*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 45126 *** SCELTA DI =CURIOSITÀ LETTERARIE= INEDITE O RARE =DAL SECOLO XIII AL XVII.= =In Appendice alla Collezione di Opere inedite o rare.= Dispensa CXLVIII. PREZZO LIRE 5. =Di questa SCELTA usciranno dieci o dodici volumetti all'anno: la tiratura di essi verrà eseguita in numero non maggiore di esemplari 202: il prezzo sarà uniformato al num. dei fogli di ciascheduna dispensa, e alla quantità degli esemplari tirati: sesto, carta e caratteri, uguali al presente fascicolo.= =Gaetano Romagnoli.= LA SECONDA E TERZA GUERRA PUNICA TESTO DI LINGUA INEDITO TRATTO DA UN CODICE DELL'AMBROSIANA PER =ANTONIO CERUTI= Dottore della medesima BOLOGNA PRESSO GAETANO ROMAGNOLI 1875. Edizione di soli 202 esemplari ordinatamente numerati. N. 193 Regia Tipografia. AL NOBIL UOMO MARCHESE GEROLAMO D'ADDA ERUDITO BIBLIOGRAFO INTELLIGENTE CULTORE DEL BELLO IN SEGNO DI RIVERENTE ESTIMAZIONE ANTONIO CERUTI D. D. D. PREFAZIONE Un Codice dell'Ambrosiana diligentemente scritto nel mezzo del sec. XV, cartaceo in foglio, ed appartenente un tempo a Battista Cozzarelli, indi a Muciatto Cerretani, ambedue fiorentini, porta il titolo: «_La prima, seconda e terza guerra punica_ di Leonardo Aretino.» Consta esso di due parti distinte: la prima contiene la versione volgare, d'ignoto autore, dell'opera attribuita a Leonardo Bruni _De Bello Punico_, in cui narra le guerre de' Romani co' Cartaginesi[1]. Alcune edizioni di quest'opera recano in fronte il nome di Polibio come autore, come quelle di Brescia del 1498 e di Badio Ascensio fatta nel 1512 a Parigi, e quantunque l'Aretino dichiari nel suo Prologo di avere scritto la storia di quella guerra sulle tracce di Polibio e di altri scrittori greci e latini[2], tuttavia ei fece poco più che volgere in latino la storia dello scrittore megalopolitano, discepolo di Panezio, secondo il Suida. Secondo un Codice Mediceo Laurenziano[3], egli eseguì la sua versione verso il 1421, trovandovisi scritto in calce: «Leonardus Arretinus edidit Florentiae XVIII kalendas januarias MCCCCXXI,» come nota il Mehus nel Sillabo delle opere di quell'autore, del quale tessè la vita nel vol. I delle di lui lettere[4]. Più edizioni vennero fatte di quest'opera: il Fabrizio dice che la prima apparve nel 1498 a Brescia[5], ma è certo che ve n'ha una anteriore, cioè del 1490; altra è di Parigi del 1512 dell'Ascensio già menzionata[6], poi quella di Augsbourg nel 1537[7]. Anche la versione volgare di questa Storia, di cui pure esistono più codici mss. nelle Biblioteche, fu sovente stampata, ma ne è controverso l'autore e l'epoca in cui fu eseguita. Il Paitoni[8] l'attribuisce a Donato Acciaioli, ma sembra che questi non abbia volgarizzato dell'Aretino che la Storia Fiorentina; altri a Lodovico Domenichi, ma questi pure caddero in errore, poichè anzitutto egli visse nel sec. XVI, e il volgarizzamento fu lavoro anteriore d'un buon secolo; d'altronde sebbene il Domenichi nell'edizione di Venezia del 1545 per G. Giolito de' Ferrari, da lui dedicata al conte Clemente Pietra, nella dedica stessa asserisca d'aver compito pochi mesi innanzi la traduzione di Polibio, e sul frontispizio asserisca _nuova_[9] la versione da lui pubblicata delle Guerre Cartaginesi, pure il testo è affatto identico a quello stampato nel sec. XV. Gli antichi codici e le stampe attribuiscono la versione italiana chi, come quella del 1544, ad un amico, chi ad uno scolare di Leonardo, ma senza accennare mai ad alcuno scrittore speciale, ed è fuor d'ogni dubbio ch'essa è anteriore al 1449, data d'un codice Riccardiano. Checchè sia del volgarizzatore, del primo libro si ha una traduzione volgare stampata in Venezia per Bartolommeo d'Alessandria e Andrea de Asula compagni nel 1485[10] in f.º, unita alla storia di Tito Livio della medesima edizione. Il Prologo di Leonardo sopra lo stesso libro primo uscì di nuovo pochi anni dopo in Venezia ancor in seguito alla versione delle Deche dello storico padovano[11], ed ebbe in seguito molte ristampe nello spazio di pochi anni, specialmente in Venezia. Ora il Codice Ambrosiano sopra accennato contiene nella sua prima parte il volgarizzamento, come già dissi, della storia dell'Aretino o meglio di Polibio, col titolo di _Prima e seconda guerra punica_, e corrisponde esattamente tanto alla traduzione latina, quanto al volgarizzamento stampato; manca solo il titolo dell'opera, ommesso dall'amanuense, che tuttavia ne lasciava nel Codice lo spazio, e che pure leggesi nelle più antiche edizioni, forse perchè vi fosse scritto da qualche calligrafo e abbellito da ornato; si chiude esso colla frase: «Finito il Libro di messere Lionardo d'Arezzo, detto primo bello punicho. Deo gratias.» Dopo questa chiusa ha principio nel Codice stesso, come seconda parte[12], un racconto che è la continuazione della storia precedente, e s'intitola: «_Della seconda e terza guerra punica_.» Non appare ch'anch'essa sia una versione di istoriografo anteriore, che abbia scritto quella narrazione in altro idioma, bensì un lavoro originale di autore quattrocentista certamente toscano, rimastoci ignoto[13], non essendovi indizio alcuno del di lui nome; solo ci rimase quello del copista, Giacomo di Buccio di Ghinucci da Siena, che a sua volta non fa cenno del ms., da cui trasse la sua copia scritta nel 1454, nè fornisce alcuna notizia bibliografica in proposito; egli è però assai commendevole per la diligente accuratezza con cui eseguì il suo lavoro; solo i nomi di persone e di città sono sovente falsati e scorretti, colpa forse del ms. da lui copiato. Il testo, rimasto finora inedito, cred'io, ed ignoto agli storici della nostra letteratura[14], distinto in brevi capitoli, come viene fedelmente riprodotto in questa stampa, ritrae non poco qua e là di alcune forme del parlare senese, linguaggio del trascrittore, ma è mirabile per ischiettezza di frasi, purità di lingua, semplicità e vigore d'espressione, e per tutti que' pregi, che splendono negli aurei scritti dei primi secoli della lingua italiana; pel che mi lusingo d'aver fatto cosa non ingrata agli amatori di simili scritture nè inutile alle lettere nostre il rendere di pubblica ragione questo nuovo Racconto. Milano, nel dicembre 1874. A. C. NOTE: [1] Nell'edizione d'Augsbourg del 1537 ha per titolo: «De Bello Punico libri II, quorum prior bellum inter Romanos et Carthaginienses primum continet, hactenus apud Livium desideratum, alter seditionem militis conductitii et populorum Africae a Carthaginiensibus defectionem. Bellum item Illiricum et Gallicum, quae et ipsa apud Livium desiderantur.» [2] Parlando di quelli che scrissero sopra questa materia, dice: «La guerra Punica che fu tra i Cartaginesi e i Romani da molti de' nostri latini e da molti greci fu trattata e scritta; ma e primi e più antichi scrittori di quella furono dalla parte de' Romani Marco Fabio Pittore, e dalla parte de' Cartaginesi fu uno che ebbe nome Filino. Questi furono quasi in questo medesimo tempo che fu la guerra, e per affezione della patria sua ciascuno di loro tirato, benchè nelli eventi e fatti della guerra scrivessero il vero, nientedimeno nelle giustificazioni e nelle cagioni l'uno e l'altro sanza passione si truova avere scritto. Filino Cartaginese molti greci dottori e scrittori seguitavano, intra i quali fu quasi come principale Polibio Megalopolitano greco scrittore e di grande alturità, e Fabio Pictore ancora de' nostri latini andarono dietro, et massime Tito Livio patavino padre delle storie Romane, e libri del quale se fussero in piè, non sarebbe bisognio di prendare nuova fatiga; ma perchè questa parte dell'opere sue insieme con molte altre è perduta, noi a ciò che la fama di così gran fatti non perisse, da Polibio e da altri greci ricogliendo, abbiamo composto e di nuovo scritto questa guerra, ecc.» [3] Cod. XIV, Pl. LXV. L'Aretino nato nel 1369 morì 75 anni dappoi; il Poggio e Giannozzo Manetti gli dedicarono orazioni funebri. [4] Pag. LVI. Mittarelli, _Bibliot. di S. Michele_, p. 659. [5] Brixiae apud Iacobum Britannicum, 1498 in fol.; Parisiis apud Badium Ascensium, 1512; Augustae Vindelicorum apud Philippum Ulhardum, 1537 in 4. [6] Quell'edizione finisce con questa chiusa: «Polybii historici Megalopolitani liber tertius et ultimus finitur.» Il Negri nella _Storia de' Fiorentini Scrittori_, p. 352, dice anch'egli che Badio Ascensio nell'edizione parigina di quest'opera v'ha posto in fronte il nome di Polibio, persuaso con altri che l'Aretino non abbia fatto in essa altra fatica, che dal greco tradurre quello scrittore in latino, abbenchè egli prevenendo questa censura, nella sua Prefazione lo neghi. [7] _Biblioth. lat. mediae et inf. latinit._, T. 1 pag 293: «De Bello Punico lib. III prodierunt primo Brixiae anno 1498 sub hoc titulo: Polybius historicus de primo Bello Punico latino Leonardo Aretino interprete. [8] _Bibliot. degli Aut. Greci e Lat. volgarizz._, nel T. 34 della Collez. Calogerà, p. 267. [9] _La prima guerra di Cartaginesi con Romani di M. Lionardo Aretino nuovamente tradotta e stampata ecc._ Il Fabrizio (_Biblioth. Graeca_, T. IV, p. 331) nota le edizioni venete nel 1546 e 1564 dell'intera Storia di Polibio nella versione di Lodovico Domenichi, e alla pag. 329 nota la versione latina dell'Aretino dal greco di Polibio del libro _de Bello Punico_, della quale ricorda due Codd. mss. della Biblioteca di S. Michele di Venezia e nella Laurenziana. [10] Argelati, _Bibliot. de' Volgarizz._, T. I, p. 188. [11] Per Bartholomaeum de Zanis, 1490 et 1511 in f. Quella del 1493 conclude così: «Finite le Deche de Tito Livio padovano historiographo vulgare historiate con uno certo tractato de bello punico stampate nella inclita cittade de Venetia per Zovane Vercellese ad instancia del nobile Ser Luca Antonio Zonta fiorentino nell'anno M.CCCC.LXXXXIII, adì XI del mese di febbraio.» [12] Di questa l'Argelati (op. cit.), additando pure il Codice Ambrosiano, non fa alcun cenno, e probabilmente essa gli passò inosservata, credendola parte della precedente _prima e seconda guerra_. [13] Appare dalla sua narrazione ch'egli si giovò dell'autorità e degli scritti di Eutropio, a cui sovente si riferisce. Sarebbe egli mai lo stesso Leonardo, che compito da altri il volgarizzamento delle guerre precedenti, siasi accinto a continuare il racconto come suo lavoro originale? Ai dotti la sentenza. [14] Nelle Biblioteche di Firenze esistono molti Codici, taluni membranacei e pregevolissimi per calligrafia e per belle miniature, che contengono il testo, quale fu già impresso, delle guerre cartaginesi, recate in volgare, dicono essi, da un amico o da uno scolaro dell'Aretino; ma nessuno ha la presente continuazione. In alcuni di essi leggesi nel primo foglio questo distico: Tu che con questo libro ti trastulli, Guardal dalla lucerna e da' fanciulli. DELLA SECONDA E TERZA GUERRA PUNICA I. Erano le porti del tempio di Giano in Roma serrate dopo la malvagia e lunga guerra suta infra 'l popolo di Roma e quello di Cartagine, che ventiquattro anni era durata con molto grieve danno e perdita di ciascuna delle parti, e riposavansi in quieta pace li Romani; quando poco di tempo interposto, Amilcar imperadore di Cartagine con sua gente passato in Ispagna, cominciò e mosse nuova guerra, per la quale Anibale figliuolo d'Amilcar vi fu sconfitto e lui morto; e l'anno appresso li Ilciani ammazzaro li messaggi de' Romani, che andavano per lo trebuto; per la quale cosa lo tempio di Giano fu aperto, e fu mandato per vendicare l'ontia Fulvio Postumio consolo contra di loro, il quale fatta battaglia con loro, rimase vincitore, e tornò in Roma triunfando. Ed in questo si levò nuova guerra fra li Gallici e li Romani, della quale li Romani molto sbigottiro; ed assembrata oste quanto potero, vennero contra li Gallici, essendo consoli Emilio Lucio ed Attilio Livio, con ottocento migliaia d'uomini, ed a Trento trovati li Gallici, fecero battaglia molto crudele e mortale, nella quale fu morto Attilio lo consolo, e molto malmenati li Romani in due battaglie che fecero insieme. Alla fine li Romani furo vincitori e ottennero la vittoria, e tornati a Roma, fu Emilio da' Romani onorato. II. Un'altra battaglia fecero li Romani co' Gallici, nella quale Flamineo consolo fu mandato contra di loro, e dopo molta dura battaglia tornò vittorioso; per la quale cosa i Gallici turbati assembraro gente, e vennero contra li Romani novellamente con grande gente e molto bene guernita. Rincontra a quelli furono mandati due consoli, ciò furo Claudio Marcello e Cornello Scipio[15] e fatta battaglia con loro, tornaro a Roma vittoriosi. Altre battaglie fecero i Romani con quegli d'Osterich, delle quali furo vittoriosi. NOTE: [15] C. Flaminio Nepote fu console nell'a. 531 di Roma e 223 a. C., e Claudio Marcello nell'a. seguente con Gn. Cornelio Scipione Calvino; nel 223 infatti i Romani trionfarono dei Galli. III. In quello tempo medesimo avvenne che Aniballo, che sire e imperadore era di Cartagine, assembrò grande gente, tanta quanta più ne potè avere, per vendicare lo re Amilcar suo padre di coloro che l'avevano sconfitto e morto in Ispagna; e lo re Aniballo aveva bene udito ed inteso, ch'e Romani avevano malmenati quelli di Cartagine e tutti quelli d'Affrica, e tutti coloro che li erano stati in aiuto. Per questa crudeltà vendicare ragunò gente a maraviglia di tutto lo regno d'Affrica e di Grecia, e d'onde potè avere soccorso; da ogni parte ragunò gente per amore e per preghiere e per doni, però ch'egli era molto ricco, sì che aveva assai che donare, e per questo modo ragunò tanta gente lo re Aniballo, che mai dinanzi a Tebe o a Troia, che furo (così come voi avete udito dire) due de' più maravigliosi assedii che mai fussero, non ebbero tanta gente come Anibal assembrò a quella fiata per sua preghiera e per suo potere; e sappiate che tutta quella gente assembrò tutta sotto Cartagine lungo la marina. Anibal domandò consiglio a' re e a' baroni, cui elli potesse lassare in sua contrada per guardia del paese. Li nobili uomini tutti s'accordaro insieme che vi lassasse Margone suo fratello, che re e sire era di Poonia, e così fu fatto, e tantosto comandò che le navi fussero apparecchiate e cariche quelle che al porto erano, che bene sappiate che uno solo porto non bastava a tutto il naviglio. L'avereste veduto molto ricco avere portare nelle navi, e molti ricchi destrieri ed olifanti di strania fattura menare nelle navi, e di ciò che faceva mestiero a fare guerra, ed ogni e ciascuna cosa missero nelle navi. IV. Quando tutte le navi furono cariche di bestie e di vivande e di vino e d'acqua e d'armadure, e di ciò che faceva mestiero a portare in oste a sì ricco uomo, li re e duchi e prencipi entraro in loro navi, e li arditi cavalieri e sergenti, ch'erano più di cento milia, erano in altre navi. Là averebbe altri potuto vedere molte ricche navi di diverse fatture e molti ricchi arboli alti e dritti, ove l'antenne che portavano le vele della seta erano; là erano molte ricche galee e barche e molte ricche navi, ove li arditi cavalieri erano e li savi marinari per andare dinanzi al navilio, quando fusse mosso per prendare porto, quando bisognasse. Così come voi udite, entrò Anibal in mare e con lui Astrubal suo fratello e molti altri prencipi; e quando furo entrati in mare, li mastri marinari, che del mare sapevano la natura e l'usanza, comandarono che l'àncore fussero gittate nelle barche, che le navi seguitavano a pieno corso, e le vele fussero sviluppate in sulli arboli per tosto dilungarsi da terra; e sì tosto come le vele furono spiegate, uno vento ferì entro sì buono, che 'l mare ne gonfiò in più parti. E bene sappiate che molto fu maravigliosa cosa a vedere tante ricche vele partire da terra, ma molto fu più maravigliosa cosa, quando le navi ebbero tal vento, che corsero e passaro senza avere nulla tempesta, tanto che furo arrivati nel porto di Spagna, e allora ebbero molto gran gioia all'uscire delle navi, ed a trare fuore le grandi ricchezze. Allora quelli della contrada, quando li viddero a maravigliane, furo sbigottiti di sì grande popolo, che sopra loro era venuto, d'onde non si prendevano guardia in nulla maniera, che venire vi dovessero, e della gran paura ch'egli ebbero, tutti si ritrassero e fuggiro alle castella e fortezze e città per più sicuramente loro difendare contra loro nemici; e tosto fu la novella saputa e sparta la boce infino alli monti di Pitaneos, in Gaule ed in Italia e a' senatori e consoli in Roma; ma di tutto ciò non curò lo re Anibal, che suoi corridori fece corrare per mezzo la contrada per le prede raccogliare e prendare, e per combattare le fortezze, che molte ve n'erano, acciò che a sua gente non facessero noia e gravezza, e sì comandò a' suoi marinari che tornassero colle navi in Affrica