da un grande vaso di rose a capo del letto, era di un lusso semplice quanto costoso. Zisa depose Mimy così avvoltolata sul letto e si ritirò quasi precipitosamente. La prima cosa che Mimy vide nello specchio, che correva magnifico per tutta la lunghezza del letto, fu sè stessa e molti fiori buttati qua e là a mucchi. Due canestri di fiori le sorridevano sopra due mensole di malachite, sopra il capo aveva una vôlta di merletti, sopra i merletti una nube, sopra la nube una tenda, dinanzi un tripode fumante; un gabinetto vero ed impossibile. Si perdette. Solo una donna poteva avere alzato questo mobile tempio alla voluttà, perchè solo una donna poteva esserne la sacerdotessa. Il tripode fumava, ma perchè non dinanzi alla dea? Colla fantasia già esaltata dai sogni del bagno, Mimy cercò la divinità, e la vide albeggiare dietro la nube azzurrognola dei profumi. Era una figura bianca, nuda entro quella nuvola che le rendeva più leggiere e delicate le forme... Un'attitudine impossibile ad esprimersi nella sua poesia, una fronte luminosa, un sorriso più luminoso ancora. Un'irradiazione fulgente, ma attenuata dalla nube, le si diffondeva dalla persona e arrivando a Mimy le penetrava nel candido manto, strisciandole su tutto il corpo. Mimy si sentiva quasi sollevare, e sarebbe bastato un moto di quell'onda luminosa per comunicare colla dea. Chiuse gli occhi: si accorgeva di vaneggiare e che non aveva più forza di vincersi. Sospirò. O il gabinetto fosse soverchiamente caldo, o le infiammasse il sangue, si portò le mani alle gote arrossite ed allentò il manto. Ella, che pure aveva una fantasia ricca e delicata, non avrebbe mai immaginato quel gabinetto della marchesa. Questo nome fu un buffo di vento che le sperse tutti i pensieri; e di nuovo chiuse gli occhi. Non voleva vedere più. Quel gabinetto, quell'atmosfera, quei profumi l'opprimevano. Voleva assopirsi. Non contenta di avere chiuso gli occhi, li strinse; non paga ancora, li coperse con una mano: le pupille così compresse mandarono lampi e brevi e lucenti meteore solcarono quel buio. Si provò veramente a dormire, ma ogni sforzo fu inutile, finchè quella fatica l'illanguidì e l'ansia le si calmò. Non pensava più, come non nuota colui che allungandosi si lascia portare dalla corrente. Un'altra donna entrò tacitamente; era la marchesa. Aveva una diafana veste di velo bruno aperta come le camicie dei marinai sino a mezzo del seno e trattenuta sotto di esso da uno splendido fermaglio formato da un solo rubino: ma dinanzi le scendeva quasi a grembiule sino allo stinco, e dietro le si distendeva in strascico lunghissimo e leggero, lasciandole albeggiare ad ogni passo il profilo della gamba. Camminava scalza. Due nastrini di velluto le stringevano gli stinchi, due le braccia velate sino al gomito da una specie di piccola cappa, e uno il collo. I capelli su quel molto bianco delle carni rifulgevano ancora più neri e male pettinati forse nella fretta, poichè una lunga ciocca cadeva giù pel dosso fino ai ginocchi, e il resto legati da un filo di perle si attorcigliavano sulla nuca in un difficile arruffamento. Era bella. Forse uno scultore le avrebbe trovato più di un difetto nelle forme troppo robuste, forse le reni, forse i fianchi sarebbero sconvenuti a una Venere; ma Tiziano non dipinse mai un collo, nè due spalle più voluttuose, ma il seno abilmente impicciolito dal velo aveva ancora un'ampiezza terribilmente lasciva; ma la statura, il portamento, l'imperiale maestà del volto appena appena commosso la facevano un tipo sublime e fantastico. Era la donna nel meriggio della propria giornata, bella di vita ancor più che di forme; la donna che ha vissuto, che ha goduto, che ha forse anco sofferto, che ha sviluppata tutta la propria bellezza e si ferma un istante prima di cominciare