per vivanda, acciò che l'oste non patisse bisogno di nulla cosa. V. Quando ciò fu fatto e divisato, e l'oste fu riposata otto dì interi in sulla marina verso Sibilla, lo re comandò e fece sua gente tutta muovare, e suoi stormenti tutti sonare. Allora si partì lo re Anibal con sua grande oste dal porto, e sì andò tanto, che venne dinanzi alla città di Serragoza, che allora era ricca e possente e bene fornita di buoni sergenti e di fina cavalleria, e sì era allora dell'amistà de' Romani e di loro aiuto. Quando quelli di Serragoza viddero che Anibal gl'incalciava sì duramente per loro distruggiare, ellino il fecero sapere a' senatori di Roma il più tosto che potero. Quando li senatori e li consoli intesero queste novelle, ellino fecero loro aito[16] ordinare tostamente per andare contra a Anibal; ma innanzi che quelli di Serragoza fussero assediati dentro a loro ricca città, fecero fare fossi e mura grosse e alte con torri di buone pietre. Ma poco valea a quelli della città l'uscire fuore a combattare contra lo re Anibal, chè poca aveano gente e cavallaria per tenere battaglia contra agli Affricani, o sofferire stormo, che contra loro venivano sì sforzati; ma non pertanto innanzi che si traessero addietro dentro a' primi steccati, fecero ellino molto bene e molte belle prodezze, siccome gente che non erano sbigottiti; ma nella fine quando videro che gli Affricani gl'incalciavano per sì gran forza, ellino si credettero ritrarre verso loro fortezza con meno perdita che non fecero, imperò che una gran gente di Poonia s'erano messi tra loro e la città in aguatio[17], e là fu sì grande battaglia forte e dura; quelli della città si difendevano maravigliosamente, ma tutti sarebbero stati morti e presi, s'e pedoni della città no gli avessero soccorsi con archi e con saette, per li quali li Pooni si trassero addietro; e quando quelli che scamparo, furo dentro alla città, ellino serraro le porti, e cavalieri montarono su per le mura per la città difendare. Allora assediò Anibal la città, la quale non prese sì tosto come volea, chè vi stette sette mesi tutti interi, come la storia conta, e' nella fine di sette mesi la prese per fame, che più non potevano durare. NOTE: [16] _Aito_ non evvi nei dizionarii. [17] _Aguatio_ e _aguaito_, _contiare_, _guatiare_, _ontia_, _ontioso_, ecc. son forme usate sovente dagli antichi. VI. Allora quando Anibal stava all'assedio di Serragoza con cento cinquanta migliaia d'uomini d'arme, siccome Eutropio racconta, vennero a lui messaggi da Roma, e sì li dissero da parte de' senatori e de' consoli, ch'elli lassasse Serragoza e sì se n'andasse, ma non ne volse fare nulla per cosa ch'elli dicessero, anzi minacciò li messaggi e villanamente li accomiatò. Li messaggi che tornarono a' senatori, dissero la risposta di Anibal e la villania ch'elli aveva detta. Allora ebbero li senatori e consoli consiglio, che mandassero a Cartaggine, siccome fecero, e mandaro a' Cartagginesi sopra alla pace, ch'ell'avevano promessa, che mandassero a Anibal loro re, che contra quelli di Serragoza, che loro amici erano, non combattessero nè non tenessero assedio dinanzi a loro città. Li Cartagginesi risposero alli messaggi di Roma, che già non se ne tramettarebbero, nè niente per li Romani farebbero, ma tornassero tosto addietro, altrimenti perdarebbero la vita. Con tali parole e con più altre villaneggiaro molto li messaggi de' Romani, e quali si partiro da loro il più tosto che potero, e contiaro bene a' senatori ed a' consoli ciò che l'era stato detto e fatto. Intanto fu Serragoza presa non per forza ma per fame, chè quelli della città avevano sì grande caro, che mangiaro tutte le bestie della città, e tutto ciò che potevano avere senza nulla dimoranza; ed appresso si tennero tanto, ch'egli erano tutti infiati innanzi che si volessero arrendare; ma nella fine non potero più sofferire, che si convenne che si arrendessero allo re Anibal. VII. Ahi! Dio, come la morte è dottata[18]! Quando ella è presso a uno dì altrui, altri per rispetto di quello dì darebbe tutto lo mondo se fusse suo, e ciò sanno e medici, che n'ânno auti di gran doni e di gran ricchezze e d'avere e d'onore; ma molto poco vale medicina o lattovare o niuno onguento, che altri possa fare per sanità avere; poi che la morte viene, non ci â neuno rimedio nè niente d'indugio. Signori ricchi, se fate bene, farete come savi ed acquistarete grande onore, chè ben sappiate che la morte vi spia e guatia forte, che sempre tiene la spada innuda per voi ferire; chi corpo e avere perde, nolli vale niente a rispetto dell'anima, quando ella è santificata e pura e netta e piena di tutte virtù, ed ella è prugata[19] della sozzura e viltà del peccato, il quale ci dilonga da Dio, tanta è la sua gravezza. NOTE: [18] _Temuta_; il Compagni, parlando di Firenze: «Ricca di proibiti guadagni, dottata e temuta per sua grandezza dalle vicine». VIII. Sì fatta gente debbono la morte dottare, che in questo mondo ânno il molto avere, e poco n'ânno dato per l'amore di Dio, che tanto ne l'â dato e prestato; e quando cotali si partano di questo secolo[20], sì sono molto duramente sbigottiti, sì che non sanno che si fare, e se potessero tornare a misericordia uno solo dì in loro ricchezze, ellino darebbero molto volentieri cento milia tanto più che non ânno, per avere l'amistà di nostro Signore Dio. Per lo ben fare ch'altri lassa in questo mondo, non si fa dottanza della morte, e così fecero molti e fanno, che grandi ricchezze ânno ed avevano aute. Similemente fecero coloro di Serragoza, che le grandi ricchezze avevano aute; quando sentirono la gran distretta della morte per la gran fame ch'egli avevano, ciascuno si pensò che meglio lo 'veniva la morte schifare e fuggire che morire, e sì non sapevano ove si dovessero andare morendo, e se vivessero anco, potrebbero avere onore per avventura, e per tali ragioni s'arrenderono; e bene sappiate che non è sì gran distretta come la fame, imperciò che si conviene o morire o arrendare, e perciò s'arrenderono, che non volsero morire. NOTE: [19] Per metatesi in luogo di _purgata_. [20] Il Barberino nel _Reggim._ ecc., P. VI: Vidi quel viso, che suol luce dare Colli suoi raggi per tutto il paese, Bagnato ed irrigato Di quelle lagrime che escan dagli occhi. Ver è che molte si partan dal vero. IX. Quando la città si fu arrenduta, Anibal fece prendare l'oro e l'argento, e drappi della seta e l'altre ricchezze, e poi vi fece mettare lo fuoco per tutta la città, e così fu distrutta Serragoza per Anibal re di Cartaggine; e questa fu la vendetta e lo cominciamento della distruzione che Anibal fece per lo re Amilcar suo padre, il quale era stato sconfitto, ond'elli odiava li Romani sopra tutte creature, e perciò si vendicò in questa maniera. Allora comandò Anibal, che molto era fiero e crudele, ad Astrubal suo fratello, che rimanesse in Ispagna per conquistare tutto lo reame tanto come si stendeva infino al mare, che molto era grande e maraviglioso, e quando elli avesse ciò fatto, elli disse che mettesse in sua signoria tutte l'isole del mare; poi venisse dopo lui per Gaule e per Italia tosto e prestamente, che sì voleva combattare colli Romani, ch'elli odiava mortalmente, e sì voleva avere la potestà e la signoria di Roma. E quando ciò fu divisato infra due frategli, Anibal venne con sua gente verso Italia, ed Astrubal rimase in Ispagna, ove prese molti forti castelli, e conquise molte fortezze innanzi che la mettesse sotto sua volontà. Di Astrubal vi lassarò ora stare, il quale rimase in Ispagna per acquistare lo reame, e non ne udirete parlare più al presente, ma innanzi che la fine venga, vi dirò che ne fu; ed ora al presente vi dirò di Anibal, che verso e monti di Meos prese sua via il più dritto che potè con sua grande oste, se ciò non fusse cosa ch'eglino uscissero del camino per ponare campo sopra fontane o sopra riviere, chè bene potete sapere senza dottanza, che sì grande gente, com'elli aveva assembrata, non poteva passare senza acqua, perciò ch'elli aveva grande gente appiè e a cavallo. X. E così andava Anibal, che tutto confondeva ciò che trovava dinanzi da lui, ed a gran pena passò li monti di Spagna per le strette vie che non erano battute nè usate, ma elli fece la via acconciare e dilargare con picconi di ferro e d'acciaio, acciò che sua gente che lo seguiva, passasse più sicuramente, se bisogno fusse d'essare assaliti. Quando lo re Anibal fu oltre passato e sua gente a gran pena, eglino andaro poi due mesi interi, e presero loro via il più tosto che potero verso lo Rodano; ma innanzi che vi giugnessero, assembrarono li Gallici da tutte parti, e quali combatterono con Anibal e con sua gente con ciò che poterono, ma e' nollo vensero niente nè sconfissero, chè troppo avea con lui grande gente e grande cavallaria, di che furono molto dolenti e molto ontiosi[21] che non ne vennero a fine, ma s'accordaro con lui. NOTE: [21] Anche _ointoso_ disse Bacciarone di messer Baccone: «Assai più è ointoso». XI. Non vi maravigliate niente, se tutte queste genti di quelle parti vennero contra Anibal, chè ben sappiate che Guascogna, Navarra e Anio, Ponto e Franca e tutta Borgogna infra monti, e la città Sainna la vecchia, erano tutte queste terre, ch'io v'ô qui dette, chiamate Gaule, e le genti Gallici di stranie nazioni nominate. In quello tempo Anibal se ne veniva verso i monti di Italia per passare. Allora erano consoli di Roma Cornellio Scipio e Publio Sempronio, che per lo comandamento de' senatori di Roma, che la terra avevano a guardare, si mossero questi due consoli, ch'io v'ô nomati, per andare contra loro nemici in qualunque luogo li sapessero, per essar lo' alla rincontra, acciò che non venissero tanto innanzi, che lo' facessero troppo danno, e per combattare con loro. Publio Sempronio andò con sua gente in Cicilia, la quale era allora molto buono paese e piena di tutti beni e guarnita di buone vivande; e Cornello Scipio dall'altra parte se n'andò verso e monti di Mongieu[22] con tutta sua gente per sapere e per intendare se Anibal si volesse trarre verso quella parte; e così si partiro quelli due consoli in due parti e tutta loro gente. Questo Scipio Cornello, del quale io vi parlo, non fu niente lo savio Scipio Cornellio, ma sì vi dico certamente che fu molto buono cavaliere e pro e ardito e pieno di grande prodezza, e perciò lo ricordo qui ora, acciò che voi non crediate che in Roma non fusse solo uno Scipio Cornellio, anzi ne furo due, siccome io vi contio, consoli di Roma, e quali sostennero assai pene e dolore per Roma mantenere dal tempo di Bruto fino al tempo di Iulio Cesare, che per lui solamente la signoria e la potestà di Roma fu molto dottata e temuta, e di ciò vi lassarò ora stare per seguire mia materia. E sì vi dirò di Anibal, che molto aveva impresa grande cosa a fare, e sappiate che tornava addietro con sua grande oste, ma innanzi assembrato li Gallici appiei li monti di Mongeu ne' gran diserti che allora v'erano, per difendare e per guardare l'entrata, sicchè per le valli non passassero niente; e sappiate che là sì combattè Anibal contra a' Gallici, e sì vi fu molto grande danno d'una parte e dall'altra, ma nella fine andò tanto la cosa, che s'accordaro e fecero pace, però che Anibal per conseglio de' savii uomini che là erano, lo conseglionno che s'accordasse con loro se volesse passare contra a' Romani, e così fece, sicchè in pace lassare passare lei e sua compagnia per li salvatichi diserti. Quando ciò fu fatto, sì avvenne che molta gran gente d'oltre lo Rodano e de' monti s'assembraro colla gente di Anibal, e sì li furo in aiuto di ciò che potero. NOTE: [22] Il Mongiove o Gran S. Bernardo. XII. A quello tempo non v'era mai passata nulla umana creatura. Lo re Anibal, che vidde le grandi montagne che si stendevano fino al cielo, molto dottò di passare, e sì domandò quelli della contrada, se vi si potesse trovare nulla via per nullo ingegnio ch'altri sapesse fare o dire. Eglino risposero che le montagne erano sì orribili e sì pericolose d'acqua e di nieve e di ghiaccio e d'altezza, che non v'avevano mai veduto passare nulla creatura che fusse nel mondo, se ciò non fusse o orsi o lioni e altre bestie salvatiche di diverse maniere. Quando Anibal udì così contiare a quelli della contrada, ne fu molto sbigottito, e tuttavolta diceva che voleva passare li monti. Allora fece assembrare tutti suoi maestri, ch'egli aveva nell'oste, come fabri e maestri di pietra e di legname, per conseglio avere come potesse passare le montagne; là furo divisati picconi e martelli per rompare e gran sassi e fare la via; e sì tosto come furo trovati, incominciaro a fare la via appiei la montagna con gran travaglio e con gran pena, e sì tosto come avevano rotto e sassi, sì vi gittavano suso sangue di bestie[23], acciò che la nieve non vi ghiacciasse suso, e tenessele calde contra la nieve e la freddura, che v'era grande ed aspra. NOTE: [23] T. Livio, lib. XII, narra che quel passaggio fu aperto aspergendo d'aceto la rupe infuocata, impiegandovi quattro giorni; racconto abbastanza inverosimile. XIII. Così come voi udite, fece lo re Anibal di Cartagine primamente tagliare li monti di Mongeu per fare la via con gran costo e con gran pena, e ciò possono sapere coloro che l'ânno veduto e che vi sono passati; e quando ciò ebbero fatto, Anibal passò oltre con tutta sua gente, e al sesto giorno giunse dall'altra parte al piano; e quando ebbero tanto aspettato che giunsero tutti, e tutti furono passati, cavalieri e pedoni e ogni bestiame, elli fece sua gente annoverare per sapere lo numaro di sua gente, e sì trovò ch'egli aveva con seco cento migliaia d'uomini appiei, e sessanta migliaia di cavalieri tutti armati; e sì dice Eutropio e contia ch'elli aveva cento olifanti senza e camelli ed altri animali, de' quali aveva sì grande abbondanzia, ch'appena se ne potrebbe fare il numaro. XIV. E tuttavolta crescevano e multipricavano le genti ad Anibal molto grandemente delle contrade che si ragunavano con loro. Allora cavalcò Cornello Scipio molto forte, e con lui suo figliuolo, che fu poi chiamato Scipio Affricano (e la ragione perchè vi contiarò innanzi che sia la fine di questo libro) con gran popolo di Roma per combattare contra Anibal, che per suo grande orgoglio voleva combattare la terra d'Italia, che ora è Lombardia chiamata. Quando furo tanto approssimati[24] l'osti d'una parte e d'altra, che non v'era altro che abbassare le lancie, ellino broccaro[25] li cavalli delli speroni, e sì si corsero a ferire sì duramente, che più di due milia cavalieri tra l'una parte e l'altra si gittarono a terra de' cavalli, de' quali vi furono molti feriti villanamente. E sappiate che ine si cominciò lo stormo fiero e mortale, che non si risparmiavano niente, anzi vi dico bene di verità che si faceano il peggio che poteano; lo padre non avarebbe riguardato lo figliuolo, e lo figliuolo lo padre. Li Romani credeano per forza sconfiggiare li Affricani per loro grande forza e per loro grande orgoglio, onde erano sì pieni, che non dottavano persona del mondo, ma nollo valse niente, chè troppo avevano gran gente e gran cavallaria quelli di Affrica; e là fu lo consolo Scipio ferito molto duramente, e sì fu abbattuto a terra, ed ucciso l'avarebbero, se non fusse Scipio suo figliuolo, che vigorosamente lo soccorse, d'onde sofferse molta gran pena; e sappiate che là furono morti de' Taliani e de' Romani tanti, che pochi ne camparono col consolo e col figliuolo, e quali si partirono dolenti e tristi; e in questa maniera ebbero dolore li Romani a quella prima fiata, per la sciagura ch'eglino ebbero contra Anibal, che di quella prima vittoria ebbe molto gran gioia. Allora ebbe Scipio Cornellio molto gran dolore quando fu ferito, e più per sua gente che morta era, la quale aveva di Roma menata; e per quella ontia vendicare assembrò gente, e richiese quanto potè il più tosto che potè, e ritornò contra lo re Anibal, il quale odiava dentro a suo cuore, perciò che tal dannaggio gli aveva fatto, come di sua gente uccidare e tagliare, e assembrare al fiume di Trema. Sappiate che la battaglia fu ine grande e pericolosa, ed allora furo ine li Romani sconfitti e tutti morti e messi a perdizione. Publio Semplonio lo consolo, ch'era in Cicilia, seppe ed intese che Scipio suo compagno aveva auto sì gran dannaggio di sua gente e di sua cavallaria. Allora si mosse con tutta la sua gente e con quanto aiuto elli potè avere con lui per venire centra Anibal, e per vendicare li Romani del gran dannaggio e della gran perdita ch'egli avevano fatta; e tanto andò Sempronio consolo con tutta sua oste, che venne ove li Romani erano stati sconfitti l'altra fiata, e là trovò ancora lo re Anibal e sua gente, che veniva incontra al consolo a battaglia; e sappiate che là furo fatte grandi prodezze per l'una parte e per l'altra per difendare loro corpi e loro vita e loro avere. In quella battaglia fu lo re Anibal ferito d'una saetta molto duramente, ma sappiate che non morì a quella fiata, anzi lo' vendè molto cara l'ira e lo corruccio ch'egli ebbe di sua piaga e del dolore e dell'angoscia ch'egli ebbe; fu elli sì ripreso di mal talento, che fece tanta di prodezza e d'ardimento, poi che fu ferito, che più di mille Romani ne perdero la vita. E sappiate che Publio Sempronio fu sconfitto in quello stormo, ch'era consolo e molto buono guerriere e valente cavaliere, e sì vi fu sì villanamente menato, ch'a pena ne scampò, e così ebbero li Romani gran perdita e gran dannaggio dallo re Anibal a quella fiata. NOTE: [24] Il Cavalcanti nella _Medicina del cuore_, 235: «Come s'appressima la salute, così s'appressima la tentazione». [25] _Punsero_; nel _Ciriffo Calvaneo_, 3: «Ed in un tratto poi il destrier brocca». XV. Anibal inforzò e crebbe molto contra li Romani per queste vittorie in tal modo, che la maggiore parte di quelli di Italia vennero a sua mercè per paura ch'egli avevano di lui e di sua gente, e sì si sottomissero a sua signoria, e lassaro li Romani con chinche eglino erano, e là soggiornò Anibal tutto verno, e quando venne la primavera, elli si misse in via per venire in Toscana. Ma sì tosto come venne al monte Apennino, venne una sì gran tempesta di nieve e di gragnuola mescolata insieme, e con ciò folgori sì aspre e sì maravigliose, che ciò era terribile cosa a vedere, per la quale cosa due mesi tutti interi non si potero mutare; anzi furo caricati li olifanti e camelli e cavagli e altre bestie e tutta l'oste di nieve e di freddura e di gragnuola in tal modo, che appena si potevano tenere in piei nè muovare, ed erano sì coperti di nieve l'armadure e le bestie, che non si cognoscevano di che pelo si fussero. E sappiate che lo re Anibal perdè molti de' suoi cavalieri e delle sue bestie per la gran freddura che non potevano sofferire, e di poco si fallì, che tutti li olifanti non perdero la vita. E quando Anibal vidde ciò, elli si partì il più tosto che potè della montagna; e sappiate che ciò non fu niente grande maraviglia, se si partiro d'onde eglino avevano auto tanta pena e travaglio, e per questa pistolenzia e per questa disavventura ricevette lo re Anibal molta grande perdita e molto grande dannaggio maggiore che none aveva fatto in tutta l'altra via. Allora se n'andò Scipio figliuolo dell'altro Scipio, ch'era stato sconfitto per lo re Anibal nelle terre di Spagna. XVI. Allora e in quello tempo avvenne a Roma uno maraviglioso segno e per tutta la contrada, sicchè i Romani ne furono sì sbigottiti, che non sapevano che si fare di loro medesimi, imperò che 'l sole scurossi a tutto e menovò sì che quello che se ne vedeva, non era quanto una stella delle più picciole, e quelli d'Arpos viddero nel cielo scudi veramente, per quello che lo' paresse, sì ordinati, come se dovessero combattare, e sì viddero venire a battaglia il sole e la luna l'uno contra l'altro, e l'uno percuotare l'altro, e quelli di Campagna viddero due lune insieme nel cielo, e in Sardegna viddero due scudi che gocciolavano sangue, e molti altri viddero cadere da cielo gocciole di sangue. XVII. Queste novelle ch'io v'ô qui dette, spaventaro molto li Romani, che credevano che ciò fusse segno della distruzione di Roma per lo re Anibal, che molto avea perduta della sua gente per la smisurata freddura, siccome voi avete udito; ma perciò non lassò niente Anibal, che elli assembrò tutta sua gente quanta ne potè avere e concogliare[26], e sì si posaro e presero agio e scaldaronsi, come coloro che grande bisogno n'avevano; e quando furo posati e invigoriti, ed ebbero passato quello grande disagio e quello grande dolore ch'eglino avevano auto dinanzi, lo re Anibal li fece muovare d'inde, e sì se n'andò in quella parte di Italia, ove Saramma[27] corre, il quale traboccava ed era uscito del suo letto per le gran piove del forte verno ch'era stato, e per le grandi nievi delle montagne, che giù erano discese. E sappiate che lo re Anibal si misse per queste vie, perciò che li senatori di Roma avevano mandato lo consolo Flammineo con molta buona cavallaria per combattare con lui, e sì era già tanto andato questo consolo, che s'era attendato sopra al lago Trasimeno con sua cavallaria. NOTE: [26] _Concogliare_ per _raccogliere_ non trovasi nei dizionarii. [27] Il Sarno? XVIII. Lo re Anibal, che molto era sottile e malizioso e savio di guerra, si misse per le campagne, ove l'acque erano state, ch'erano ristate e tornate addietro, ma innanzi che n'escisse, ricevette molto grande dannaggio di sua gente e di sue bestie, chè l'acque ch'escivano de' fiumi e de' paludi e delle valli grandi, li molestavano sì duramente, che non sapevano che si fare e dove andare o tornare. Allora là venne molto gran dannaggio e mala ventura, che si imbattero ne' paludi, che la riviera aveva ripieni, e sopra tutto ciò gli assalse la freddura, e perdeano spesso l'uno l'altro, che per la nebbia non si potevano vedere, e per ciò perde molta di sua gente lo re Anibal, e ciò non fu niente maraviglia, tanto dolore avevano e tanta mala ventura, ed elli medesimo appena scampò vivo in sur uno olifante, che gli era rimasto di tutti quegli ch'egli aveva menati con lui di lontane contrade. XIX. Sopra questo olifante era lo re Anibal, quando elli uscì fuore di questo palude e di queste gravose vie. Allora perdè lo re Anibal uno occhio, il quale di prima avea molto infermo, che per lo grande travaglio e per la grande freddura l'iscì fuore della testa; ma non di meno per tutte queste sciagure non lassò che non cavalcasse là ov'elli sapea che Flammineo lo consolo era con sua gente, la quale era in loro tende, e sì tosto com'elli s'appressimò, elli fece sonare suoi corni e sue trombette e sue genti armare e ordinare per schiere; e così fece Flammineo lo consolo, che molto avea con lui gran gente appiè e a cavallo. Questa battaglia cominciò sopra 'l lago di Trasimeno, e sappiate che tutto ciò fece fare lo re Anibal a pensato, per mettare più tosto li Romani in isconfitta e a perdizione. Là cominciò tra queste genti gran battaglia e orribile e maravigliosa e piena di grievi affanni e dolore. Lo re Anibal, che molto sapea d'ingegno e di malizia, fece sue schiere ritrare verso le tende, perciò che volea li Romani mettare verso il lago, sicchè non potessero in nulla maniera da nulla parte tornare a fortezza nè a sussidio veruno, se non si mettessero in forti poggi, ove fussero certi che perdarebbero la vita tosto, nè scampare non potrebbero in nulla maniera. Allora s'appressaro sì che delle lancie e delle spade si potevano ferire e danneggiare l'uno l'altro. XX. Allora vi dico che non lassaro per niente che non s'andassero a ferire l'uno l'altro e uccidare senza nissuno risparmio; là volavano dardi e saette, che l'uni e l'altri traevano sì spessamente più che la piova che cade da cielo; e bene sappiate che là lo' fece molto bene lo consolo Flammineo e li altri Romani che là erano, che difendevano loro e loro terre valentemente, ma poco lo' valse alla fine, chè vi fu morto lo consolo Flammineo, buono cavaliere e savio e pieno di gran prodezza e di grande ardimento. E bene sappiate che poi che fu morto, si difendero sì duramente li Romani come ardita gente e forte, sì che tolsero la vita a più di mille di quelli dello re Anibal. Là fu la battaglia sì orribile e sì grande, che le storie raccontiano, che quella contrada in quello tempo tremò sì forte, che molte case e difizii caddero per terra, e più montagne avallare giuso; e sappiate ch'e fiumi lassaro loro corso e tornarono addietro tanto quanto lo tremuoto bastò, ma di tutto ciò non sentivano niente coloro che combattevano, tanto attendevano l'uno l'altro a uccidare; e là furo tutti sconfitti li Romani, senza che, siccome io v'ô detto, lo consolo Flammineo, che tanto era pro' e ardito e pieno di grande virtù, vi fu morto, e con lui vinticinque migliaia di sua gente, e se' miglia presi, e quagli non perdero allora la vita, anzi li fece lo re Anibal mettare in prigioni, e mandonne in Cartaggine tutto l'avere e la gran preda, ch'avevano guadagnata della battaglia. XXI. Così fu lo consolo Flammineo morto e sua gente altresì tutta vinta, ma li Romani che gran dolore facevano, mandarono lo consolo Fabio Manlio incontra lo re Anibal, sì che poco lo' valse, fuor ch'elli stroppiò allo re Anibal l'andare di Puglia, lo quale paese li Romani avevano pressochè tutto preso, come gente piena di forza e d'ardimento, ed Anibal li volea rimettare nella signoria di Cartaggine, la quale cosa molto desiderava. Ma sappiate che nella fine fu Fabio Manlio sconfitto, e sua gente venta e messa a destruzione. Allora se n'andò Anibal in Puglia per la contrada prendare e mettare in sua signoria, e tanto cavalcò che vi giunse. Ine avea molte terre piene di molti beni, siccome appare ancora, e sappiate che là fu molto lo re Anibal ad agio e tutta sua gente, e molto erano lieti per le grandi strette che avevano aute. XXII. Allora avvenne nell'anno DXLI, che Roma era stata primamente fondata, ch'e senatori e consoli e tutti li altri uomini di Roma erano tutti sbigottiti delle gran perdite e de' grandi dolori, ch'egli avevano riceuti, e dello re Anibal, che sì l'incalciava e sì li distruggeva per sua buona cavallaria, ch'elli aveva menata con lui, la quale e Romani dottavano molto duramente. Allora s'assembrare li savi uomini e possenti di Roma, per conseglio prendare e domandare che potessero fare sopra lo re Anibal, il quale non intendeva se none a prendare e distruggiare Roma, e per queste cose vendicare fu eletto Emilio Publio; e bene sappiate che questo consolo era molto buono cavaliere e valente e ardito, e sì era nato di grande lignaggio. Costui fu mandato contra lo re Anibal, che molto aveva fatto grande danno a' Romani, e perciò andò questo consolo contra lui con grande gente per lui sconfiggiare se potesse; ogiomai appresso costui non averebbero conforto nè speranza di lui vinciare, che tanti ve n'avevano mandati, che poco era rilevato, che ciò era maraviglia, e perciò erano li Romani sbigottiti e smagati. XXIII. Allora e in quella battaglia andaro li senatori e consoli e li alti uomini di Roma, ch'erano chiamati pretori, e molta gente appiè e a cavallo in sì gran quantità, che ciò era una maraviglia; e sappiate certamente che questa fu la più gran parte della forza di Roma. Così come voi udite, si mossero li Romani con grande apparecchio e con molta grande forza per andare contra lo re Anibal, che molto era altresì bene apparecchiato dall'altra parte con sì gran gente appiè e a cavallo, che ciò era una maraviglia. Emilio, a cui li Romani erano ubidienti, cavalcò tanto per sue giornate elli e Romani appiè e a cavallo, che vennero in Puglia e albergano dinanzi alla città di Cannes presso d'una foresta in una bella prataria sopra una riviera, che corriva verso il mare bella e chiara, e là si riposaro li Romani, perciò che viddero il luogo bello e chiaro e netto, e la prataria grande e bella, e loro cavalli si riposaro altresì, e sì apparecchiaro loro armi, e ciò che apparecchiare si debba a battaglia. E sappiate ch'e Romani erano sicuri d'avere una grande battaglia, imperò che lo re Anibal l'era assai presso, il quale non finò e non cessò di venire contra loro con tutta sua gente; e sappiate che sì tosto come li Romani e li Affricani si viddero, elli si armaro tantosto sanza indugiare, ed assembraro allora per tale forza, che pareva certamente che 'l cielo s'inabissasse sotto loro piei; e sappiate che là non aveva mestiere nullo giuoco nè nulla gabbarìa, chè non v'era sì ardito che non fusse in gran dottanza e in gran paura di non per dare la vita. E bene sappiate che cuore codardo non v'aveva mestiere, che vedevano bene che lo' conveniva passare per mezzo de' ferri, chè la cosa era così divisata per l'una parte e per l'altra, imperò che diliberato avieno l'una parte e l'altra o d'essare tutti morti o presi, od egli averebbero sopra di loro nemici la vittoria; e quando le schiere furono tutte venute insieme, bene potete certamente credare, che molti vi cadevano, che poi non si rilevavano, imperò che morivano. Là furo teste e braccia tagliate, e sì v'ebbe assai cavalieri pro' e arditi feriti, che non ne scamparo di quello dì; onde fu molto grande dannaggio e molta grande tribulazione; e sappiate che mai dinanzi a Troia non fu sì grande battaglia nè sì crudele, come fu quella. XXIV. Della battaglia che fu in Puglia collo re Anibal, la quale io vi conto, vi dico io ch'ella non fu tosto finita, imperò ch'e Romani volevano prima morire ch'essare venti o cacciati del campo, e le genti dello re Anibal, che molto erano usati d'avere vittoria sopra loro nemici, non volevano perdare uno piè di loro terreno per paura di loro nemici; e per questo grande orgoglio, ch'era nell'una parte e nell'altra, e per lo grande ardimento che avevano, che mostravano che avessero maggiore voglia di morire che di vivare, e così durò la battaglia tre dì interi, e sì vi furo morti vinti miglia uomini o più, che non vi sarebbero morti, se la battaglia fusse per alcuna delle parti lassata. Ma sappiate che ciò non poteva essare, anzi incresceva molto a tali che v'aveva, che la notte veniva sì tosto, che li faceva dipartire e ritrarre addietro, e tali v'aveva che disideravano la morte, per ciò che lassi erano e duramente difendevano loro riposo; e sappiate ch'ello durava poco, come infine alla mattina e all'ora erano montati li buoni cavalieri a cavallo e armati, e li buoni pedoni apparecchiati, che loro schiere ordinavano per assembrare alle mortali battaglie. XXV. Infra la gente dello re Anibal e li Romani che là erano, era la battaglia sì intrapresa, che tutti erano alla battaglia per avere vittoria tale, come ciascuno aspettava d'avere; e sappiate che di quella battaglia avvenne peggio a' Romani che mai avvenisse in nulla battaglia, e sappiate bene che gran dolore e gran gravezza averebbe altri di contiare e di dire sì fatta perdita, come e Romani fecero, se fussero stati Cristiani, ed avessero adorato il nostro Signore Iddio, imperò che in questa battaglia che io v'ô detta, vi fu morto lo consolo Emilio e vinti altri tra consoli e pretori di Roma, e quali menavano e conducevano Roma, e anco vi furo morti trenta senatori, onde la città di Roma fu duramente sconsigliata, e fuvi morti bene cento dieci altri uomini nobili e di grande lignaggio, e tre milia cavalieri e bene quaranta migliaia di pedoni tutti provati e pieni d'ardimento e di gran prodezza[28]; e sappiate bene certamente, che innanzi che quelli che io v'ô detti, morissero o fussero presi, n'uccisero molti di loro nemici e molto duramente li menovaro, e allora fu la forza dello re Anibal molto menovata. Uno consolo che aveva nome Varro, si fuggì con cinquanta cavalieri verso Morinde, quando vidde che tutta sua cavallaria fu venta e morta, e di ciò non siate in dottanza, che quello dì non fu l'ultimo della battaglia, chè sappiate che se lo re Anibal n'avesse auto o uno o due più, l'onore e la podestà di Roma era al tutto perduta senza potere ricoverare; e sappiate che se lo re Anibal, ch'era molto buono cavaliere e pro', fusse andato dritto a Roma quando ebbe la battaglia venta, l'arebbe presa senza contradizione nissuna; ma elli non fece niente così, perciò che non se ne accorse, e altri non può essere d'ogni cosa appensato, ma sappiate che lui fece ine dimoro molto gran prezzo e molto longo tempo. Poi fece un'altra cosa, che fece tutto il campo cercare per sua gente cognosciare da' Romani, imperò che li voleva fare sotterrare e onorare secondo l'usanza del paese; e quando ebbe ciò fatto, elli fece prendare tutti li corpi de' suoi uomini ch'erano morti, e sì li fece ardare e mettare in cenare, chè cotale era il costume del paese a quel tempo. E quando tutto ciò fu fatto, lo re Anibal fece trarre tutte l'anella del dito a' Romani, e sappiate che quelli che portavano anello in dito, erano e più alti uomini di Roma, e quali uomini erano stati morti nella battaglia; e sì li fece tutti ragunare insieme, e poi li fece misurare con dritta misura, e mandonne in Cartaggine tre mine e più in testimonio della gran vittoria ch'avevano auta contra a' Romani, e in tale maniera vi furo portati per buoni messaggi che Anibal vi mandò; e quando quelli di Cartaggine viddero queste cose e questo bel presento[29], ne furo sì lieti e sì gioiosi, che ciò fu maraviglia, imperò che non potevano credare di potere avere vittoria contra sì forte gente, come erano li Romani. NOTE: [28] Eutropio dice che in quel combattimento «periit Æmilius Paulus consul, consulares et praetorii XX, senatores capti aut occisi XXX, nobiliores viri CCC, militum XL millia, equitum tria millia