a perderla. Avendo veduto Mimy in quell'atteggiamento camminava colla massima leggerezza, e si arrestò al letto contemplando. Del volto di Mimy non si vedeva che la fronte e la bocca, la fronte pura e la bocca tremola di un nascente sorriso. Ella lo premè con uno sguardo inesprimibile, poi le corse su tutte le forme avvilluppate nel manto e risalì posandosele sulla bocca. Mimy non sentiva, immobile, col petto che si alzava nel respiro rivelando un delicato contorno, mentre i capelli distesi sotto il dosso le spuntavano in ciuffo dall'anca, su quel violetto della coperta di raso spiccando dorati come una criniera di leone o un raggio di sole. La marchesa si chinò sulla assopita, quasi essendo un fiore ne volesse respirare il profumo, ma non osò chinarsi piucchè a mezzo e dilatando gli occhioni neri la cinse di un più avido sguardo. Un non so che di straordinario le brillava nella faccia. L'opaca e in certo modo possente pallidezza del viso le si era allividita, le pupille le fiammeggiavano fuori dell'orbita leggermente bistrata come dal segno di uno sforzo. Tutti i lineamenti le tremavano. Così china colle braccia mezzo aperte all'amplesso e un sorriso famelico e il petto anelante sembrava la statua Voluttà non nella calma come la sentivano gli antichi, ma nella passione come la sentiamo noi moderni. Era più bella di Mimy, se la vera bellezza sta nella vita, bella della bellezza fantastica, appassionata, peccatrice, tanto cara alla scuola romantica. Stupendo gruppo di Venere e Psiche, degno del pennello di Courbet! Ma perchè la marchesa, che certo soffriva in quella penetrante contemplazione, non destava Mimy? Difficile dirlo. Forse non voleva toglierla all'assopimento, stimandolo conseguenza dei travagli della notte, forse l'amava in quell'atteggiamento capricciosamente infantile, forse, e il più probabile, s'inebbriava del proprio frenato rapimento. Ma la passione fosse più forte della volontà, o le mancassero le forze, dovette sedersi sulla sponda del letto; però lo fece con tale delicatezza che Mimy non diè un moto. Il letto essendo stretto le due donne si toccavano quasi. — Oh! sospirò sommessamente, volgendo attorno lo sguardo per togliersi al fascino di quella assopita. La lampada sospesa alla vôlta spandeva sempre la sua luce quieta, il tripode fumava, i fiori sparsi a mucchi sul tappeto e sulle pelli esalavano i loro acri profumi, mentre il fumo delle essenze arse movendosi per cento ondulazioni calava sul padiglione dei merletti. Nessun rumore, nessun testimonio; perfino il sole escluso, sebbene fuori scintillasse stupendo sul candore della neve. La temperatura dell'ambiente cresceva: la marchesa si vide nello specchio ansante di aspettazione. Aspettava da cinque anni. Era tempo. Si diè un'occhiata nello specchio, respinse lo strascico distendendolo sul tappeto, si acconciò il grembiule e si dispose. Mimy aprendo gli occhi doveva vederla di mezzo profilo, seduta, più bella in quell'atteggiamento, che le nascondeva la pesantezza, dei fianchi. Allungando un braccio classico di forma e che terminava in una mano di piccolezza quasi eccessiva, prese quella che Mimy si teneva sul viso e la scostò. Questa spalancò gli occhi, li spalancò ancora e non disse una parola, non mise un'esclamazione. — Dormivi? — No: fe' scuotendo il capo. — Mi sognavi dunque? — Neppure. — E allora? — Non lo so, ma sono contenta di non aver sognato. Non avrei mai sognato così: e la guardò con una meraviglia mista di ammirazione e di amore. Senonchè abbassò gli occhi improvvisamente e, arrossendo appena appena, si trasse colla mano nascosa il manto sul collo e accennò di scostarsi. L'altra sorrise e quel sorriso la fe' di nuovo arrossire. — Il letto è troppo piccino. Aspetta; scivolò sul tappeto e cingendole con un braccio la vita