et quingenti.» [29] Il Boccaccio nelle _Rime_: E allora ch'Annibal ebbe 'l presento Del capo del fratel. XXVI. Ora sappiate ch'e Romani ch'erano a Roma a quel tempo, caddero allora in sì grande disperazione, che nullo il potrebbe dire, perciò ch'egli erano così sconfitti e vinti da Anibal, e furo in sì gran confusione, ch'e senatori ebbero gran volontà di lassare la città di Roma e tutta la terra di Italia, e d'andare a trovare altre terre e altre contrade stranie, ove potessero abitare più comodamente, imperò ch'egli erano in sì gran sospezione, che credevano tutti essere morti e distrutti in picciolo tempo, e none aspettavano aiuto nè soccorso da persona del mondo. Queste cose e parlamento disse primamente Cecilio Metello, uno de' maggiori consoli di Roma, e così tutti li altri l'avarebbero volentieri fatto e consentito, e sì avarebbero la città tutta vota, se non fusse uno savio uomo che là era, che aveva nome Cornellio Scipio, ed era allora conestabile della cavallaria, il quale fu poi chiamato Scipio Affricano. Costui trasse la spada fuore tutta innuda dinanzi a coloro ch'erano al conseglio, e disse una parola di molta fierezza e di gran prodezza, che disse che innanzi che lassasse la città di Roma, elli tutto solo combattarebbe con tutti suoi nemici e la difendarebbe da tutti, malgrado dello re Anibal e de' suoi, nè ellino non fussero sì arditi che lassassero la signoria di Roma, ma fussero tutti prod'uomini e leali; e sì difendarebbero molto bene a loro podere loro paese e loro contrada, e non facessero sì che di loro andasse mala fama in altrui paese, che troppo grande ontia e troppo grande malvagità sarebbe, ma fussero di buono cuore tanto come vivessero, e sì guardassero bene loro onore e loro franchigia e loro drittura, chè ciò dovevano bene fare; e tutti li valenti uomini e quelli che savi erano, non dovevano niente tanto dottare la morte, che n'avessero ontia e disonore, imperò che non avevano a morire più ch'una volta, e meglio lo' veniva di morire a onore che di vivare in viltà. Per queste parole e per più altre che Scipio disse, e per lo grande tremore di lui tornaro li Romani in buona speranza, e furo tutti rassicurati come coloro ch'erano tutti sbigottiti, e poi presero cuore e ardimento per le parole dì Scipio. XXVII. Allora e in quello tempo ch'e Romani erano sì intrapresi, li principi e tutti li maggiori della città furono insieme; infra loro era uno giovano uomo, che Junio era chiamato, il quale era molto alto uomo e pro e ardito e di molto grande scienza. Questo Junio ragunò tanti giovani insieme d'età di diciesette anni e di meno, infra li quali non era nissuno che passasse diciesette anni per quello ch'altri sapesse, e di questi giovani ne ragunò tanti quanti ne potè avere, e quando gli ebbe, tutti ragunati, egli gli fece tutti cavalieri per lo bisogno che allora era in Roma; e quando ebbe ciò fatto, elli fece contiare tutta sua gente e cavalleria, e si trovarono quattro legioni tutti armati. Erano ciascuna legione sei milia sei cento sessantasei cavalieri, siccome io v'ô detto altra fiata; tanti cavalieri erano allora a Roma di rimanente, e sì erano tutti giovanotti, che none dovevano essere cavalieri da inde a buon tempo. Allora pensò Junio un'altra cosa, che tutti e servi ch'erano grossi e membruti e di bella forma, fussero franchi e tutti cavalieri, e così fu fatto, come elli divisò. XXVIII. Allora era Roma in grande stretta, quando lo' conveniva fare cavalieri de' servi e de' giovani per loro difendare, e molti ve ne furo, a cui falliro e l'armi per armarsi nel tempio di Jano, che tutto ne soleva essare pieno; ma allora lo' convenne andare agli altri tempii per lo bisogno, per gli scudi e per l'arme, che gli alti uomini v'avevano messe per loro Iddii onorare, in cui avevano fidanza, e col mancamento dell'arme, che nella città era sì grande, fallivano l'altre ricchezze e l'avere, del quale solevano tanto avere in comune, che tutto loro bisogno ne facevano; ma ora erano tutte spese e andate a niente, onde era molto grande dannaggio, che tutto era speso per le crudeli battaglie ch'eglino avevano auto; ma allora ragunaro insieme tutto l'avere che avevano e ricchi uomini e povari, per difendare la città da' loro nemici. Junio, che di tutta la città aveva la cura e la signoria per lo senno e per la bontà che in lui era, comandò per accresciare sua forza e suo aiuto, che tutti li sbanditi della città o contado, per qualunche cosa si fusse, tornassero sicuramente in Roma, sapendo che tutti sarebbero fatti cavalieri dal comune di Roma. Quando queste novelle furono sparte per lo paese, e coloro ch'erano sbanditi l'udirò dire, ellino si ragunaro insieme e vennero tutti a Roma, che furono bene otto milia, e furono fatti cavalieri per la città difendare e guardare. XXIX. Intanto tutta Campagnia e tutta Italia si rendè allo re Anibal, imperò che disperati erano ch'e Romani mai potessero avere onore o signoria, e rendersegli città e castella e ville, e sottomissersi alla sua signoria del tutto, e anco in quello tempo li Gallici assembrarono gente per andare contra a' Romani. Contra a costoro fu mandato Lucio Ponponio, che consolo era allora, ma male ne li avvenne allora, perciò che lui e sua gente furono sconfitti e morti, e pochi ne tornarono addietro. Così avvenia allora a' Romani e cresceva loro male di dì in dì, e sì erano sbigottiti, che non sapevano che si fare; ed allora erano consoli di Roma Sempronio Gaio e Quinto Fabio[30]. Per lo conseglio di costoro fu mandato Marcello contra lo re Anibal, chè tutto lo regno di Puglia e di Calavria e di Italia e di Campagnia ubbidivano a lui, e facevano sue comandamenta. Questo Marcello Claudio ch'era consolo, andò tanto lui e sua gente, ch'elli assalse lo re Anibal e sua oste a uno stretto d'una riviera, dov'elli doveva passare l'altro dì, ed ine l'assalse Marcello, e da più parti fece gridare _Roma_ e sonare trombe e corni, d'ond'elli sbigottì molto lui e sua gente duramente per lo grande romore e per lo grande grido; e sappiate che là fu gran parte della gente dello re Anibal sconfitta e distrutta, imperò che di niuna persona dubitavano, nè di questo incontro non prendevano guardia; e sì tosto come lo consolo si potè partire, elli si trasse addietro col grande guadagno ch'elli aveva fatto, e lo re Anibal, che passati avevano l'acqua, s'attendaro dolenti e corrucciosi di questa sconfitta; e queste novelle furo tosto sapute a Roma, d'onde gran gioia fu fatta, chè non potevano credare che nullo potesse danneggiare lo re Anibal; ma Claudio Marcello lo danneggiò molto duramente e gravò. Ma infra li mali, grandi avventure e grandi pericoli, ove li Romani erano, fu Claudio Marcello lo primo che lo' donasse speranza di potere lo re Anibal sormontare e vinciare. NOTE: [30] Sembra che fossero allora (anno 538 circa di Roma) consoli Quinto Fabio Massimo e Tito Sempronio Gracco II. L'amanuense nel trascrivere i nomi incespica quasi sempre. XXX. Allora mandò lo re Filippo di Macedonia suoi messaggi allo re Anibal, e sì li mandò a dire ch'elli mandarebbe aiuto di buoni cavalieri e d'altra gente incontro a' Romani per tale condizione, che quando elli avesse Roma distrutta, che lui l'aitarebbe contra i Greci, che molto il guerreggiavano. Li messaggi di Macedonia cavalcaro tanto per loro giornate, che per avventura incontraro li Romani per la via, e allora furono presi e menati a Roma, e sì li menaro dinanzi a' senatori ed a' consoli per sapere e domandare la verità del fatto di ciò che cercavano collo re Anibal, e che novelle e' portavano, e sì tosto come li messaggi furono dinanzi a' senatori, sì lo' convenne dire, volessero o no, tutta la certezza del fatto; e sì tosto come li senatori e consoli ne seppero la verità, ellino mandarono in Macedonia Valerio Nimio[31] consolo per combattere co' Macedoni, sì che fussero ingombrati in tale maniera, che allo re Anibal non potessero dare aiuto nè soccorso. NOTE: [31] Valerio Levino (an. 541 di Roma.) XXXI. In quello tempo li senatori e popolo di Roma elessero li due Scipioni, che andassero in Ispagna contra Astrubal fratello dello re Anibal, che là era. Questi due Scipioni andaro tanto, che condussero loro genti in Ispagna contro allo re Astrubal, che là era rimaso, per acquistare lo reame. Là furo molto grandi battaglie infra li Romani e li Poonii, de' quali Astrubal era signore; e sappiate ch'e Romani fecero molto bene in quella battaglia, ch'ellino sconfissero lo re Astrubal e tutta sua gente, de' quali fecero molto grande dannaggio e molta grande perdizione, che sì come Eutropio conta e Orosio lo testimonia, ch'egli uccisero e presero bene vinticinque milia d'uomini; e sì lo danneggiaro ancora in altra maniera, ch'io vi dirò, ch'e Cartaginesi avevano soldati li Tiberieni, una gente molto ardita e molto cavallerosa[32]. Costoro soldaro li Romani e tolserli a' loro nemici; ma quelli di Cartagine mandarono ad Astrubal dodici milia di pedoni e quattro milia cavalieri, e sì li mandaro venti olifanti per accresciare sua forza, e ancora mandaro molta di loro gente nell'isola di Sardegna. Contra costoro mandaro li Romani Manlio Torquato consolo per combattare contra a loro, imperò ch'e Romani avevano lassati per lo re Anibal, a cui s'erano dati. NOTE: [32] _Cavalleresca_; è voce nuova ai dizionarii; forse dinota anche dovizia di cavalleria. XXXII. Così come voi avete udito, erano li Romani caricati in quattro parti di gravi e crudeli battaglie: l'una contra lo re Anibal in Italia, che troppo l'era presso, l'altra in Macedonia contra lo re Filippo, l'altra in Ispagna contra Astrubal, la quarta in nella terra di Sardegna; e bene sappiate che tutte queste genti, che in queste quattro parti erano, se fossero tutte insieme contra lo re Anibal, si credarebbero avere poca gente per loro soccorrare ed aitare, e ciò era grande maraviglia come potevano tanto durare; ma sappiate che troppo andò la cosa peggio che non credevano, che Manlio Torquato, che fu mandato in Sardegna, sconfisse li Cartagginesi, ed uccise di loro genti dodici migliaia d'uomini, e sì ne prese bene due milia, e mandolli a Roma colla preda e collo acquisto ch'egli aveva fatto, e così vinse lo consolo Junio li Macedoni, ch'erano molto forte gente e molto ardita, e sì conquistò molta preda e molto avere; e Claudio Marcello, che molto era nobile cavaliere e pro, sì prese a molta gran pena la città di Serragozza e la terra di Sicilia, che molto era diviziosa terra e piena di tutti beni, la quale aveva per altre volte assediata, ed alla prima fiata che l'assediò, nolla potè prendare in nulla maniera, nè per ingegno che sapesse fare o pensare, sì vigorosamente la difendeva Archimede, ch'era cittadino della città, che per suo senno e per sua forza distruggea tutti l'ingegni, ch'e Romani facevano per la città prendare. Ma altri non die sua matera tralassare se non il meno che può; perciò vi dirò dello re Anibal, per seguitare la storia che io v'ô cominciata, e sappiate che mai in vita vostra non udirete parlare di più vera storia, nè ove abbia meno falsità e bugie; e per meglio dire la verità, ve la contio senza nulla rima, onde è più da credare e da pregiare. XXXIII. Il decimo anno che lo re Anibal era venuto in Italia, allora erano consoli di Roma Gaio Fulvio e Pubblio Supplizio[33], grandi signori e molto valenti, e bene sappiate ch'e' dottavano poco lo re Anibal e tutto suo potere; ed in quello tempo mosse lo re Anibal tutta sua oste di Campagnia, ov'elli avea molto soggiornato, e venne presso a Roma ad una lega e mezzo, e là s'attendò con tutta sua gente, che molto era grande e bella, e alloggioro in sulla riviera del Tevare, e allora corsero li scorridori infino alla città, ove le genti erano molto spaventate, che alla fine credevano essere tutti morti o presi. Li senatori e li alti baroni di Roma e tutto l'altro popolo, che là entro erano, stavano in molta gran sospezione della città guardare e difendare, e di procacciare dardi e saette e altre armi difendevoli; e spezialmente l'alte donne di Roma erano duramente spaventate e sbigottite, che per la gran paura ch'aveano, parea che fussero fuore di loro sentimento; ed appresso sì corrivano suso per le mura e per le bertesche di Roma, ch'erano cariche di pietre e di lancie e di balestre, d'onde primamente volevano difendare la città, s'ella fusse assalita. NOTE: [33] Caio Fulvio Centumalo e Publio Galba Massimo. XXXIV. Mentre ch'e Romani erano sì duramente sbigottiti, lo re Anibal fece tutta sua gente armare e sua cavallaria, e sì cavalcò primamente nella fronte dinanzi Anibal con molta gran parte di sua eletta cavallaria, e non finò per infine tanto che venne presso alla città orgogliosamente e fieramente, imperò ch'elli credette avere senza indugio la città, e non credette niente che si potessero longamente tenere contra a lui; ma quando giunse là, e vidde che le porti non gli erano aperte, e vidde che coloro delle mura li gittavano pietre e dardi e saette, sappiate che n'ebbe grande ira, e perciò fece sua gente ordinare e schierare a battaglia, ed appresso fece fare ingegni per le mura assalire; ma quando li senatori e li alti uomini viddero ciò, ellino parlarono insieme, e dissero che meglio lo' venia d'uscire della città e combattare collo re Anibal, che stare dentro alla difesa della città, e meglio lo' venia di morire ad onore in difensione di loro paese e di loro contrada, che essare presi per forza dentro alle mura e menati in servaggio. XXXV. Sì tosto come ciò fu divisato e detto, ellino assembrarono allora tutta loro gente e loro forza e loro potere, e tutti coloro che arme potevano portare, furo tutti ragunati in Campidoglio, ed allora furo pregati che arditamente e vigorosamente combattessero, siccome per loro difendare e loro donne e loro figliuogli, ch'e loro nemici desideravano di menare in loro contrada per fare loro volontà. A queste parole furo le schiere ordinate, e le nobili donne e le pulzelle saliro su per le mura della città, tutte spogliate di loro migliori robbe, per la città difendare, se loro gente fusse sconfitta. Intanto furo li Romani usciti della città, e nullo pensiero avevano, se non o essare tutti morti o tutti presi innanzi che tornare per forza dentro alla città. Quando lo re Anibal vidde che li Romani erano usciti tutti fuore di Roma contra di lui nella campagna, e tutti ordinare e apparecchiare per combattare, elli si pensò bene ch'ellino non volevano tornare addietro, che loro si vendicarebbero del duolo e del dannaggio ch'elli l'aveva fatto; e perciò comandò che sue genti fussero bene ordinate e schierate per combattare, e pensò che se potesse tanto fare, che si mettesse tra loro e la città, giammai uno solo non avarebbe potere di ritornarvi nella città; e tantosto furo d'una parte e dell'altra le schiere ordinate assai tostamente, ma sì tosto come quelli da cavallo si volevano muovare per combattare, e quelli da piei s'erano già tanto appressimati, che già gli archi tiravano per trarre l'uno all'altro; e intanto venne una sì gran piova ed uno sì gran vento mescolato con gragniuola, e dè lo' adosso per sì fatto modo, che mai sì grande piova e grandine non avevano veduta, e ciò fu una delle maggiori maraviglie, che altri udisse mai parlare. XXXVI. Quella piova fu sì grande, che appena potevano vedere l'uno l'altro, e non si potevano cognosciare l'uno l'altro, e non si potevano tenere ritti, nè tenere suo scudo nè sue armi, sì duramente l'oppressava la piova, che li mollava[34] troppo forte. Per questa avventura tutti li cavalieri ch'erano armati, e tutti e pedoni e cavalli poco si falliva che non venivano meno del tutto, e sì non sapevano partire loro schiere, che assembrare dovevano; e medesimamente quelli della città appena tornarono dentro, e quelli del campo tornarono a' loro padiglioni, e così rimase la battaglia il dì per la piova che fu così smisurata; ma la mattina sì tosto come apparve il giorno, e 'l sole rendea suoi raggi sopra la terra, s'apparecchiaro nell'oste per combattare, e dall'altra parte quelli della città s'apparecchiavano di loro armi, e sì le fecero rischiarare, che erano tutte scure per lo forte tempo che avevano auto, imperò che le volevano belle e chiare mostrare a' loro nemici, e dall'altra parte volevano tosto andare alla mortal battaglia; e sì tosto come furo nella campagna tutti assembrati e apparecchiati per ferire l'uno l'altro, ed eccoti siccome lo dì dinanzi una sì gran tempesta e più forte assai che quella dinanzi, e con sì grande tempesta lo' venne adosso, sicchè era una maraviglia, sicchè lo' tolse l'ardimento e 'l coraggio, che l'uno avea di tollare la vita a l'altro. E così come avevano fatto l'altro dì, sì si tornarono addietro a' loro alberghi; e per così maravigliose venture sì si trasse lo re Anibal addietro nella campagna, che li fu veramente avviso alle disavventure che aveva aute, che lui li sottomettarebbe e signoreggiarebbe, e farebbe di loro e di tutta la contrada tutta sua volontà, fuore solamente della città di Roma; e di ciò era bene sicuro, per ciò che sapeva bene che ella era di troppo grande forza. NOTE: [34] _Macerava_ o _allentava_. XXXVII. Ora sguardate come ciò può essare, che Roma non fusse presa a quella fiata, e ciò non fu per la forza ch'e Romani avevano, anco fu per la volontà del nostro Signore Jesù Cristo, da cui ebbero buono aiuto e buono soccorso; e sappiate che per la loro forza non fu niente, imperò che s'eglino avessero auta altrettanta gente, quanta eglino avevano, non avarebbero potuto contra lo re Anibal nè forza nè vertù, tanto avea lo re Anibal gran gente e forte, e insieme con tutto ciò erano pieni di sì grande ardimento e di sì grande prodezza, ed erano sì duri per male sofferire, che ciò era una grande maraviglia. Or sappiate dunque, e di ciò non siate in dottanza, che ciò fu per volontà del nostro Signore Iddio, che Roma fu a quella fiata difesa, imperò che non volse per sua pietà e misericordia che allora la città fusse distrutta del tutto, la quale avea eletta ad essare donna e capo del mondo e di tutta Cristianità, avvenga ch'allora fusse maestra degl'idoli e della legge pagana; e ciò possono bene sapere quegli, che la grande potenzia di Dio ânno cognosciuta, e perciò fu Roma difesa, ch'ella non fu presa dallo re Anibal, ch'aveva la forza grande, e Dio la difese in tale maniera, come voi avete udito, che lo' mandò le gran piove da cielo. XXXVIII. Di ciò vi lassarò ora stare, che ciascuno che â senno e discrezione, può bene sapere e cognoscere che assai sono più grandi l'opere del nostro Signore Dio e suoi provedimenti, che non si possono dire nè pensare. Io v'ô detto come li Romani sconfissero Asdrubali in Ispagna; ora dirò del re Anibal, che per tutta Italia, sì grande com'ella è, tenea sua signoria, chè chi â il principio d'una cosa inteso e non la fine, non sa che se n'è avvenuto, e avviene che ne perdono loro buono intendimento, ch'ânno auto al principio; e perciò è buona cosa di seguire in ordine ciò che altri comincia, e perciò mi conviene tornare a ciò quando luogo e tempo sarà, e seguire la materia sì che altri la possa bene intendare. Astrubal, il quale era sconfitto in Ispagna, siccome voi avete udito addietro, assembrò sua gente con quella ch'e Cartagginesi li avevano mandata, e sì cavalcò e tornò verso e Romani, ov'era Cornello Scipio e l'altro Scipio, amenduni consoli di Roma, e quali sconfitto l'avevano l'altra fiata, ed erano mastri e capitani; e sì tosto come seppero la venuta di Astrubal, eglino vennero incontra a lui con molta gran gente, che con loro erano assembrati; ma innanzi che l'osti d'una parte e d'altra s'appressimassero, vennero li due consoli, ch'io v'ô nomati, a loro schiere per assembrare primamente alla gente dello re Astrubal, che tutti erano armati ed apparecchiati longo una foresta presso ad una montagna. Li Romani, che poco dottavano li Cartagginesi, avvenga che non credessero che fussero tanti come egli erano, che già entravano nella valle tutti ordinati per combattare con loro nemici; e sappiate che là fu molto fiera e dura battaglia; li Romani che orgogliosi erano, lassaro corrare loro cavalli contra agli Affricani, e quali avevano più gente di loro. XXXIX. Che v'andarò io contando o dicendo li colpi della battaglia? Io non vi dirò chi ferì l'uno l'altro, chè assai tosto vi potrei mentire di cotali cose, se io me ne tramettesse; ma bene sappiate certamente, che dopo molta grande punta[35] li Romani furono sì villanamente sconfitti, che perdero li due consoli, che molto erano arditi e valenti cavalieri, d'onde Roma fu molto duramente abbassata, e così furo li due Scipioni danneggiati, che furo morti per Astrubal in Ispagna; ma non furo li Romani tutti morti, anzi ne scamparo assai il meglio che potero, e poi si assembraro il meglio che potero, siccome voi udirete. NOTE: [35] _Pugna_, _battaglia_: nel _Morgante_, 22, 244: La scala combattè di mano in mano, E come Orazio gran punta sostenne. XL. Allora s'era lo re Anibal tratto verso la marina per soggiornare e per mettare tutte le terre a sua signoria, e il mare propiamente altresì, imperò ch'elli voleva avere la signoria della terra e del mare. Li Romani che tanto fortemente erano spaventati, sì che non sapevano che si fare, mandarono verso Capova gran gente e gran cavallaria per prendare la città se potessero, nella quale lo re Anibal aveva lassate sue guardie per li Romani prendare, quando uscissero fuore di Roma, e là fu mandato Quinto Fulvio con gran gente, che assediaro la città; e sappiate che molte battaglie vi dero con lancie e quadrelli e altri ingegni che fecero, e fecero tanto infine che la presero per forza; e sì tosto com'ella fu presa, fece Quinto Fulvio assembrare gran gente per cercare la città, e sì fece ragunare l'avere e le ricchezze della città e le grandi prede ch'eglino avevano conquistate, e sì fece ogni cosa portare a Roma, che v'è assai presso; e poi fece prendare li uomini della città, per cui la città era stata governata e tenuta contra lui, e sì li fece tutti uccidare e angosciosamente morire, e sì gli avevano mandato a dire li senatori di Roma per loro lettere, che non facesse uccidare li uomini di Capova; ma per cosa ch'e senatori li mandassero a dire, non lassò che non ne facesse giustizia, e disse che male a loro uopo s'erano dati ad Anibal, e sì tosto lassato l'onore e la signoria di Roma. Quando ciò seppero li altri baroni d'intorno delle città, che le terre di Campagnia tenevano, ellino ebbero tale paura dall'una parte de' Romani e dall'altra parte dello re Anibal di Cartaggine, di cui udiro dire che tornava in Italia, che non sapevano che si fare; per la quale cosa si raunaro insieme e presero consiglio, ed insieme s'accordaro tutti gli alti uomini della contrada, e presero per partito che meglio lo' metteva[36] di morire, che vedere lo grande dolore che l'oppressava a loro gente e a loro cavallaria. NOTE: [36] _Meglio conveniva_; nella _Retorica_ di Aristotile: «Sopra ogni altra cosa mette lor meglio di fermarsi, che saper quella di cui si parla.» XLI. Per questa paura bebbero veleno mortale, per la quale cosa tutti perdero la vita, e così fu Campagnia e la città di Capova racquistata per la forza di Roma, e tratta della signoria dello re Anibal, ove ell'era sottomessa. Allora fu a' Romani la ventura alquanto tornata, e a quello Scipio Cornellio, che poi fu chiamato Scipio Affricano, che molto ebbe grande dolore di suo padre e di suo zio, che Astrubal lo fratello d'Anibal aveva morti in Ispagna. Questo Scipio non aveva più di vintiquattro anni, giovano era di tempo e bello e grande, e sappiate ch'egli era molto savio e pro e ardito, e più valente di lui non era in tutta Roma, siccome si mostrò ne' suoi fatti, ed era di grande nobiltà di sangue. De' due Scipioni, ch'erano stati morti, l'uno era stato suo padre, e l'altro suo zio. Per questo grande dolore vendicare sì si proferse a' senatori ed a' consoli di Roma d'andare in Ispagna contra Astrubal, che gran parte della terra avea conquistata, e di ciò furo molto lieti li senatori e consoli; ma quando ebbero ragunata la gente, ellino avevano sì poco avere, che non sapevano come nè in che maniera e' potessero tenere sì gran gente a soldo in istranie terre. Adunque era Roma molto impovarita, che solea essare donna di gran ricchezze e di gran signoria. Per quella povertà che allora avevano molto grande, sì raunò Claudio Marcello e Valerio Levino[37], che allora erano consoli e molto ricchi, d'oro e d'argento e di drappi di seta, e sì arrecaro dinanzi a' senatori tutto loro tesoro e loro ricchezze che avevano conquistate, e sappiate che non ritennero per loro nè per loro figliuoli, se non uno anello d'oro ed uno fermaglio, con che acconciavano loro capelli, e a loro figliuole e a loro donne a ciascuna una libra d'oro ed una d'argento, che tanto n'avevano di prima, che appena se ne sapeva il numaro; e per l'assemplo di questi ch'io v'ô detti, fecero il simigliante tutti li alti uomini di Roma, e missero tutto loro tesoro in comune per guardare e difendare la città, e per queste cose spezialmente inforzò molto la città di Roma. NOTE: [37] M. Valerio Levino II e M. Claudio Marcello IV, verso l'anno di Roma 544. XLII. Quando ciò fu fatto, Scipio con sua grande oste andò tanto per sue giornate, poi che si partì di Roma, che passò i monti di Pineos, e tanto fece che venne in Ispagna; e quando fu entrato nella contrada, egli domandò dove fossero ragunate le più grandi ricchezze degli Affricani, e quale era la terra, ov'ellino avessero mandata maggiore forza di loro gente, e fu lo' detto di Cartaggine novella, la quale avevano fatta in Ispagna. Di questa Cartaggine novella, siccome Orosio contia, e dice la maggiore parte della gente, che questa è quella città, che ora è chiamata Marot, e tali dicono ch'è chiamata Tolletta[38], che tanto è oggi nominata e pregiata, ch'è posta su lo rivaggio, ove altri truova tale fiata granella d'oro mescolate coll'arena, chi bene la vuole cercare, ma non vi so bene dire quale fu di queste due città l'una, che fu quella Cartagine ch'io v'ô parlato; ma tanto sappiate certamente di vero, che questa non fu la gran Cartaggine, ch'è in Libia nelle parti d'Affrica, d'onde lo re Astrubal aveva sì grande gente ragunata in Ispagna per navilio; Cartaggine, ond'io vi parlo, fu la città di Marte, siccome a me pare, e sappiate che Astrubal era nell'ultime parti di Spagna, là ove avea fatte molte battaglie a prendare le città e le castella, e conquistare le stranie nazioni. Ma sì tosto come seppe e intese che Scipio avea passati e monti di Pineos, d'onde io v'ô dinanzi parlato, e ch'egli era già entrato in Ispagna, elli si partì il più tosto che potè per venire contra a lui, ma intanto assediò Scipio Cartaggine novella, là ove era tutto l'oro e tutto l'argento, che gli Affricani avevano conquistato. NOTE: [38] Parlasi qui di Cartagena costrutta da Asdrubale, secondo Polibio e Pomponio Mela. Dopo la distruzione fattane dai Vandali, la sua grandezza e dignità passò a Toledo, che contava Cartagena tra le molte sue città suffraganee. Sotto i Romani la sua giurisdizione estendevasi su sessantacinque città, e della sua ricchezza fa ampia testimonianza Tito Livio. XLIII. All'assediare della città di Cartaggine fu molto gran romore di gente, ma tutta la gran forza della cavallaria della contrada erano andati con Astrubal, sicchè quelli della città non potevano avere aiuto se non di loro medesimi e di coloro che lassati v'erano. Dentro v'era Margon fratello di Astrubal, che v'era venuto novellamente, il quale molto si penò e travagliò con grande gente ch'egli aveva, per tenere la città, ma forza nè potere nollo potea cresciare, siccome io v'ô detto. Ma Scipio che dinanzi alla città era attendato, a costui crescea molto la sua forza, imperò che tutti li Romani, ch'erano scampati della sconfitta di suo padre e di suo zio, erano assembrati e tornati a lui, per la quale cosa sua forza era molto cresciuta e crescea di giorno in giorno. Onde avvenne molte maraviglie, siccome voi udirete appresso tutte per ordine nella storia, che molto è buona e dilettevole a udire; e chi lo cuore e lo 'ntendimento vi pone, vi può imprendare molte cose che possono essare utili, che non sono nelli altri libri nè in altre storie. XLIV. Così e in tale maniera assembrò Scipio molta gente, che tanto fece e procacciò per suo gran senno e per sua gran prodezza, che prese la città, che allora era piena di molto avere e bene popolata di gente. Questo acquisto che Scipio fece allora, rimbaldì tutta Roma, che mandò in prigione Margon lo fratello dello re Anibal e molti altri uomini di nome d'Affrica; là fu molta gran letizia fatta, e per tale maniera diliberò Scipio tutti li staggi ch'erano in prigione delle città di Spagna, che Astrubal v'aveva messi per sicurtà che gli aiutassero, e che per persona non lassarebbero, nè per doni, nè per promesse, nè per neuna altra cosa che avvenisse, e d'altra parte che non terrebbero co' Romani, nè loro comandamenta non farebbero, s'egli avvenisse cosa, ch'eglino nella contrada tornassero. Ancora perciò che Scipio rendè agli alti baroni di Spagna loro figliuoli e loro frategli e loro nipoti, ch'erano in prigione, questi tornaro tutti a lui ed a sua gente, onde accrebbe molto sua forza e sua compagnia. XLV. Intanto gionse Astrubal con sua gran gente contra Scipio lo consolo, che la battaglia non rifiutò niente, anzi ordinò sua gente e sue schiere come valente cavaliere e cortese e savio, e sì gli amaestrò molto di ben fare e di vendicare l'onta e 'l danneggio che gli Affricani gli avevano fatto, e allora venne tutte le schiere senza dimoranza. Lo re Astrubal, che attendato era, non avea dormito tutta la notte per lo gran disio della battaglia, e la mattina per tempo fece sue schiere armare, chè non credeva che li Romani si potessero tenere contra lui in nulla maniera, e similemente li Romani desideravano di combattare con lui, e non credevano già vedere l'ora che le schiere fussero ordinate; e per questa volontà che l'uni e l'altri avevano sì grande di combattare, furo tosto assembrati. Poi che s'accostaro, là fu molto grande battaglia e pericolosa e crudele senza misericordia e senza pietà; là fecero molto bene li arditi e li valenti cavalieri, che per paura di morte none sbigottiro; e bene sappiate che neuno che troppo dubiti, non può essere nè pro nè ardito, e coloro che vogliono avere il pregio e l'ardimento di loro grande forza acquistare fama, sì si metteno in avventura di morte. Là lo' fece molto bene lo consolo Scipio, chè per sua grande prodezza furo li Affricani sconfitti lo dì, e Astrubal loro signore cacciato dello stormo, e sua gente cacciata per forza infino alla notte. Là fu molto grande acquisto fatto, chè quando li Romani tornaro di loro incalcio, ellino trovarono le tende e padiglioni degli Affricani sì guarniti d'oro e d'argento e di drappi di seta e d'avere e di prigioni e di preda, sì che appena ne potrebbe altri dire il numaro; e così crebbe in molto grande avere Scipio e in grande nome pel primo anno per la terra di Spagna e per tutte le contrade del paese d'intorno. XLVI. Eutropio conta che intanto Fabio Massimo uscì di Roma con grande gente appiè e a cavallo per volontà de' senatori, e sì andò tanto che gionse alla città di Taranto, ove era tutto il fornimento di Anibal, e le grandi ricchezze ch'egli avevano conquistate per molte contrade. Quando Abran, uno duca dello re Anibal, che molto era valente e di grande potenzia, che con lui avea molta gran gente menata e ragunata dentro alla città di Taranto, sì tosto come Fabio Massimo venne dinanzi alla città, sì uscì lo duca contra a lui a battaglia ordinata, e senza fare menzione o parola nulla di fare o pace o concordia, ma tostamente s'incontrarono con loro, però che si odiavano mortalmente, e sì si feriro molto duramente li Romani e li Affricani, imperò che molto desideravano di sconfiggiare l'uno l'altro e cacciarsi di campo. Coloro che là assembraro primamente, non curavano di belle giostre per mostrare loro cavallare, anzi assembraro sì tosto come si viddero, e cominciaro a trarre e a lanciare l'uno l'altro, e quelli appiei e quelli a cavallo tutti insieme, e sì si ferivano di lancie e di quadrella e di spade e d'accette taglienti, che allora e in quello tempo erano molto in usanza di portare in battaglia, colle quali si fendevano e tagliavano teste e costati e petti in sì grande quantità, che tutta la terra n'era coperta. In quella battaglia uccise Fabio Massimo Abran, per la cui morte quelli della città di Taranto e li Affricani medesimi che con lui erano, furono sconfitti. Là fu molta grande distruzione di cavalieri e di sergenti allo 'ncalciare verso la città, imperò che li Romani li seguivano molto vigorosamente, sicchè insieme con loro entraro dentro alla città, e sì furo sì duramente sbigottiti e spaventati quelli che sopra le mura della città erano, e le donne e le damigelle per lo grande dolore e per la grande distruzione, ch'elle vedevano fare di loro gente, che ciò era maraviglia; e già neuno faceva difesa per li Romani ritenere o per difendare loro vita. Così e in tale maniera fu presa la città di Taranto. Allora lo consolo Fabio Massimo fece ragunare l'avere e le grandi prede che là furono trovate e guadagnate, e sì le partì tutte e donò a sua gente e a sua cavallaria, e poi fece vendare bene vinti milia prigioni ch'elli aveva presi, e sì ne fece portare l'avere a Roma e mettare in comune tesoro della città. Allora tornaro alla forza e all'aiuto de' Romani molta gente che s'era partita da loro per paura di