l'attirò sulla sponda così vivamente che una gamba ne spenzolò. Disgraziatamente, strisciando sulla coperta il manto di Mimy s'aperse. — Ah! esclamarono ad un tempo. Mimy voleva ricoprirsi, ma Elisa più lesta si disciolse il nodo delle perle nei capelli, che caddero in una magnifica onda, e gettandogliela sul seno le adagiò il capo in grembo. — Ho letto già di una fata, che aveva un origliere, sul quale potendo dormire si facevano sogni di paradiso e che la fata era obbligata a realizzare. Eppure non alzerei il capo per posarlo su quell'origliere! Mimy, sono bella?... non ti veggo così! Se tu potessi vederti... Oh! ti amo: e tu? — Io! Una lagrima le apparve nell'occhio cerulo, e staccandosi dalle palpebre scese lenta lenta per le guance. — Piangi! — Ho il cuore troppo pieno; piango con te! E si alzò per pigliarle la testa, ma non vi sarebbe riuscita se Elisa non si spingeva oltre. Si incontrarono, si confusero in un bacio. — Sempre con te! — Sempre... così. — Così. — Sempre così abbracciate, coll'anima sulle labbra e baciandoci. Vogliamo morire così. — Mimy! — Elisa! — E sono tua? tu mi ami? Senti come mi batte il cuore: mi pare di morire. — Oh! non si muore di gioia. Così parlavano guardandosi, la faccia nella faccia, l'una respirando il respiro dell'altra, ma la fanciulla indietreggiò e ricadde sul cuscino. Elisa la contemplò ancora un istante, le stese i capelli sul viso senza velarle gli occhi, le passò un braccio sotto l'anca e con una ciocca dei proprii le blandì lieve lieve il seno vergineo. A quella delicata carezza visibili fremiti le correvano sulle carni e umidi lampi le sprizzavano dagli occhi cerulei. Quindi le strappò di sotto il mantello e, chinandosele sul petto, lo corse smaniosa colle labbra. Ma ad ogni bacio cresceva la febbre, cresceva l'anelito e i respiri sfuggivano talora sibilando. Mimy velata dai capelli non la si vedeva arrossire, ma l'altra impallidiva e il seno le palpitava violentemente, mentre colla mano le saliva pel dosso alla testa. Ansava, tremava. Arrivò al volto, ne scostò i capelli e, guardatolo prima con indicibile rapimento, tornò al bacio infuocato delle labbra. Le labbra si premevano, si premevano i corpi, perchè la marchesa nello sforzo era salita sul letto, ma quel bacio, convulso non finiva, non lentava. Forse sentendosi entrambe soffocare si serravano colle braccia l'una contro l'altra per aiutarsi, ed invano. Infine la più forte vi si strappò; Elisa levò con atto febbrile il capo, mentre Mimy chiudeva gli occhi. Una leonessa sopra una gazzella. — Mimy! ruggì, e passandosi una mano dietro il collo si rigettò dinanzi tutto il volume dei capelli, così che ne rimasero ambedue coperte; poi si riaccostarono e ricominciò un dialogo tronco, sibilante, sommesso. Erano parole incomprensibili, non erano neppure parole. Erano non lo so: ma le teste si agitavano, scoppiava qualche grido e le braccia si davano una stretta. — Uomo?! mormorò la marchesa. — No: donna... Poco dopo la tenda pei merletti ricadde e nascose tutto il letto. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Al mattino Carlo correva coll'astuccio in mano al palazzo Fantuzzi. Le finestre del piano nobile erano aperte, ma Elisa e Mimy se n'erano involate. Non si è mai saputo se l'avvocato andasse al Reno per gettarvi il diadema, come gli aveva detto la marchesa. DOPO Da quella scena della Montagnola il giovane e la contessa si erano incontrati più volte senza più parlare del romanzo, quando un mattino s'imbatterono nel Pavaglione. Il giovane aveva un fascio di carte in tasca. — Ah! mi ricordo: e quel certo romanzo? — Dorme da un mese. — Il sonno dei morti? — No, dei malati. — E l'avete finito? — Contessa, me lo chiedete sul serio? Ella comprese e sorrise. — Adesso che cosa fate? — Ozieggio: è il solo mestiere