Anibal, imperò che Fabio Massimo lo' diceva e sicurava, che mai più lo re Anibal non arebbe sopra loro signoria. XLVII. Allora tornò lo consolo Valerio, il quale aveva fatto pace collo re Filippo di Macedonia e con quello di Grecia e collo re Quatenio d'Asia, ch'era allora di gran possanza. Quando tutte queste cose furono fatte, lo consolo Valerio tornò a Roma con molta gente in navilio, e arrivò e prese porto in Sicilia; e sì tosto come fu nella contrada, li venne novelle che uno duca d'Affrica, il quale era chiamato Anno, era nella città d'Agrigento, onde Valerio vi mandò uno consolo chiamato Junio, e venne dinanzi alla città con suoi Romani, e sì la prese per forza, e lo duca Anno altresì con molta della sua gente, e quali menò a Roma in servaggio. Allora cercò Junio la contrada, e renderseli quaranta castella, e sedici ne prese per forza; d'onde Junio fece tantosto le mura abbattare e confondare, e mandò li prigioni e tutto l'avere a Roma, ove grande gioia ne fu fatta. XLVIII. Allora tornò lo re Anibal e combattè con Gaio, che contra a lui aveva molta gran gente della signoria di Roma. Questa battaglia fece a' Romani grande danneggio, chè Gaio Fulvio vi fu morto, e con lui dieci principi di Roma, che le schiere guidavano, e diecisette cavalieri che di grande nome erano e di grande cavallaria, e per questo grande dolore vendicare venne lo consolo Marcello contra lo re Anibal con tutta la forza che potè avere, e sì combattè con lui tre dì, ciascuno dì infino alla notte; ma il quarto dì innanzi che venisse il vesparo, furo sì menati li Romani e 'l consolo Marcello, che per forza furo cacciati del campo, e troppo avarebbe perduto, se la notte non fosse sì tosto venuta. Ma come lo re Anibal e sue genti furono tornati a loro tende, sì rassembrò Marcello tutta sua gente, e sì lo' disse e pregò che non fussero sbigottiti per cosa che avvenuta lo' fusse, imperò che Anibal aveva perduta due tanta più gente di loro; e bene fussero certi che s'ellino volessero assalirlo vigorosamente la mattina, ellino si potrebbero molto bene vendicare del dannaggio e dell'ontia, ch'egli avevano ricevuta da' loro nemici. XLIX. E per queste parole rimenò Marcello sue genti alla battaglia, che sì bene lo' fecero quel dì, ch'ellino uccisero sette milia uomini della gente dello re Anibal, e lui e sua gente fecero fuggire per forza a loro tende, e così rimase quella battaglia, che più non ne fu fatto a quella fiata, chè tanta gente avevano perduta e Romani, che non potevano più sofferire nè più assalire lo re Anibal, se non avessero gente che lo' fusse in aiuto. Ma quando ciò venne al capo dell'anno, Marcello consolo ebbe gran gente assembrata, imperò che molto desiderava di cacciare lo re Anibal fuore di Italia, e perciò rassembrò colui il più tosto che potè a battaglia; ma malamente ne gli avvenne, chè lui vi fu morto, e sua gente tutta presa e morta sì al tutto, che uno solo non ne scampò, che tutti non fussero morti o presi. L. In quello tempo medesimo era Scipio consolo nella terra di Spagna che aveva sconfitto e vento lo re Astrubal, siccome io v'ô detto, e già era il terzo anno di sua venuta in Ispagna, nella quale avea ottanta città conquistate e messe sotto la signoria di Roma per gran battaglie, le quali lassò tutte franche senza rendare tributo, e così tornò alla città di Roma. Ma innanzi che se ne partisse, se n'era partito lo re Astrubal, siccome già potrete udire e contiare innanzi. Lo re Anibal, ch'era in Sicilia, e avea morto lo consolo Marcello, udì dire di verità, che lo consolo Scipio tornava di Spagna, e ch'elli avea sconfitto Astrubal suo fratello, sicchè non l'osava di aspettare in campo; e perciò mandò a dire a Astrubal suo fratello, che lassasse la terra di Spagna, e fusse certo che contra a Scipio nulla potrebbe tenere, e che se ne venisse il più tosto che potesse in Italia a lui, e che quando fussero insieme, distruggiarebbero tutta Roma, chè bene n'avarebbero la potenzia, e sì mettarebbero tutta la terra nel podere e nella signoria di Cartaggine. Quando lo re Astrubal, ch'era in Ispagna, udì lo comandamento di suo fratello Anibal, elli si misse alla via senza indugio, e menò con lui molto grande sforzo di Gallici e di Spagnuoli e di quelli di Affrica e di grandi ricchezze d'oro e d'argento e d'altre ricchezze; e avea con lui molti olifanti e altre bestie da portare carriaggio, le quali bestie li erano state mandate d'Affrica. LI. In questo modo, come voi udite, si partì lo re Astrubal di Spagna, e passò poggi, valli e fiumi e riviere e montagne nella terra di Gaule, tanto che venne a' monti di Mongeu, e quali passò a molta gran pena. Allora si partiro di Roma Claudio e Marzio Luccio, amenduni consoli, con molta grande gente per venire contra Astrubal, del quale la novella era già venuta a Roma, e questi due consoli vennero contra a lui, siccome io vi dico, con tutta loro gente. Intanto che le genti di Astrubal discendevano li monti di Mongeu, e li consoli gionsero colle loro genti dall'altro lato segretamente, che lo re Astrubal non sapeva niente di loro venuta; e siccome la gente dello re Astrubal discendea delle montagne pieni di freddo, così erano assaliti da' Romani, de' quali innanzi che discendessero tutti, ne fecero grande uccisione, imperò che gli trovarono venuti mezzi meno per lo grande freddo. Ma come Astrubal con tutta sua gente fu disceso, allora s'incominciò una crudele battaglia e pericolosa, e durò uno grande pezzo, che non si sarebbe potuto cognosciare chi n'avesse auto il meglio, e la gran quantità degli olifanti che lo re Astrubal aveva menati, e quali facevano grande danno a' Romani, e tenevano si strette, le genti sue, che li Romani non li potevano offendare. Ma li Romani ordinaro due grandi schiere di cavalieri, a' quali posero a ogniuno in groppa uno sergente, e tutti erano coverti di ferro con buone accette in mano; e poi si missero in mezzo degli olifanti, e quelli ch'erano in groppa, scesero appiei in terra, e a niuna altra cosa attendevano, se non a uccidare gli olifanti, e non potevano essare offesi, perchè quelli cavalieri che gli avevano portati, tenevano sì stretti quelli delle castella, che avevano briga di loro difendare, sicchè ne facevano grande uccidare. Quel modo d'uccidare gli olifanti aveva primamente trovato lo re Astrubal, e non perciò si stavano li altri, imperò che in più di mille luogora si combatteva, ed era la battaglia pessima e pericolosa. LII. Mentre che la battaglia era sì pessima e pericolosa, andò tanto la cosa d'una parte e d'altra, che lo re Astrubal vi fa morto sopra uno fiume, che a nome Menarco[39], e fu tutta sua gente venta e sconfitta; là fu fatta grande distruzione di gente, però che della gente dello re Astrubal ne furo morti cinquantotto milia e presine sei milia, che tutti furo menati in servaggio a Roma, e si ricoverarono quattro milia pregioni, che aveva Astrubal, tutti Romani, de' quali li due consoli che avevano la battaglia venta, ebbero grande gioia e grande letizia, e de' Romani furo morti in questa battaglia ben otto milia, de' quagli poco curavano, perchè avevano vinta la battaglia. In quella battaglia conquistoro li Romani molto onore e molte grandi ricchezze, che lo re Astrubal e sua gente avevano recate, come oro e argento e ricchi drappi di seta, tanto che nullo ne potrebbe dire la quantità; e poi appresso fecero prendare la testa dello re Astrubal e fecerla portare allo re Anibal suo fratello, là ove egli era attendato con tutta sua gente. NOTE: [39] Asdrubale morì presso il Metauro nell'anno 207 avanti Cristo sotto i consoli Claudio Nerone e Livio Salinatore. LIII. Quando lo re Anibal vidde la testa di suo fratello Astrubal, e seppe il dannaggio e la grande sconfitta di sue genti, elli si trasse versa Sicilia per temenzia d'alcuna sciagura e per lo dolore di suo fratello e di sua gente, della quale lo re Anibal facea grande dimostranza; poi passò uno anno, che tra e Romani e lo re Anibal non fu battaglia, non perchè fusse nè pace nè triegua infra loro, ma perchè avevano auto l'uno e l'altro tanta pistolenzia, oltre alle crudeli battaglie, che non potevano arme prendare per andare a battaglia. Intanto Scipio ebbesi la contrada conquistata da' monti di Pineos infino al mare Oceano, cioè al mare che intornia tutto il mondo, nel quale tutte le nazioni stranie di diverse maniere abitano, e tutti bracci di mare, città e castella e ville e piani e montagne tutte sottomisse alla signoria di Roma; e ciò che si metteva a fare, li veniva fatto in modo che il più della gente credeva ch'egli operasse per volontà delli Dii, e che in lui fusse alcuna cosa divina, perciò che in lui erano tutte le bontà d'onore e di larghezza è di prodezza, come più potevano essare in nullo uomo, che mai fusse nel mondo. Quando Scipio ebbe tutta Spagna conquistata, come voi udite dire e contiare, elli tornò a Roma con sì grande onore e gloria e con sì grandi ricchezze, che Roma fu tutta di gioia piena. LIV. Io non v'andarò contando nè divisando l'onore della vittoria che fu fatto a Scipio, e la festa e la letizia che per sua tornata fu mostrata; s'io ciò volessi contiare, troppo avarei a fare, e però mi tacerò a questa fiata. Ma appresso a tutta la gioia che li fu fatta a Roma, sì deliberaro di nuovo e senatori e consoli di Roma, che Scipio passasse in Affrica per conquistare Cartaggine e distruggiarla; e mentre che lo re Anibal era ancora in Sicilia e in Calavria, Scipio s'apparecchiò molto riccamente, e sì si partì di Roma con sì grande gente e con sì gran ricchezza come per acquistare Cartaggine e tutto lo regno d'Affrica; e quando ebbe preso commiato da' senatori di Roma e da' prossimani amici e parenti, elli andò tanto che gionse al mare, ove il navilio era bello e ricco. Lenio e Manlio, che l'oste guidavano, amendue valenti principi di Roma, fecero le navi caricare di farina e di biscotto e di vino e d'acqua dolce e di carne salata, e quando e ricchi destrieri furo dentro entrati e prencipi e sergenti, li marinari trassero le vele alte sugli arbori, e staccaro l'àncora da terra per fare le navi partire di porto; e tosto si partiro e dilongaro da terra, però che un gran vento si levò e ferì nelle vele di diversi colori, che tosto li cacciò nel pelago di mare e dilongolli dalla terra d'Italia. LV. Tanto andò Scipio con sua gente che avea con lui, ch'elli arrivò in Affrica, e sì tosto come fu gionto, lo seppe Anno duca di Poonia, che contra a lui venne con sì grande gente, come potè assembrare; ma in questa battaglia che gli Affricani assembraro, primamente furo venti e sconfitti, e lo duca Anno vi fu morto, il quale perdè tutto suo onore e ricchezza e vita. Questa fu la prima battaglia che Scipio fece poi che gionse in Affrica. Intanto sì combattè lo consolo Sempronio con Anibal in Puglia, ma malamente avvenne a' Romani in quella battaglia, chè lo consolo Sempronio vi fu sconfitto, ed elli il più tosto che potè si partì dello stormo, e tornò fuggendo a Roma molto lieto e gioioso non della perdita di sua gente, ma dello scampo di sua vita. LVI. Allora si ragunaro li Cartagginesi e li Mirmidieni, e quali erano nell'aiuto e nel soccorso de' Poonii, li quali erano venuti contra Scipio che duramente assaliva e distruggeva Affrica; e sappiate che queste due genti erano due osti belle e grandi, e sì avvenne che una notte s'attendaro l'uni presso all'altri. Scipio, che bene avea fatto cercare di loro affare per sue spie, andò tanto con sua gente verso la mezza notte, che s'appressò al loro campo, e tantosto comandò che fusse messo fuoco nelle tende e ne' padiglioni, senza ciò che le guardie se n'avvedessero, perciò che non avevano dottanza niuna; e sì tosto come il fuoco fu appreso nell'oste, sì si levaro suso tutti storditi come gente ch'erano addormentate, gridando: «al fuoco, al fuoco», come coloro che credevano che 'l fuoco fusse appreso per alcuno accidente. LVII. A quello remore e a quello grido venne Scipio lo consolo con grande cavallaria, che tanti n'uccise de' Poonii e de' Mirmidieni, che disarmati erano, colle spade taglienti, che tutta la terra n'era ingombrata de' morti e de' feriti, che tutti furono morti e menati a martiro. Foilse re de' Mirmidieni, che parente era dello re Anibal, si fuggì con molta poca gente, che poco si fallì che non arse dentro a sue tende. In questa battaglia ch'io v'ô detta, furo morti degli Africani tra per fuoco e per arme in quella notte quaranta milia d'uomini e presine cinque miglia. Non si dee neuno maravigliare di questa sconfitta, imperò che leggiera cosa era di loro prendare e uccidare, quando ellino entravano nel fuoco tutti disarmati per spegniarlo. Lo duca de' Poonii e lo re Foilse de' Mirmidieni, che di quella battaglia scamparo, rassembraro loro gente il più tosto che potero per combattare co' Romani e per vendicare loro ontia e loro grande dannaggio. LVIII. Quando tutte le genti d'Affrica furo tutte assembrate, ellino cavalcaro tanto, che vennero in quella parte, ove Scipio li aveva dinanzi sconfitti di notte, e tantosto furo le battaglie ordinate e divisate d'una parte e d'altra; e sì tosto come s'aggionsero insieme, missero mano alle spade, e cominciarono la battaglia, traendosi sangue da tutte parti, e tagliandosi braccia, teste e tutte altre membra, tanto che de' morti era tutta la terra ingioncata e coverta. Alla fine li Romani ebbero la vittoria, però che lo consolo Scipio s'abbandonava in quella parte e in qualunque pressa vedeva maggiore per loro confondare e rempare, e Lenio[40] e Massimo e li altri consoli Romani pregiati d'arme e buoni pedoni e la buona cavallaria li menaro tanto alle spade taglienti, che li cacciaro del campo sconfitti e venti senza nulla speranza di tornare addietro. Là fu preso lo re de' Mirmidieni, e sì lo prese Lenio, che 'l gionse quando fuggiva sopra uno destriere d'Affrica, e li altri che camparo, fuggiro tanto che entraro nella ricca città d'Aguarento[41]; e come furo dentro, chiusero le porti e fornirono le mura e le difese d'armadure per difendare la città, e Lenio l'incalciò e tanto menò gran forza di gente, che gli assediò, e tanto assaliro le mura e le porti, che le ruppero. E quando quelli della città viddero che non si potevano più tenere, si arrendero salve le persone. NOTE: [40] M. Valerio Levino, creato console nell'anno 544 di Roma. [41] Agrigento, per la cui espugnazione la Sicilia rimase per intero sottomessa ai Romani. LIX. Sì tosto come la città fa arrenduta, Massimo fece prendare li alti baroni della città e lo re de' Mirmidieni tutto incatenato, e si lo menò a Scipio che la battaglia aveva venta, e sì aveva morto lo duca de' Poonii e presi molti altri uomini. Sì tosto come Scipio vidde lo re dinanzi da lui, egli il dè in guardia a Lenio, e tutti li altri prigioni altresì, e tutto il guadagno che aveva fatto nella città ed in Affrica, fe menare a Roma per dimostranza della vittoria. Lenio andò tanto per mare e per terra con tanti prigioni ed avere, che appena si potrebbe contiare, che venne a Roma e presentò a' sanatori e popolo di Roma da parte di Scipio e prigioni e le grandi ricchezze. LX. Per questa novella, che tosto fu saputa e sparta per tutta Italia, lassò Anibal tutte le città e castella della contrada, e trassene fuore sue guardie e suoi uomini. In questo tanto ebbero quelli di Cartaggine sì grande paura di Scipio, che conquistava il regno d'Affrica per forza, che mandaro allo re Anibal imbasciata che tornasse il più presto che potesse in Cartaggine per soccorrire la città e tutto lo reame, ch'e Romani distruggevano per loro potenzia. Quando lo re Anibal udì così parlare li messaggi, e seppe certamente che li conveniva tornare addietro, elli cominciò a piangiare, perciò che lassava il regno di Italia e Roma, innanzi che l'avesse conquistato, e tantosto fece suo navilio apparecchiare; e quando fu tempo d'entrare in mare, elli fece torre suo avere e mettarlo nelle navi, e tutti li cavalieri della contrada rimasero, che di loro grado nol volevano seguitare; e sì tosto come sua gente fu entrata in mare, fece l'àncora levare e andò via. E così fu deliberata Italia dallo re Anibal, che v'era stato dieciotto anni, e alle genti d'Italia aveva fatto sofferire molta pena e molto travaglio, siccome voi avete udito e inteso; e sì tosto come quelli delle fortezze viddero e intesero che Anibal s'era partito, sì si ritornare alla divozione del popolo romano. LXI. Lo re Anibal navicò tanto tra dì e notte, che si appressimò al regno d'Affrica; e sì tosto come lo re Anibal seppe che si appressimava alla terra, elli comandò a' maestri marinari che salissero sulli arboli delle navi, che molto erano alti, e sì lo' comandò che guardassero qual città l'era più pressimana. Coloro a cui lo re comandò, furono tosto saliti nelli arboli, che cento sessanta piei erano