che mi garbi e nel quale riesca quasi con onore. Bisogna aver avuto la mania dell'arte e della gloria per inebbriarsi del dolce far niente. Tutto vi sorride, dal sole che vi desta con discrezione a mezzogiorno al becco del gas, che vi augura la buona notte quando tornate a casa sull'alba. Nella giornata si va a spasso pel Pavaglione, s'incontrano alcune signore sempre brutte e vestite a un modo, mentre voi siete sempre bella e sempre vestita diversamente. E quelle signore vi sorridono, mostrandovi che han più denti in bocca che idee pel capo o amanti per la mano. — Per carità, lo interruppe con gaio spavento: non cominciate adesso una delle solite tirate; è cosa da far scappare anche il sole. Il giovane le offerse il braccio per risposta. — Ma siete in ozio davvero? Non vi credo. — Avete torto, perchè io vi credo sempre anche quando mi trovate ridicolo. Sono in isciopero da un mese, e mi darete ragione. Conto su' miei giorni di ozio per farmi perdonare quelli nei quali lavoro. Sono uno scrittore tanto immortale! — Disgraziato! Ma dovettero separarsi, perchè una zia di lei, più vecchia del proprio blasone, veniva loro incontro, pedinata da un servitore dell'altro secolo. — Il signor Ottone di Banzole. Annunziò una graziosa cameriera. Egli s'inoltrò per un gabinetto elegante verso la contessa, che si scaldava a un buon fuoco sopra una poltrona migliore. Si strinsero la mano, quindi sedendosi sopra uno sgabello, che trasse vicino alla poltrona, di Banzole non disse parola. — Così, mio caro autore, siete taciturno? — Sì: sono a Bologna da tre mesi e mi vi annoio come se vi fossi stato sempre. E voi vi siete annoiata con quello scartafaccio? disse indicandoglielo sul camino. — Poco. — Sul serio? — Quanto lo possiate desiderare. — Contessa, non toccate la mia potenza di desiderio, perchè sono capace di dirvi che vi desidero subito e da un pezzo. — Zitto, lo interruppe: mi direste una insolenza. Parliamo piuttosto del vostro romanzo. Ma sapete che il tema era difficile e forse seguiterà a parer tale, moralmente, anche dopo svolto? Vi confesso che mi aspettavo a qualche cosa di più semplice, perdonatemi la parola, di più volgare; invece mi fate veramente un romanzo di passione. La marchesa, Mimy, Giorgio e perfino l'avvocato sono tutte persone di una spiritualità quasi eccessiva, che mentre camminano per una palude infangandosi fino ai capelli, tengono ostinatamente gli occhi al cielo. Conosco poco l'arte, ma per accarezzare una simile contraddizione bisognava che l'artista avesse il genio della immortalità o la passione del vizio. — Chi sa se non avete ragione? — Mio Dio! mi fate rabbrividire colla vostra calma. Invece sorrideva. — Che cosa volete, contessa, non ho mai compreso bene il vizio e la virtù, ma ho sempre sentito intensamente la bellezza e la bruttezza, e ho conchiuso per farne i due poli della mia coscienza, l'ombra ed il sole della mia vita. Per me una signora è sempre virtuosa finchè è bella, e le sue passioni sono sempre legittime finchè animate dalla poesia e vestite dal lusso. Sono un pagano io, come Giorgio, dei tempi di Alcibiade e di Aspasia. D'altronde vi ringrazio della splendida frase — il genio della immoralità — ma sono desolato di non meritarla. Non ho sublimato a passione ciò, che altri chiamerà vizio, per renderlo più attraente, ma ho supposto ingenuamente che fosse una passione, e la ho dipinta. Il mio romanzo sarà certamente criticato, ricorderà a molte donne, dimentiche da un pezzo, di arrossire; scandalizzerà molte ragazze che l'avevano castamente sognato prima di leggerlo, mi creerà una riputazione orribilmente triste come un giorno di pioggia o il discorso di un professore per una distribuzione di premii, ma mi vi rassegnerò colla bonomia dello scettico, contento se qualche signora del vostro spirito e della vostra bellezza mi abbia compreso e gustato. Già ve lo dissi: scriverò per le signore sibaritiche. — Non ve ne sono più. — E voi? — Io, sono di Bologna. — Oh! esclamò: la risposta è profonda. Chinò il capo e risollevandolo prontamente le appressò lo sgabello tanto da afferrarle fanciullescamente uno dei cordoni, che le scendevano sul fianco: — Dove siamo adesso? — Il problema non è molto difficile, qui. — Qui in un gabinetto elegante, una signora voluttuosamente sdraiata sopra una poltrona di forma comodissima per sognare e ai suoi piedi un giovane, che per sognare non ha bisogno se non di fissarla un istante negli occhi turchini. Un magnifico candelabro di bronzo dorato illumina la scena. Ebbene, perchè non sogniamo? Sibari è ancora in piedi e noi siamo in uno dei suoi mille gabinetti. Se non abbiamo corone sul capo, i fiori ci olezzano nella fantasia e possiamo intrecciarcene. Non ho mai colto uno dei vostri fiori, ma debbono essere pure belli, se quelli che vi sorridono sulle labbra sono tanto voluttuosi. La signora si agitò a queste ultime parole e il giovane proseguì incalzando. — Sogniamo, contessa: è uno dei lussi più splendidi e meno costosi; mi vi abbandono spesso con passione. Guardate. Questo è un bel gabinetto e sarebbe una bella cornice per un quadro d'amore: la mia visita diviene un convegno, voi un'amante, io un artista innamorato che viene a sdraiarvisi ai piedi... scena di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La gioventù, il lusso, la passione, il mistero... nulla manca. — Proprio nulla? pensateci bene. Per esempio, precisando un po' più il sogno... supponete un po' di musica, un po' di cena. Il giovane balzò vivamente in piedi. — Contessa... — Favorite di suonare quel campanello. — Alice, ella si rivolse alla cameriera, che fu pronta a comparire: serviteci da cena. Il giovane meravigliato guardava la contessa con sguardo voluttuoso e diffidente: ma ella non vi badava osservando le due cameriere, che entravano, come nelle commedie, portando un tavolino brillantemente apparecchiato. Lo posero dinanzi al camino e si ritirarono colla muta prontezza di due schiave. La cena si componeva di un pasticcio, che esalava fumo ed odore, e di una beccaccia corazzata dei soliti crostini. Due bottiglie, una di Reno e l'altra di Sciampagna, fiancheggiavano una graziosa canestrina di fiori: i bicchieri e le posate erano d'oro. Si assisero. La pendola suonò le undici. Il pasticcio fu aperto e dalla crosta uscirono in folla cappelletti, che impedirono per alcuni minuti alle parole di uscire di bocca: ma il dialogo riprese assai meno poetico. Erano complimenti ed epigrammi, una collana alternata come di perle e di coralli: poi le perle si fecero mano mano più rare e i coralli salirono dal roseo delicato al roseo vivo, indi al rosso, il voluttuoso color del sangue e del vino. Si parlava di amore. I motti scoppiettavano come razzi, i sensi trasalivano: alcune occhiate passavano attraverso quei razzi e perdendosi si risolvevano in un sorriso. Il giovane mangiava con evidente soddisfazione, la contessa tratto tratto lo sbirciava. — Un inno allo sciampagna, gli disse prendendo ella stessa la bottiglia e sciogliendone le bende metalliche. — Allo sciampagna, che spuma colla passeggiera facilità, onde la donna ama e l'artista si esalta. La contessa si alzò ad empirgli il bicchiere. Egli lo votò, lo tese ancora. — L'inno? — Eccolo: Oh! m'empi il bicchiere E canto per te: Son povero, o donna, Di speme e di fè. Ma canto, e il mio inno È un raggio solar, Che come al moscino Mi basta a campar. Non credo, non spero. Ma godo talor... E godo col vino Col canto e l'amor... Le ultime parole furono pronunciate con vibrazione così energica, che contrastò singolarmente col senso spensierato