longhi, e sì riguardaro verso la terra, che anco l'era alquanto lontana; e quando ebbero gran pezzo guardato per cognosciare il paese là ove ellino andavano, lo re Anibal li domandò che ellino vedevano, ed eglino risposero che non vedevano se non sepolture in più parti, siccome a loro pareva. LXII. Di queste parole si maravigliò molto lo re Anibal in sè medesimo, e pensò che questo significasse qualche ingombro, e perciò comandò che arrivassero ad altro porto che a quello ove eglino andavano; e così come elli comandò, così fu fatto, e non si dimoronno niente grandemente, che essi arriverò nel porto d'uno castello che molto era ricco e bello della signoria di Cartaggine, che aveva nome Lepino. Là discese lo re Anibal a terra e tutta sua gente, che del mare e della pena ch'eglino avevano auta erano molto travagliati, e sì si riposaro ine longamente, e lo re Anibal fece trarre fuore delle navi suo avere e sue prede, delle quali avevano grande abbondanza. Mentre che lo re Anibal e sua gente si riposavano sotto al castello di Lepino, mandò suoi messaggi a' prencipi della città di Cartaggine, come elli era tornato in Affrica ed era arrivato con sua gente al castello di Lepino, che molto era grande e forte; e allora fu fatta in Cartaggine grande gioia e grande allegrezza per la venuta dello re Anibal, che molto era desiderato e amato da tutti quelli della città e da' ricchi e da' povari, perciò che avevano in lui sicurtà e fidanza per lo suo senno e per la sua prodezza, della quale avevano udito molto parlare appresso e a longa. LXIII. Quando lo re Anibal si fu riposato a sua volontà, elli fece levare lo campo, e tanto andare, che si attendaro sotto a Cartaggine in uno bello piano; e quando si furo attendati, li alti baroni di Cartaggine vennero allo re Anibal, e salutare lui e tutti suoi baroni, e sì lo volevano menare dentro in Cartaggine per gioia e festa fare, come era ragione e drittura; ma lo re Anibal lo' rispose e sì lo' disse ch'elli e sua gente non entrarebbero dentro alle mura di Cartaggine, infino a tanto ch'elli avarà veduto lo consolo Scipio e parlato con lui, e sapere se potesse fare pace e concordia con lui, e se non combattarebbe con lui, perciò che non è bene fatto di lassare stare lo suo nemico in suo paese chi trarre nel può o per ragione o per forza. LXIV. A questo s'accordaro bene tutti e Cartaginesi, e incontanente procacciaro forza ed aiuto, mentre lo re Anibal mandò suoi messaggi allo consolo Scipio, che presso a lui era a meno di due giornate, e sì gli mandò a dire che gli vorrebbe parlare, e se intendeva di volere pace con lui e co' Cartagginesi. Li messaggi andaro tanto che gionsero ove li Romani erano attendati, e sì domandaro lo consolo Scipio, in cui erano tutte le bontà. Il nobile cavaliere e cortese sì si accordò di parlare allo re Anibal, e ciò promisse per la volontà de' savii uomini di sua oste, e li messaggi altresì da parte dello re Anibal; e poi presero commiato il più presto che poterono, e tornarono allo re Anibal ed a' Cartaginesi, e sì lo' contiaro la risposta de' Romani e' belli sembianti ch'ell'avevano fatto. LXV. Intanto venne il termine del dì del parlamento, ch'era ordinato in capo di quindici dì. Li principi e li baroni di Cartaggine furo in una piazza, ove lo parlamento doveva essare, assai presso dalla città di Bredum, ch'e Cartagginesi tenevano. Là venne lo consolo Scipio tutto disarmato molto nobilemente con sua cavallaria, che appena si potrebbe dire loro grande fierezza, e la maniera de' drappi della seta di che erano vestiti, nè le fatture nè e ricchi sembianti de' ricchi destrieri d'Affrica e di Spagna che cavalcavano; e dall'altra parte non vennero meno fieri la gente dello re Anibal n'e Cartagginesi, che di ricchi palii di seta erano vestiti. Li due principi, lo re Anibal e lo consolo Scipio, che tanto erano valorosi, erano troppo riccamente vestiti ed apparecchiati, siccome a loro si conveniva; e sì tosto come si viddero, si miroro molto l'uno l'altro per lo grande nome che l'uno aveva udito contiare dell'altro e dire, e molto si maravigliò l'uno dell'altro, e sì erano così come sbigottiti per la maraviglia; ed allora parlò primamente lo re Anibal a Scipio, e sì li disse per belle ragioni in lenguaggio romano, che molto duramente si maravigliava, perchè elli era passato in Affrica per combattare, quando elli assai presso a Roma l'arebbe potuto trovare per tutta Italia. Scipio lo consolo, che tanto era bello di corpo e di forza, che a grande pena si potrebbe scrivare, rispose allo re Anibal, ch'elli avea passato il mare e venuto in Affrica per vendicare l'ontia e 'l danneggio, ch'e Cartagginesi l'aveano fatto in Italia e in altre contrade. LXVI. E così cominciare le parole tra' nobili principi, e quali erano da tutti li altri guardati a gran maraviglia, e scoltavano le parole de' due principi. Quando ebbero parlato assai di ciò e d'altre cose, si parlò lo re Anibal, che più fiate era stato sconfitto in battaglia, sì pensò le sciagure che possono intervenire, e perciò parlò primamente di pace a Scipio, siccome Eutropio dice; ma lo consolo Scipio non ne volse niente fare, se non per tale condizione, che Cartaggine rendesse a' Romani ora al presente cinque milia pesi d'argento e mille libre d'oro per la pace e per la triegua che fra loro era, la quale l'avevano rotta e spezzata. Questi patti spiacquero molto allo re Anibal ed a' Cartagginesi, e dissero che innanzi si combattarebbero co' Romani, che questi patti facessero; ed allora si partiro e Romani e Cartagginesi, e quali molto s'odiavano, e procacciaro di combattare senza dimoranza. E poi ch'e prencipi furo tornati a' loro alberghi, non fu poi nessuno dì che none assembrassero loro gente, e che none ammaestrassero di ben fare, siccome per tutto guadagnare o per tutto perdare e vita e avere e donne e figliuoli e onore. LXVII. Quando tutte loro genti furo assembrate, ellino s'attendaro più presso che potero l'uno all'altro, e li due prencipi, e quali erano coraggiosi e fieri, avevano messo tutto loro ingegno e avere in gente ragunare per avere la vittoria; e sì tosto com'ebbero ciò fatto, ellino non si indugiaro più che non si assembrassero, che molto lo' parea all'uno e all'altro che si tardasse la battaglia, tanto erano desiderosi di combattare. Quelli due che prima s'assembrassero in su ricchi destrieri dinanzi a tutte le schiere bene una balestrata, si fu Scipio ed Anibal, che duramente si feriro in sulli scudi dorati, e quali spezzare, e ruppero le lancio sugli sberghi doppi che non ne smagaro niente, nè niuno de' due baroni cadde del destriere, anzi passare oltre e misserò mano alle spade per combattare con coloro che lo' venivano alla rincontra a grande ardire. Per questa giostra furo molti cavalieri morti ed abbattuti, de' quali e cavalli fuggivano per lo campo; e quando le genti appiei assembraro a quelli da cavallo, allora fu grande dolore di sbudellare cavagli ed abbattere de' cavalieri, e quelli che non si potevano levare, giacevano a terra; e sì avareste da mille parti udito sgridare l'uno Cartaggine e l'altro Roma con sì alte voci, che tutta la contrada ne rinsonava. Tre volte avvenne che Anibal e Scipio combattero a corpo a corpo colle spade nude, e tagliarsi li scudi innorati onde si coprivano, e tre volte li partì la pressa de' loro cavalieri che si mettevano tra loro, e poco si poteva sapere chi n'avesse il meglio; e quando le prime schiere di Scipio si missero infra li alifanti, che quelli di Cartaggine avevano menati, in quella parte Scipio si trasse colla forza de' Romani, chè coloro delle castella che gli olifanti portavano, facevano di loro uomini molto crudele dannaggio; ma poi che gli cominciaro a uccidare, eglino gli fecero tutti tornare addietro, sicchè nullo ne potevano fare ritornare alla battaglia di quelli che feriti erano e che fuggire potevano. LXVIII. Alla fine furo sconfitti li Cartagginesi ed Anibal altresì, che tanto si tenne nello stormo, che non v'erano più che venti cavalieri di rimanente, e non fuggiva, però che ontia li pareva di fuggire. E vinti difendevano loro signore, che non volevano fare dislealtà nè fellonia; e tanto dimorò Anibal, che nolli rimasero più che quattro cavalieri, e con questi quattro cavalieri si partì Anibal tristo e corruccioso, perciò che non vi poteva più dimorare; e sì se ne venne fuggendo ad Adrumento sua città per campare sua vita, e d'inde n'andò in Cartaggine, ove elli non era mai entrato in ventisei anni ch'erano passati, che se ne partì la prima volta collo re Amilcar suo padre. Intanto li Romani che la vittoria avevano auta, si trassero a' padiglioni dello re Anibal, ove trovarono duecento miglia di grossi d'argento e grande quantità d'oro e tante altre ricchezze, che non si potrebbe dire nè contiare. In quella battaglia furono morti quaranta migliaia di Cartagginesi e cinque milia presi, e ottanta olifanti tra presi e morti. Intanto ch'e Romani ragunavano loro guadagno e loro prede, che seppellivano loro uomini morti secondo loro costume e loro usanza, Anibal ch'era in Cartaggine, ove grande dolore era fatto, parlò co' baroni e colli alti uomini di Cartaggine, e disse che neuno altro rimedio era, che di fare pace co' Romani, acciò che la città non fusse distratta nè confusa. E baroni e altri uomini di Cartaggine, che viddero e cognobbero che altrimenti non poteva essare, richiesero pace a Scipio, siccome avevano dinanzi divisato, e Scipio il consentì di volontà de' consoli e de' senatori, a cui mandò suoi messaggi, e ferma triegua fu fatta per cinquanta dì, tanto ch'e messaggi potessero andare e tornare. LXIX. Allora eran consoli a Roma Cornello Lentulo ed Elio Peto, per cui conseglio la pace fu fatta intra Cartagginesi e Romani. Quando la novella fu saputa e detta in Cartaggine, allora fecero grande gioia con tutte le sciagure che avevano aute, perciò che avevano pace con Scipio e con Romani, onde sapevano che Cartaggine non sarebbe distrutta. Questa pace non potè lo re Anibal vedere nè udire, anzi si partì della città dolente e corruccioso, e sì se n'andò facendo grande dolore allo re Antioco di Siria, che lo ricevette allegramente, e molto l'onorò per la grande prodezza e per lo ardimento che era in lui, e sì lo fece capitano di tutti suoi cavalieri e pedoni per mare e per terra. Intanto venne Scipio dinanzi a Cartaggine con tutta sua oste per ricevare e conventi de' Cartagginesi, siccome voi avete udito dire e parlare adietro. Allora fece prendare le navi, delle quali v'aveva più di cinquecento, molto riccamente apparecchiate, e sì le fece venire dinanzi alla città, e sì lo' comandò sopra tutti e patti che erano tra loro e Romani, che non mettessero più che trenta navi in mare insieme, sapendo che se passassero suo comandamento, elli li farebbe distruggiare; ed allora entrò Scipio in Cartaggine, e furonli le chiavi della città date e presentate. LXX. Allora vennero a lui tutti li cittadini delle città d'Affrica, e sottomissersi a fare sua volontà e sue comandamenta. Allora conquistò Scipio molto avere e molto tesoro, e sì donò franchigia a cui volse, e a cui volse la tolse, e sì abbattè tutte le fortezze d'Affrica; e quando elli ebbe ciò fatto, elli si tornò a Roma con grande vittoria e con grande onore riceuto da' consoli e da tutto l'altro popolo, e da quello dì innanzi fu chiamato Scipio Affricano, perciò ch'elli aveva tutta l'Affrica conquistata, siccome voi avete inteso. Ed era durata la detta guerra ventun anno, però che Anibal, siccome io v'ô detto, stette in Italia diciotto anni, e Scipio stette tre anni in Affrica, innanzi che sottomettesse Affrica a sua signoria; e sappiate che in sì breve tempo non avarebbe acquistata sì grande signoria, se non fusse le battaglie che fece con Anibal e vente, che aveva tutta la forza d'Affrica insieme ragunata. * * * * * Finite le siconde guerre che ebbero e Romani co' Cartagginesi, quando conquistaro Cartaggine e tutta Affrica. LXXI. Dopo due anni solamente infra sei cento anni che Roma era stata primamente fondata, nel tempo che Lucio Censorino e Marco Manio erano consoli di Roma, levonnosi contra a' Romani quelli d'Affrica la terza guerra; ma non si sa perchè la guerra si rincominciò, che molto fu grande e maravigliosa, onde la città di Cartaggine fu distrutta e confusa, siccome voi potrete udire e intendare. LXXII. Nel tempo che io v'ô detto, providdero li senatori e consoli e la comunità di Roma di distruggiare Cartaggine, e sì tosto come quello conseglio fu preso, lo consolo Lucio Censorino e Marco Manio e Publio Scipio furono eletti per passare il mare e per andare in Affrica. Costoro s'apparecchiaro molto riccamente di buoni cavalli e di ricche armadure, e molto assembraro grande gente appiè e a cavallo e molto avere. Quando esciro di Roma, costoro andaro tanto ch'ellino entraro in mare con grande navilio, e sì tosto come furo in mare, il vento si levò, il quale ferì nelle vele di diversi colori, e sì andaro tanto senza tempesta, che giunsero in Affrica assai presso a Cartaggine; e sì tosto come ebbero preso porto e l'àncore gittate in terra, ellino trassero delle navi cavalli e armadure, e sì si attendaro longo il porto alla marina, e là si riposaro li Romani tre dì, e intanto mandaro loro messaggi a' baroni della terra di Cartaggine, che lo' venissero a parlare, ed ellino così fecero; e sì tosto come e consoli di Roma li viddero, sì lo' comandaro che lo' dessero tutte loro navi e loro armadure per fare loro bisogno, perciò che none avevano recate tante armadure, quante a loro genti bisognava. A questo comandamento non si ristettero niente e Cartagginesi, anzi dierono a' Romani tutto loro navilio e galee altresì. Appresso lo' fecero arrecare fuore di Cartaggine sì grande quantità d'armadure, che tutte le genti d'Affrica se ne sarebbero potuti armare per difendare loro corpi in battaglia. LXXIII. Sappiate che mai sì grande quantità d'armadure non furono vedute, come ebbe allora dinanzi a Cartaggine. Quando e Cartagginesi ebbero date a' Romani loro armadure, così come voi avete udito, li Romani lo' comandaro che abbandonassero loro città e abbattessero loro fortezze, e sì si dilongassero dal mare dieci milia passi per fare loro magioni e loro casamente. Quando ciò intesero li Cartagginesi, ellino furono tutti corrucciati comunemente più per loro armadure, d'onde s'erano sforniti, che per nissuna altra cosa, però che non sapevano che si potere fare; ma nella fine s'accordaro a ciò che prima volevano morire nella città ed essare là entro sepolti, che nolla difendessero tanto quanto potessero; e tantosto elessero dentro a la città due alti uomini forti e possenti di grande signoria, de' quali l'uno aveva nome Famenca, e l'altro Asdrubal, che fussero duca e conducitori della città, e sopra a tutti li altri fu data la balia a Asdrubal. E sì tosto come ebbero ciò fatto e divisato, ellino fecero le porti della città serrare, acciò che neuno potesse nè entrare, nè uscire; poi fecero ragunare tutti li maestri della città, e fecero fare armadure di rame e di cuoio e d'oro e d'ariento e di metallo per loro bisogno e necessità del ferro. Là furo fatti li sberghi d'oro e d'argento, sicchè non vi fu risparmiata ricchezza, e di quello tanto di ferro e d'acciaio che eglino avevano, fecero fare spade e saette e dardi e ferri da lancie, e del rame e del cuoio fecero l'altre armadure. LXXIV. Quando li consoli romani viddero che li Cartagginesi non rispondevano a quello che l'avevano comandato, ellino ordinaro d'assalire la città, e che se prendare la potessero per forza, sì l'abbattarebbero infino a' fondamenti. Allora incominciaro a fare grandi torri di legname e altri ingegni sopra le navi medesime de' Cartagginesi, delle quali giognevano insieme sei e sette e legavanle insieme, perchè potessero portare maggiore peso e fussero più forti, secondo le grandi mura alte e grosse di pietra murate con fina calcina; e d'altra parte verso terra ferma fecero molti trabocchi e manganelli e altri edifizii per abbattare le mura. Molto s'apparecchiaro bene li Romani per distruggiare la ricca città di Cartaggine, che la reina Dido, che Elisa fu chiamata, aveva primamente per suo grande senno e per sua grande ricchezza cominciata e fondata. LXXV. Non vi lassarò ora al presente, che io non vi divisi Cartaggine come ella era posta e fondata. La città era tutta intorniata di mura, ed era dieci miglia passi di longhezza; le mura erano alte quaranta gomita, tutte di pietra murate a fina calcina, ch'era altresì forte come la pietra, ed erano grosse le mura trenta piei. Tutta la città poca ne falliva ch'era cinta di queste mura, e sì aveva due braccia di terreno che si stendevano infino al mare, e là entro veniva il mare, il quale era largo tre milia passi dall'uno braccio della terra a l'altro; e quello mare