del brindisi. — Bello! disse con ironico sorriso: ma è un inno per voi. Uomo! vi ripeterò colla marchesa di Monero. Egli non rispose. Seguitarono a cenare. La beccaccia fu disossata, i crostini scomparvero, il vino sparì e perfino la canestra dei fiori non si salvò. La contessa n'estrasse una camelia e mostrandogliela: — Perchè mai la camelia, che non ha odore, è tanto stimata? — Perchè somiglia alle donne volgarmente oneste; donna senza amore, fiore senza profumo. — Il trionfo della insensibilità sulla passione. — E voi per chi state? per il trionfatore in mezzo alla folla dei piccoli, o per il vinto, cui accompagna la simpatica ammirazione dei pochi grandi? La cena era finita: ella si alzò senza replicare, ma l'altro fe' altrettanto, e si trovarono appoggiati al caminetto fissandosi nello specchio. Il fuoco ardeva scoppiettando, il candelabro brillava, ma la tappezzeria bruna non ripercotendone la luce, il gabinetto rimaneva quasi buio e loro due in una zona di luce e di calore. Avevano i resti di una cena elegante a lato, un po' di mistero e forse anche di simpatia nello spirito, la poesia dello sciampagna nel cervello, il sentimento di una uguale superiorità aristocratica in cuore. Tutto animava e rendeva bella la scena. Tacevano, ma erano troppo vicini, perchè il silenzio, prolungandosi, non diventasse pericoloso. La donna se ne avvide e rivolse la faccia dallo specchio per riprendere il dialogo, senonchè nel medesimo tempo egli le pigliava una mano e considerandola col raccoglimento seduttore della fantasticaggine evitava il suo sguardo. Da tempi immemorabili e prima assai che Sterne, poi Balzac e mille altri dessero analisi e consigli, il prendersi per la mano a certi punti o il lasciarsela prendere fu considerato una gran cosa: più di una donna cadde perchè un uomo allora la sostenne con una mano, più di un uomo fu cangiato in bestia, perchè una donna lo toccò con una mano — e l'incontro di due mani come quello di due mari ebbe infinite diversità e conseguenze. Due dita che si stringono, ecco, direbbe un hegheliano, il primo momento dell'amore. E il secondo? La contessa non resistette, ma sulle labbra le passò un sorriso, che, osservato, avrebbe tolto di Banzole alla sua fantasticaggine. Non lo vide, seguitò a considerare la mano e la presse come il tasto d'un pianoforte; il tasto cedette. Di Banzole rialzò il capo: stettero sospesi. Bastava un tremito per destare la nota. La contessa strinse vigorosamente all'inglese la mano del giovine. — Che! proruppe come destandosi da un sogno. Ella ripetè la stretta. — Ma mi salutate?... avrei perduto? — No, avete vinto: il romanzo è stupendo. — Allora? — Vi siete vinto voi stesso vincendo la causa. E scoppiò a ridere. Il giovane abbassò la testa impallidendo. — Peggio di Mirabeau! — No: egli non salvò la monarchia, come se ne era vantato, mentre voi salvate l'artista se l'uomo è perduto. — E questa cena? — Come il colloquio di Antonietta con Mirabeau. — Ma potrebbe dirsi di voi ciò che si disse di Antonietta? — Mirabeau e la storia non vi crederebbero, come non vi hanno creduto. — La battaglia era perduta: bisognava salvare la ritirata. — Mirabeau lasciando Antonietta le chiese la mano da baciare. — Ebbene? Le passò vivamente un braccio alla cintura e se la strinse contro il petto. — Ah! — Mirabeau non faceva che promettere e io ho in parte mantenuto: mi occorre di più. Quindi giovandosi del modo, onde la teneva abbracciata, le diede un bacio sulla bocca. — Contessa... — Sempre buoni amici. — Sempre: _honny soit qui mal y pense._ FINE. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (desideri/desiderî, fruscio/fruscìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Al di là, by Alfredo Oriani *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 45698 ***