ch'era inentro, chiamavano li Cartagginesi stagno, perciò ch'e venti non vi potevano, perchè le mura erano alte e grosse, e la torre dall'una parte e dall'altra sì lo difendeva dal vento. Sopra quello stagno infra li due bracci della terra, ch'io v'ô detto, era la ricca torre, la quale Bisse era chiamata; questa torre era più di mille passi larga, e tanto era forte e grossa e di grande altezza, che pareva che giognesse alle nuvile. A quella nobile torre, che sopra al mare era posta, giognevano li forti muri della città alti e grossi, e molte più altre torri v'erano alte e grosse dalla parte dov'era il terreno; e aveva intorno fossi larghi e profondi, e all'entrata della città sopra le porti erano due torri per difendare l'entrata. LXXVI. Molto era la città di Cartaggine forte in quello tempo e fornita di buona gente provata e molto vigorosa, ma d'armadure per loro difendare avevano la maggiore parte grande mancamento. Li consoli di Roma, che grande numaro di gente avevano appiè e a cavallo, fecero la città assalire per mare e per terra, e tanto fecero che per forza gittaro co' loro ingegni alle mura di verso terra ferma, delle quali mura abbattero una grande parte, e quelli della città si difendevano vigorosamente con archi e con saette e con altri ingegni, ch'elli avevano fatti per loro difendare; ma tanto gli assalsero e Romani in diverse parti, che Lucio Censorino e gran parte di sua gente si missero per la città per le rotture ch'eglino avevano fatte nelle mura; ma li Cartagginesi se lo' fecero alla rincontra, che li ricevettero arditamente coll'aiuto di coloro ch'erano in sulle mura, che lo' gittavano grandi pietre, sicchè li rimissero per forza fuore della città; e molto v'arebbero allora li Romani riceuto danno, se non fusse Publio Scipio, che suo corpo solamente ritenne la forza de' Cartagginesi, e sì li rimisse a malgrado loro dentro alle mura per sua grande prodezza. LXXVII. E così rimase allora il primo assalto di Cartaggine, e li Cartagginesi racconciaro le mura il meglio che potero per loro difendare. Intanto li Romani abbandonaro Cartaggine, però che Masinieno lo re de' Mirmidoni, e quali erano stati loro amici per più di quaranta anni, esso passò di questa vita; e sì lassò nelle mani di Scipio tutto il suo reame e tre suoi figliuogli, chè non voleva che appresso sua morte fusse infra loro discordia e mala voglienza, però ch'elli cognosceva lo consolo Scipio tanto prudente e leale, che ciascuno de' suoi figliuogli farebbe stare contento; e tutto fece Masimieno per l'amore che Scipio li aveva portato e per sua grande gentilezza. LXXVIII. Intanto Marco Manio e Lucio Censorino assediaro la città di Tezagao in Affrica, la quale presero per forza, e uccisero dodici migliaia d'Affricani e sei milia ne presero, e in quella città conquistaro molto grande avere, della quale città fecero le mura abbattare. In quello tempo si ribellò contra a' Romani Sicondo Filippo di Macedonia, che da loro medesimi teneva la signoria. Incontra a costui fu mandato uno alto principe di Roma, che Juvasio era chiamato, con molta grande gente e cavallaria; ma sì tosto come gionsero in Macedonia, eglino s'assembrarono a battaglia contra a Sicondo Filippo. In quella battaglia fu morto e sconfitto Juvasio con tutta sua gente, della quale cosa ebbero e senatori e tutti e Romani grande dolore ed ira. LXXIX. Allora tornò Scipio lo consolo a Cartaggine con sua gente, poi ch'egli ebbe tutto lo reame de' Mirmidoni partito e dato a' tre frategli, che tenere dovevano la signoria, e quando furo tornati a Cartaggine, Scipio che consolo era per li Romani, a gran pena assentì che la terra fusse guasta e diserta; ma li Cartagginesi l'avevano rifornita e sì acconcia in tutte parti, che non dottavano persona, se non fussero e Romani, contra a cui non potevano avere nè soccorso nè aiuto, e allora li Romani s'armarono per assalire la città per mare e per terra. Là fu molto crudo assalto e molta pericolosa battaglia, però che sei dì e sei notti li Romani non finaro d'assalire e di combattare la città in più parti; là fu molta grande distruzione fatta di pedoni e di cavalieri di quelli d'entro e di quelli di fuore. LXXX. Molte fiate gittaro li Cartagginesi lo fuoco ardente sopra alli ingegni de' Romani, ma i Romani erano apparecchiati, che tostamente lo spegnevano; e quando venne il settimo dì, che l'assalto e la battaglia era durata senza riposo prendare, quelli della città, che bene vedevano che la città non si poteva più difendare, perciò che Scipio l'aveva già prese le prime difese di loro fortezze, e tutti coloro che le mura difendevano, aveva fatti fuggire, e niuno non si osava più di difendarla, allora cominciarono li Cartagginesi molto fortemente a gridare che Scipio li ricevesse, salve le persone, rimanendo suoi servi. LXXXI. Così s'arrendero e Cartagginesi a Scipio, che più non si potevano difendare contra alla forza de' Romani che l'avevano assediata; e allora vennero le donne e le donzelle della città, che grande dolore facevano dinanzi a Scipio, a cui erano menate dinanzi. Appresso vennero le compagne de' cavalieri e de' pedoni e d'altri uomini della città, de' quali v'erano più di trenta milia, tutti sanguinosi per lo combattare ch'avevano fatto per loro difendare, e delle femmine ve n'erano più di venticinque milia, molto triste e molto dolorose, però che Asdrubal loro signore si rendè a Scipio di sua volontà; e tantosto Scipio fece mettare fuoco per tutta la città nelle torri e nelle case e nelle magioni. Coloro che s'erano fuggiti ne' templi, si gittavano ne' fuochi di loro volontà per ardarsi. Quando la città fu tutta arsa, la donna d'Asdrubal con due suoi figliuogli ch'ell'aveva, si lassò cadere per disperata nella maggiore fiamma del fuoco ch'ella vidde, e subito arse. LXXXII. Così morì l'ultima reina di Cartaggine, che s'uccise per sua grande follìa così come la primaia. Là guadagnaro li Romani grande tesoro, ch'e Cartagginesi avevano assembrato di più contrade di Italia, di Cicilia e di Spagna e di molte altre contrade e città, ch'egli avevano robbate e distrutte; e quando tutto l'avere fu tratto fuore della città, Scipio lo fece rendare a coloro, a cui era stato tolto delle contrade e città, ch'io v'ô nominate. Intanto arse la città, che bene diecisette dì pugnò ad ardare, e allora fu Cartaggine al tutto distrutta e tutte le mura abbattute infino alle fondamenta, e non vi rimase nè torre, nè casa, nè magione, che non fusse a terra abbattuta e in cénare e in polvare tornata; e tutti i prigioni che vi furo presi, venderono e missero in servaggio, fuori che Asdrubal e certi alti prencipi di Cartaggine, e quagli furono menati a Roma. E sappiate che in capo di settecento anni che Cartaggine era stata primamente fondata, sì fu ella distrutta e disfatta, siccome Macrobio e più altri savi dicono. Quattro anni stettero e sopradetti consoli in Affrica innanzi che la distruggessero. Scipio per sua prodezza e per suo senno e per sua larghezza acquistò il sopranome di suo zio, e sì fu poi chiamato Scipio Affricano tutti e dì di sua vita. LXXXIII. Quando e Romani ebbero fatto di Affrica tutta la loro volontà, eglino sì si missero in mare con sì grande avere, che non si potrebbe contiare; e sì navicoro tanto a vele stese, che vennero in Italia, e poi se n'andaro a Roma. Della allegrezza e onore che lo' fu fatta da' senatori e dall'altro popolo di Roma non vi voglio lunghe parole fare, che troppo arei a dire, se raccontare ve le volessi al presente; e così fu Cartaggine distrutta e tutta Affrica sottomessa per li Romani. * * * * * Finita la prima e la siconda guerra e la terza, ch'e Romani ebbero co' Cartagginesi, le quagli guerre duroro circa a cinquanta anni, e in fine fu distrutta la città di Cartaggine dal popolo romano. * * * * * Questo libro scrisse Jacomo di Buccio di Ghinucci da Siena; finissi di scrivare a dì XVII di ferraio anni M.CCCC.LIIII Deo gratias. Amen. * * * * * Nota che questo libro è di Muciatto Cierretani, il quale â comprato oggi questo dì 22 d'aprile 1491 da Battista Cozaregli orafo. INDICE PREFAZIONE pag. 5 DELLA SECONDA E TERZA GUERRA PUNICA » 17 I. » 17 II. » 19 III. » 20 IV. » 22 V. » 24 VI. » 27 VII. » 29 VIII. » 30 IX. » 32 X. » 34 XI. » 35 XII. » 38 XIII. » 40 XIV. » 41 XV. » 45 XVI. » 47 XVII. » 48 XVIII. » 49 XIX. » 50 XX. » 52 XXI. » 54 XXII. » 55 XXIII. » 56 XXIV. » 59 XXV. » 60 XXVI. » 64 XXVII. » 67 XXVIII. » 68 XXIX. » 70 XXX. » 72 XXXI. » 74 XXXII. » 75 XXXIII. » 77 XXXIV. » 79 XXXV. » 80 XXXVI. » 82 XXXVII. » 85 XXXVIII. » 86 XXXIX. » 88 XL. » 89 XLI. » 92 XLII. » 94 XLIII. » 97 XLIV. » 98 XLV. » 99 XLVI. » 101 XLVII. » 104 XLVIII. » 105 XLIX. » 107 L. » 108 LI. » 110 LII. » 112 LIII. » 113 LIV. » 115 LV. » 117 LVI. » 118 LVII. » 119 LVIII. » 120 LIX. » 122 LX. » 123 LXI. » 124 LXII. » 125 LXIII. » 127 LXIV. » 128 LXV. » 129 LXVI. » 130 LXVII. » 132 LXVIII. » 134 LXIX. » 136 LXX. » 138 LXXI. » 139 LXXII. » 140 LXXIII. » 142 LXXIV. » 143 LXXV. » 145 LXXVI. » 146 LXXVII. » 148 LXXVIII. » 149 LXXIX. » 150 LXXX. » 151 LXXXI. » 152 LXXXII. » 153 LXXXIII. » 154 VOLUMI GIÀ PUBBLICATI 1. Novelle d'incerti autori L. 3.-- 2. Lezione o vero Cicalamento di M. Bartolino » 5.-- 3. Martirio d'una Fanciulla Faentina » 1.25 4. Due novelle morali » 1.50 5. Vita di messer Francesco Petrarca » 1.25 6. Storia d'una Fanciulla tradita da un suo amante » 1.75 7. Commento di ser Agresto Ficaruolo » 5.-- 8. La Mula, la Chiave e Madrigali » 1.50 9. Dodici Conti Morali » 4.-- 10. La Lusignacca » 2.-- 11. Dottrina dello Schiavo di Bari » 1.50 12. Il Passio o Vangelo di Nicodemo » 2.50 13. Sermone di S. Bernardino da Siena » 1.50 14. Storia d'una crudel matrigna » 2.50 15. Il Lamento della B. V. Maria e le Allegrezze in rima » 1.50 16. Il Libro della vita contemplativa » 1.50 17. Brieve Meditazione sui beneficii di Dio » 2.-- 18. La Vita di Romolo » 2.-- 19. Il Marchese di Saluzzo e la Griselda » 2.-- 20. Novella di Pier Geronimo Gentile Savonese. Vi è unito: Un'avventura amorosa di Ferdinando D'Aragona. Vi è pure unito: Le Compagnie de' Battuti in Roma » 2.50 21. Due Epistole d'Ovidio » 2.-- 22. Novelle di Marco Mantova scrittore del Secolo XVI. » 5.-- 23. Dell'Illustra et famosa historia di Lancillotto dal Lago » 2.-- 24. Saggio del Volgarizzamento antico » 2.50 25. Novella del Cerbino in ottava rima » 2.-- 26. Trattatello delle virtù. » 2.-- 27. Negoziazione di Giulio Ottonelli alla Corte di Spagna » 2.-- 28. Tancredi Principe di Salerno » 2.-- 29. Le Vite di Numa e T. Ostilio » 2.-- 30. La Epistola di S. Iacopo e i capitoli terzo e quarto del Vangelo di S. Giovanni » 2.-- 31. Storia di S. Clemente Papa » 3.-- 32. Il Libro delle Lamentazioni di Ieremia » 2.-- 33. Epistola di Alberto degli Albizzi a Martino V » 2.-- 34. I Saltarelli del Bronzina Pittore » 2.-- 35. Gibello. Novella inedita in ottava rima » 3.-- 36. Commento a una Canzone di Francesco Petrarca » 2.50 37. Vita e frammenti di Saffo da Mitilene » 3.-- 38. Rime di Stefano Vai rimatore pratese » 2.-- 39. Capitoli delle monache di Pontetetto presso Lucca » 2.50 40. Il libro della Cucina del Secolo XIV » 6.-- 41. Historia della Reina D'Oriente. » 3.-- 42. La Fisiognomia. Trattatello » 2.50 43. Storia della Reina Ester » 1.50 44. Sei Odi inedite di Francesco Redi » 2.-- 45. La Istoria di Maria per Ravenna » 2.-- 46. Trattatello della verginità » 2.-- 47. Lamento di Fiorenza » 2.-- 48. Un Viaggio a Perugia » 2.50 49. Il Tesoro. Canto carnascialesco » 1.50 50. Storia di Fra Michele Minorita » 6.-- 51. Dell'Arte del vetro per musaico » 6.-- 52-53. Leggende di alcuni Santi e Beati » 10.50 54. Regola dei Frati di S. Iacopo » 5.-- 55. Lettera de' Fraticelli a tutti i cristiani » 1.50 56. Giacoppo novella e la Ginevra novella incominciata » 3.-- 57. La leggenda di Sant'Albano » 4.-- 58. Sonetti giocosi » 2.50 59. Fiori di Medicina » 3.-- 60. Cronachetta di S. Germignano » 2.-- 61. Trattato di Virtù morali » 6.50 62. Proverbi di messer Antonio Cornazano » 8.-- 63. Fiore di Filosofi e di molti savi » 3.-- 64. Il libro dei Sette Savi di Roma » 3.60 65. Del libero arbitrio. Trattato di S. Bernardo » 4.-- 66. Delle Azioni e sentenze di Alessandro De' Medici » 6.-- 67. Pronostici d'Ipocrate. _Vi è unito._ Della scelta di curiosità letterarie » 3.50 68. Lo stimolo d'Amore attribuito a S. Bernardo. _Vi è unito:_ La Epistola di S. Bernardo e Raimondo » 3.-- 69. Ricordi sulla vita di F. Petrarca e di M. Laura » 1.50 70. Tractato del Diavolo co' Monaci » 2.50 71. Due Novelle » 3.50 72. Vbbie, Cancioni e Ciarpe » 3.-- 73. Specchio dei peccatori attribuito a S. Agostino » 2.50 74. Consiglio contro la pistolenza » 2.-- 75-76. Il volgarizzamento delle favole di Galfredo » 14.50 77. Poesie minori del Secolo XIV » 4.-- 78. Due Sermoni di Santo Efrem e la Laudazione di Iosef » 2.50 79. Cantare del Bel Gherardino » 2.-- 80. Fioretti dell'una e dell'altra fortuna di F. Petrarca » 8.-- 81. Cecchi Gio. Maria. Compendio di più ritratti » 3.-- 82. Rime di Bindo Bonichi da Siena edite ed inedite » 7.50 83. La Istoria di Ottinello e Giulia » 2.50 84. Pistola di S. Bernardo a' Frati del monte di Dio » 7.-- 85. Tre Novelle Rarissime del Secolo XIV » 5.-- 86¹ 86² 87-88. Il Paradiso degli Alberti » 40.-- 89. Madonna Lionessa. Cantare inedito del Secolo XIV aggiuntovi una Novella del Pecorone. _Vi è unito:_ Libro degli ordinamenti de la compagnia di S. M. del Carmino » 4.-- 90. Alcune Lettere famigliari del Secolo XIV » 2.50 91. Profezia dalla Guerra di Siena. _Vi è unito:_ Delle Favole di Galfredo. _Vi è pure unito:_ Due Opuscoli rarissimi del Secolo XVI » 5.50 92. Lettere di Diomede Borghesi. _Vi è unito:_ Quattro Lettere inedite di Daniello Bartoli » 3.50 93. Libro di Novelle Antiche » 7.50 94. Poesie Musicali dei Secoli XIV, XV e XVI » 3.-- 95. L'Orlandino. Canti due » 1.50 96. La Contenzione di Mona Costanza e Biagio » 1.50 97. Novellette morali Apologhi di S. Bernardino » 5.50 98. Un Viaggio di Clarice Orsini » 1.-- 99. La Leggenda di Vergogna » 7.50 100. Femia (Il) Sentenziato » 7.-- 101. Lettere inedite di B. Cavalcanti » 8.50 102. Libro Segreto di G. Dati » 3.80 103. Lettere di Bernardo Tasso » 7.-- 104. Del Tesoro volgarizzato di B. Latini. Libro I » 7.-- 105. Gidino. Trattato dei Ritmi Volgari » 10.50 106. Leggenda di Adamo ed Eva » 1.50 107. Novellino Provenzale » 8.-- 108. Lettere di Bernardo Cappello » 4.-- 109. Petrarca. Parma Liberata. Canzone » 6.50 110. Epistola di S. Girolamo ad Eustochio » 7.-- 111. Novellette di Curzio Marignolli » 3.50 112. Il Libro di Theodolo o vero la visione di Tantolo » 4.-- 113-114. Mandavilla Giovanni. Viaggi. Vol. 2. » 14.-- 115. Lettere di Pietro Vettori » 2.50 116. Lettere volgari del Secolo XIII » 6.50 117. Salviati Leonardo. Rime » 4.-- 118. La Seconda Spagna e l'Acquisto di Ponente » 12.-- 119. Novelle di Giovanni Sercambi » 12.-- 120. Bianchini. Carte da Giuoco in servigio dell'Istoria » 3.50 121. Scritti vari di G. B. Adriani e di Marcello suo figliuolo » 9.50 122 Batecchio. Commedia di Maggio » 4.-- 123-124. Viaggio di Carlo Magno in Ispagna » 16.-- 125. Del Governo dei Regni » 7.-- 126. Il Saltero della B. V. Maria » 7.-- 127. Il Tractato dei mesi di Bonvisin da Riva » 4.-- 128. La Visione di Tugdalo, secondo un testo del sec. XIII » 7.-- 129. Prose inedite del Cav. Leonardo Salviati » 6.-- 130. Volgarizzamento del Trattato della Cura degli Occhi » 4.-- 131. Trattato dell'Arte del Ballo » 4.-- 132-132.³ Lettere scritte all'Aretino parti 3. » 34.50 133. Rime di Poeti del Sec. XVI » 5.-- 134. Novelle di Ser Andrea Lancia » 2.50 135. I Cantari di Carduino, Tristano e Lancielotto » 5.50 136. Dati Giuliano, poemetto in ottava rima » 5.50 137. Zenone da Pistoia. La Pietosa Fonte » 7.50 138. Facezie e Motti de' sec. XV e XVI » 5.-- 139. Rime di Pietro De Faytinelli » 3.50 140. Libro della natura degli Uccelli, con figure » 2.-- 141. Buonacorso da Montemagno, prose » 4.-- 142. Eredia Luigi, rime » 3.-- 143. La terza deca di Tito Livio (Lib. I.) » 8.-- 144. La Navigatione del Colombo » 8.-- 145-146. Lettere inedite d'Illustri Bolognesi » 18.-- 147. La Defensione delle Donne » 7.50 DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Sonetti editi ed inediti di F. Ruspoli. Lettere di Laura Battiferri. Lettere scritte all'Aretino (Vol. II. Part. II.). Belincioni B. Sonetti, Canzoni ecc. Livio Tito, terza Deca volgarizzata. (Lib. II.). =NOTE DEL TRASCRITTORE= Il testo è una trascrizione letterale di un manoscritto della metà del XV. secolo. Pertanto, la forma è piuttosto bizzarra e molto antiquata, ma è stata ovviamente mantenuta esattamente come nell'originale. Sono stati corretti gli ovvii errori tipografici. End of Project Gutenberg's La Seconda e Terza Guerra Punica, by Antonio Ceruti *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 45126 ***